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L'insensata libertà dei poveri cristi

di Daniele Palma
  Il Prigioniero
Data di pubblicazione su web 13/07/2018  

Mettere in cartellone un’opera del Novecento è impresa che conserva un certo carattere di sfida anche per un festival di rilievo internazionale come il Maggio Musicale Fiorentino, abituato a contare su spettatori attenti, curiosi, colti. Accostarvi un lavoro pensato non per il teatro, anzi già affidato di malavoglia alle sorti della carta stampata, significa rischiare che la serata oscilli tra inni al miracolo e la débâcle, lasciando nel mezzo ampie fette di dubbiosi o, peggio, di indifferenti. Ciò vale anche se l’opera novecentesca ha titolo Il Prigioniero, la paternità è di un compositore grande come Luigi Dallapiccola in un anno di celebrazioni a lui dedicate e alle spalle c’è una lunga tradizione esecutiva, a Firenze come altrove. Accade anche – e forse più – se a completare il dittico per “fare serata” ci sono i Quattro pezzi sacri di Giuseppe Verdi.

Mettere insieme queste partiture di Dallapiccola e Verdi rappresenta una scelta per nulla banale capace di fare appello a due momenti profondi della riflessione sulla libertà. Sotto i riflettori non ci sono né i popoli (come per La Battaglia di Legnagno), né l’artista alle prese con la propria autocoscienza di creatore (il René Cardillac di Hindemith in un altro allestimento di questa edizione del festival). Protagonista è l’individuo anonimo, aspecifico (un prigioniero, non tale prigioniero), schiacciato tra forze diverse e incommensurabili: ora quella del Potere e, per inciso, dei Fratelli che si trasformano in carnefici; ora quella di Dio, che vi si creda o meno. La claustrofobica illusione della speranza, che arriva al Prigioniero dai Racconti crudeli di Villiers de l'Isle-Adam, mantiene ancora oggi intatta la sua eco, nonostante forse non si respiri l’aria di macerie che saturò l’intera gestazione dell’opera dal 1942 al 1948. Le fa il paio la religiosità sofferta delle ultime pagine del bussetano: affreschi sinfonico-corali in cui la piena maturità compositiva trascolora in senile riflessione, non senza guizzi auto-ironici quali l'Ave Maria, vero e proprio divertissement sulla scala “enigmatica” che Adolfo Crescentini aveva pubblicato sulle pagine della «Gazzetta musicale di Milano» (n. 32, 5 agosto 1888), sfidando chiunque si fosse azzardato ad armonizzarla.

Dato questo potenziale, tanto più problematiche sono risultate le modalità dell’operazione di “accostamento”, che non potevano scampare qualche forzatura, una delle quali evidentissima: dare veste scenica ai Pezzi sacri imprimendo nel tessuto musicale una serie di azioni ulteriori rispetto al tracciato dei quattro testi liturgici. Artefice il coreografo Virgilio Sieni, che ha affidato alla sua compagnia l’onere di “danzare” l’intero spettacolo. 


Un momento dello spettacolo
© Camilla Riccò

Alla prima alzata del sipario, grazie ai giochi di luce di Mattia Bagnoli un telo bianco accoglie l’inquietante sogno in cui la Madre vede il Prigioniero ghermito dalla morte. I richiami all’arte pittorica sono nettissimi: una Maria Maddalena di ascendenza donatellesca, lei, un sanguinolento Cristo alla Piero della Francesca, lui; entrambi moltiplicati sulla scena dai ballerini i cui gesti ripetono all’infinito tutte le sfumature dell’angoscia e della disperazione dando vita a un proliferare simile a quello di vermi da una ferita purulenta. A ciò si somma il nulla fagocitante di un palco nero e vuoto: unica via d’uscita è una porticina sul fondo da cui incede il Carceriere. Vestito come un macellaio, va sussurrando all’anima: «Fratello» e induce il Prigioniero nel suo cieco cammino di speranza. Nella terza scena, mentre striscia su un parallelepipedo che sta per gli infiniti cunicoli del carcere di Saragozza, il Cristo di Sieni sparge sangue dall’inguine, richiamando l’immagine di Amfortas nel Parsifal wagneriano. Mentre si avanza verso l’aria aperta il coro fuori scena intona in stridente ironia il Salmo 51 che apre il Mattutino nell’Ufficio delle Ore, e «Domine Deus! Languendo, gemendo et genuflectendo» dai Canti di prigionia dello stesso Dallapiccola. Cala il telo bianco dell’inizio e contro bagliori viola-rossi si staglia una croce sghemba verso cui il Carceriere, trasformatosi in Grande Inquisitore, conduce l’attonito Prigioniero.


