Lautore stesso non volle assistere né alla
première parigina né ad alcuna replica, nellolimpica convinzione che la sua opera fosse nata già «troppo vecchia per vivere a lungo»;
Berlioz, sempre autoassolutorio con sé stesso ma sarcastico con gli altri, disturbò lo svolgimento della “prima” gridando dalla platea che offriva quaranta franchi per unidea musicale che fosse una; e anche quando
Ali Baba di
Cherubini si riaffacciò timidamente nel ventesimo secolo alla Scala (tre sole recite nel 1963), l
establishment della critica musicale accolse con noia il ripescaggio di questo tardo lavoro operistico dellautore di
Medea. Unica voce fuori dal coro fu
Eugenio Montale, con la sua recensione incuriosita e argomentata: ma i poeti, si sa, riescono sempre a guardare più lontano.
In mancanza di un Montale (che come critico musicale non era un dilettante di genio, ma aveva fatto studi di canto), oggi il “pensiero unico” attecchisce ancora di più: a Milano è stato salutato con mugugni il ritorno di Ali Baba alla Scala, insignito questa volta di una decina di repliche. Certo, lopera brilla per qualità formali piuttosto che zampate accattivanti: da un compositore erudito e pensoso come il settantatreenne Luigi Cherubini – ancora prodigo di musica sacra e quartetti darchi, ma la cui vena operistica taceva ormai da un ventennio – Ali Baba ou Les quarante voleurs (1833) assume il sapore dun lavoro postumo in vita. Pure la sua genesi, prosaica nelle motivazioni (necessità economiche indussero lanziano musicista a tentare unultima rentrée teatrale) e accidentata nel percorso (il lavoro fu concepito come opéra comique doccasione, poi lievitando fino a diventare un grand-opéra sentimental-fiabesco), sembra gettare le basi per una drammaturgia lacunosa. E, in effetti, almeno il finale – lieto ma “nero”, con la cruenta punizione dei ladroni letteralmente bruciati – non sembra adeguatamente preparato dal compositore e dai suoi librettisti.
Un momento dello spettacolo
© Marco Brescia e Rudy Amisano
In ogni caso, come accade spesso in Cherubini (e non solo in quello senile di questopera), è lorchestra, non il canto, a delineare ogni spunto scenico e psicologico: il melodizzare ha sempre un preciso substrato sinfonico e anche quando ci si abbandona al flusso della vocalità, come nella romanza del tenore, le squisitezze della strumentazione – lussureggiante il dialogo tra flauto e arpa – contano più delle bellurie canore. Per tutti i personaggi vige un recitativo declamatorio ma duttilissimo, perfetto nel raccontare le vette dellamore e gli abissi della cupidigia umana: è loro, o meglio la sua brama di conquista, il vero protagonista di Ali Baba, e il mercante che dà il titolo allopera (meno simpatico dellomonimo taglialegna delle Mille e una notte) appare più avido degli stessi quaranta ladroni.
In questo gran teatro del mondo il vecchio Cherubini si muove con passo stanco, ma meditato. La diffidenza verso lindugio melodico lo porta a un profluvio didee musicali appena accennate e subito ritratte, come non volesse farle sedimentare nella memoria degli ascoltatori, continuando ad accumulare spunti che solo di rado evolvono in autentico materiale tematico: modo di procedere, a ben guardare, non troppo distante da quello che sessantanni dopo – con risultati certo più alti – avrebbe fatto un altro grande vecchio al suo rientro nellagone operistico, ossia, ovviamente, Verdi nel Falstaff. Una serena riformulazione dei giudizi su Ali Baba, dunque, potrà passare solo attraverso una direzione che sappia cogliere tutte queste sollecitazioni. In altre parole, si tratta di unopera che richiede una maturità straordinaria al concertatore, agli orchestrali, ai solisti: sotto tale profilo, scegliendo questanno lopera di Cherubini come titolo del Progetto Accademia, la Scala ha fatto una scelta sbagliata.
