La volontà di ripercorrere il tempo e la
memoria ha riportato Alfonso Cuarón alle sue radici e al suo Messico, paese natale
che aveva lasciato con grande commozione sulla spiaggia di Y
tu mama tambien: limmagine dei tre
vitali protagonisti che ammiravano il mare era lì metafora di una scelta di
vita più consapevole, lontano dalla famiglia e dalla sicurezza giovanile. Così,
dopo lOscar ottenuto esplorando il profondo vuoto dello spazio (il citato Gravity), per Cuarón è arrivata lora di ritornare a
casa. Guardarsi alle spalle a distanza di tempo non è solo frutto della
nostalgia, ma anche un modo per affermarsi nel mondo, capire che tipo di
persona si vuol essere e quale eredità si intende lasciare a chi verrà dopo di
noi. Già presente in forma distopica nel complesso I figli
degli uomini, la rimembranza del tempo che fu e la costruzione di un
domani migliore per i “figli” sembra essere il motivo per cui Roma è stato concepito, avendo voluto immortalare per
i posteri un passato daffetti e avventure che non deve essere confinato solo
in una sfera privata. Un film che dimostra una rottura col passato (anche
cinematografico) senza mai perderlo di vista.
Già presente nellepilogo dellodissea kubrickiana di Gravity, lacqua come elemento di nascita e rinascita irrompe dietro i titoli di testa quasi a volerli cancellare, con un movimento ondulatorio che ricorda il mare sulla battigia. Specchiato su un piccolo frammento di “mare” si intravede un piccolo aereo di linea in volo, forse simbolo di una speranza o di un futuro probabile. In verità ci troviamo nel cortile interno di una villa medio-borghese (in un quartiere di Città del Messico chiamato per lappunto Roma), dove la domestica Cloe sta pulendo le piastrelle in attesa del ritorno della famiglia per cui lavora. La macchina da presa poi si alza svelando il contesto e iniziando una danza piano-sequenziale nel flusso mnemonico, fattosi forza di tutta la tecnica che Cuarón ha affinato nel tempo: dai carrelli ai dolly a un piccolo bagaglio di effettistica digitale (soprattutto nel bianco e nero che sembra richiamare gli ultimi lavori di Lav Diaz), il regista messicano usa ogni strumento a lui più congeniale per muoversi in unarchitettura scenografica piena zeppa di storia-Storia, persone microcosmi, spazi vitali e oggettistica dal forte carico emotivo.
Una scena del film © Biennale Cinema 2018
Al fianco del semplice intreccio che ruota
intorno a quella che nella finzione è la numerosa famiglia di Cuarón (nonna,
madre, padre e tre fratelli), comprensiva di tutto lapparato domestico (il
vero protagonista), si sente lodore degli anni Settanta con i problemi
sociali e politici ricostruiti in modo da non restringerli al ruolo di mera
cornice bensì da innalzarli a cuore pulsante dietro qualsiasi gesto. Non a caso
una delle sequenze più belle è la cruenta soppressione di un corteo
studentesco, visibile dallalto attraverso la finestra di un edificio.
Come se non bastasse, trasuda politica tutto
il percorso “di formazione” di Cloe (Yalitza
Aparicio), soprattutto da quando rimane incinta di colui che pensava
potesse essere il suo compagno di vita: una maternità a tappe che rimanda alla
riflessione sul ruolo della donna negli ambiti lavorativo, civile e famigliare.
«Qualsiasi cosa ti
dicano, noi siamo sole» le viene detto dalla signora di casa in
balia dellalcol e della delusione. Mentre Cloe aspetta con tanta incertezza il
realizzarsi delleredità (che si tramuterà in un lancinante senso di colpa), la
famiglia che la ospita deve affrontare la separazione dei genitori e capire
limportanza del ruolo materno in una condizione di solitudine; su binari
paralleli, questi viaggi intimi e complementari ne vanno a costruire un altro
di più ampio respiro in cui ci si chiede quali siano gli elementi che
definiscono un nucleo famigliare, al di là della tradizione e delle aspettative
socialmente riconosciute. Una scena del film © Biennale Cinema 2018
Scavando nel sostrato cinefilo tipico della produzione di Cuarón, la Roma del titolo potrebbe essere un simbolo: non tanto di qualcosa oltre i confini del Messico cui aspirare quanto dellesistenza in ogni parte del globo di un luogo mitologico sempre al centro dellesistenza umana, come la stessa Città Eterna frutto delle ossessioni dei tanti registi italiani presi quale fonte dispirazione (Pasolini, Fellini, i fratelli Taviani). Vedendo quanto la vita a Città del Messico si realizzi in pochi spazi di raduno (che sia un cortile, un cinema “paradiso” o una galleria piena di macchine che sembra uscire da 8 e mezzo) non può che venire in mente la concezione universale della Capitale felliniana, in cui si metteva in scena lintero genere umano nella sua storia-Storia e nelle sue ironiche, circensi contraddizioni. Infine, attraverso una precisa e incantevole struttura ciclica, ritorna limmagine di una spiaggia paradisiaca dove si compie ancora una volta la rinascita dellessere umano capace ormai di accettare la bellezza dellessere “qui e ora” e di avere un ruolo da svolgere per laltrui felicità. Il mare è nuovamente il fulcro di senso di un racconto che, nonostante numerose insidie e sofferenze, non si lascia mai andare a un profondo sconforto. Come lo spettatore che rimane totalmente incantato e commosso da così tanto amore le infinite declinazioni del cinema e della vita.
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