Un momento dello spettacolo
© Camilla Riccò

Quando, dopo la pausa, il sipario si rialza per far posto a Verdi, troviamo un mondo totalmente rovesciato: vi domina il bianco accecante degli abiti dei coristi, della pedana su cui sono disposti e delle luci che li inondano. Su questo sfondo spicca l’ocra dei danzatori, statue di terracotta alla stregua di quelle del Compianto di Nicolò dell'Arca che si animano per mimare, in successione, quattro quadri: una donna anziana mentre raccoglie cibo da un cassonetto; naufraghi aggrappati alle stesse travi che formavano la croce del Prigioniero; una liturgia di commemorazione dei morti; la morte stessa, incarnata in simulacri dell’età infantile quali un triciclo, un passeggino, una palla. Una danzatrice svolge le funzioni di corifeo coordinando i movimenti dei coristi tra un brano e l’altro: gesti solenni e lenti che allungano l’esecuzione dei Quattro pezzi sacri con quasi venti minuti di silenzio. 

A fare le spese di un impianto scenico così in primo piano, soprattutto nel caso di Verdi, è la musica. Dal podio Michael Boder offre una lettura calibrata delle asperità del Prigioniero: a perdersi maggiormente sono gli slanci lirici, specie nella Ballata della Madre nel Prologo e nell’Aria del Carceriere nella scena terza. I volumi orchestrali non agevolano il compito a tratti ingrato dei solisti, ma l’impressione generale è quella di un’orchestrazione ben cesellata; prova ne siano le sfumature che sottolineano i ritorni del tema sotteso alla parola «fratello». Nei Pezzi sacri, invece, la situazione si rovescia: gli episodi in forte sono incisivi, squarci nel velo del tempo, mentre per il resto Boder sembra accontentarsi di “portare a casa” l’esecuzione. Dirige con gesti larghissimi – probabilmente per farsi vedere dai coristi confinati a trenta metri da lui e ostacolati da gommoni travi cassonetti in movimento – il che si traduce in attacchi spesso imprecisi e in tempi dilatati senza una chiara ratio reciproca. Buona ma non eccellente la prova del coro, preparato come sempre da Lorenzo Fratini, per via delle suddette sbavature come pure di qualche battimento di troppo in caso di scrittura omofonica (si veda il gregoriano iniziale del Te Deum) o accordale.


Un momento dello spettacolo
© Camilla Riccò

Non uniforme la prova dei solisti nel Prigioniero. Anna Maria Chiuri (Madre), grande voce e bel timbro mezzosopranile, risolve senza grosse difficoltà la parte e le si perdona qualche acuto forse un po’ al limite. John Danszak (Carceriere/Grande Inquisitore) è autorevolmente viscido, ma tanta ben riuscita ipocrisia nella recitazione non riesce a mascherare una voce di per sé poco gradevole e stimbrata negli acuti. Leven Bakirci ottiene i pieni voti per l’eccezionale resa scenica del protagonista: benché perda progressivamente duttilità nell’emissione e i suoi «Alleluja» finali denuncino tutta la stanchezza dello strumento, ciò che altrove risulterebbe inaccettabile qui non disturba l’ascolto, anzi amplifica l’empatia per le sofferenze del Prigioniero. Corretti i due sacerdoti di Antonio Garés e Adriano Gramigni, come pure l’intervento solistico di Thalida Marina Fogarasi nel Te Deum

Al netto del problema pratico della “tenuta” dello spettacolo, soprattutto nella seconda parte (complice anche il malore di una corista); al netto, poi, della liceità estetica di una drammaturgia che oscilla tra la disturbante sovrapposizione e la coinvolgente moltiplicazione di senso, ciò che resta è un interrogativo sull’unitarietà della serata. Unitarietà che, fuor di dubbio, Sieni persegue, scegliendo la strada di un repentino passaggio narrativo dalla vicenda particolare di un simil-Cristo a quella di tanti poveri cristi, il tutto schiacciato in una dimensione atemporale. Ma sono inevitabili i rimandi polemici al dibattito politico dei nostri giorni: alcuni storcono il naso, altri applaudono entusiasti. Molti, forse troppi, restano indifferenti.



Il Prigioniero / Quattro pezzi sacri

Il Prigioniero. Un prologo e un atto
cast cast & credits
 
trama trama
Quattro pezzi sacri
cast cast & credits
 
trama trama



Un momento dello spettacolo
© Camilla Riccò

 
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