Un momento dello spettacolo
© Marco Brescia e Rudy Amisano
Si tratta, infatti, dellannuale produzione scaligera affidata a giovani strumentisti, cantanti e ballerini (anche le danze hanno un peso non indifferente in Ali Baba) dei corsi di perfezionamento del teatro: professionalità quali ancora acerbe e quali già salde, ma tutte inevitabilmente lontane da quella scaltra sapienza che una partitura come questa impone dal primo allultimo esecutore. Né dal podio giunge una “regia musicale” illuminante e coesa: Paolo Carignani cerca di reggere le fila dellopera con una paratattica correttezza priva di autentica plasticità di resa. Dellasciuttezza espressiva di questa partitura coglie – o fa cogliere ai suoi orchestrali – più la severità che licasticità e, in definitiva, linequivocabile “presa di distanza” di Cherubini dal materiale drammatico che affronta non lievita mai, con la bacchetta di Carignani, nella pacata ma frastagliata forza centrifuga dellesercizio di stile. Anche se forse avere scelto lobsoleta e sforbiciata versione italiana di Vito Frazzi, già proposta alla Scala nel 63, non ha aiutato ad afferrare certe sfumature che loriginale versione francese avrebbe meglio restituito.
La parte scenica, invece, approda a esiti più convincenti. Liliana Cavani impagina uno spettacolo classico-moderno, che parte dalloggi (quattro giovani in biblioteca alle prese con le fiabe arabe) per poi catapultarci in un Oriente atemporale (con quegli stessi ragazzi trasformati nei protagonisti della vicenda): un gioco che funziona perché poco insistito – alla Cavani preme raccontare, non sovrastrutturare – e perché, in definitiva, illustra lo stesso tipo di transito di Cherubini, musicista fuori dai suoi tempi ma sempre dentro la Storia. Le scene di Leila Fteita – con la loro Arabia stilizzata e di fantasia, ma non “mentale” – si prestano bene al disegno registico, mentre appaiono meno congrue, in rapporto al progetto della Cavani, le coreografie di Emanuela Tagliavia, dove sembrano trapelare ironiche suggestioni dei varietà televisivi dei bei tempi andati.
Un momento dello spettacolo
© Marco Brescia e Rudy Amisano
La compagnia di canto (doppio cast tutto di principianti) ha tratto ottimo profitto dal lungo workshop svolto con la regista, mostrando una naturalezza scenica superiore alla fluidità canora. Il lirismo calibrato e gentile del soprano Francesca Manzo – lelemento migliore nella recita di cui si dà conto – è comunque già oggi una garanzia; e se per il tenore Riccardo Della Sciucca non tutto larco dellemissione è perfettamente a fuoco, va detto che il suo è ruolo ben più problematico quanto a estensione e tessitura. Il giovane cantante laffronta con simpatia insieme tenera e spavalda, ottenendo esiti più che onorevoli.
La schiava Morgiana non è in Cherubini quel personaggio memorabile che è nelle Mille e una notte, ma Alice Quintavalla le dà sapore, gestendo bene, al contempo, una scrittura in bilico tra soprano e mezzosoprano. Il terzetto dei ladroni (i restanti trentasette non assurgono a momenti solistici) ha il punto di forza nel basso Maharram Huseynov e la vetta di simpatia nel tenore Chuan Wang. Le qualità mimico-attoriali del buffo Eugenio Di Lieto (una maschera da commediante che sarebbe piaciuta a Fellini come a Dino Risi) fanno dimenticare, in parte, lemissione arida e cruda. Sicché alla fine lunico inadeguato sembra proprio Ali Baba: protagonista nominale e non di fatto (la coppia di amorosi ha ben più spazio), che richiede un basso-baritono con qualità di dicitore robusto e ben timbrato. Paolo Ingrasciotta è apparso un po sottodimensionato, ma una prova dappello gli spetta senzaltro.