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Attualità di Cimarosa

di Riccardo Cenci
  L'impresario in angustie
Data di pubblicazione su web 18/07/2018  

Nell’esistenza solitamente effimera delle farse teatrali e degli intermezzi, destinati a un rapido consumo, L’impresario in angustie di Domenico Cimarosa rappresenta un’eccezione simile alla Serva padrona pergolesiana. Ideato come terzo atto per una ripresa de Il credulo, trascende i ristretti limiti dell’occasione rappresentativa per acquistare una vita autonoma. Merito anche del librettista Giuseppe Maria Diodati, rilevante protagonista della fase estrema della scuola napoletana, aver costruito un testo che, al di là delle inevitabili concessioni al gusto coevo, inserisce le convenzioni del genere farsesco in una interessante confezione meta-teatrale. 

In quest’ottica Cimarosa si rivela, ancora una volta, drammaturgo intelligente e versatile. Caratteri stereotipati come l’impresario imbroglione, il musicista privo di ispirazione, la primadonna isterica e presuntuosa si rivestono di una spiccata umanità. L’ambiente teatrale, afflitto da perenni angustie finanziarie, appare specchio del mondo intero, microcosmo nel quale si riflettono ansie e conflitti più ampi. L’azione annunciata e sempre rimandata, le aspettative costantemente frustrate creano un senso di attesa che sarebbe certo esagerato definire beckettiano, ma che comunque assume caratteri eminentemente moderni. Lo scioglimento conclusivo della compagnia addita un fallimento distante da qualsiasi catarsi.


Un momento dello spettacolo
© Irene Trancossi

Per le rappresentazioni al Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano la regista Caterina Panti Liberovici intende sfruttare al massimo questi spunti, mettendo in scena una riflessione sull’attuale crisi del teatro e della cultura in generale, sulla frizione fra l’opera d’arte, minacciata da una mortale immobilità, e la sua realizzazione concreta. A tale scopo costruisce un vero e proprio adattamento drammaturgico che, oltre a intessere una fitta trama di citazioni, da Pirandello a Strehler, introduce il personaggio inedito del regista, i cui slanci utopici sono destinati a infrangersi contro la cruda realtà. All’inizio lo vediamo sottrarre letteralmente alla polvere i propri personaggi, fragili ectoplasmi animati da una vita effimera, simboli di un mondo logoro e usurato. Un inizio di indubbia suggestione che trova eco e risonanza in alcune idee altrettanto valide (i protagonisti spogliati dei propri costumi che si agitano in alto come simulacri inservibili e distanti).


Un momento dello spettacolo
© Irene Trancossi

Eppure, alla fine, resta l’impressione di un qualcosa di irrisolto. L’eccessivo peso dato alla parola recitata sottrae spazio alla musica che appare quasi come un accessorio. Peccato, perché l’ispirazione del compositore di Aversa è, come di consueto, fresca e brillante. Le numerose sollecitazioni intellettualistiche paiono girare intorno a un obiettivo che viene solo in parte centrato. Il sentimento pirandelliano di estraneità rispetto al mondo, l’immagine delle larve angosciose che abitano la coscienza umana sovraccaricano l’estetica settecentesca di un peso che questa non può sostenere. A soffrire di più è il divertimento che pervade l’opera di Cimarosa. Una vis comica tale da spingere un gigante della cultura come Wolfgang Goethe, il quale aveva assistito a una sua rappresentazione romana, a portare la farsa a Weimar traducendone personalmente il testo in tedesco. Un’operazione coronata da successive riprese come quella del 1797, con una nuova elaborazione librettistica di Cristoph Vulpius, e l’inserimento di due liriche dello stesso Goethe. Evidentemente l’opera aveva lasciato un solco profondo nella sua anima.


Un momento dello spettacolo
© Irene Trancossi

Così il poeta nel Viaggio in Italia: «A tarda sera, all’Opera buffa. Si dà un intermezzo nuovo: L’impresario in angustie, ottimo lavoro, che ci divertirà qualche sera a dispetto del gran caldo in sala. C’è un quintetto, riuscitissimo, in cui il poeta legge il suo pezzo, l’impresario e la prima donna da una parte lo applaudiscono, il compositore e la seconda donna dall’altra lo criticano, dopo di che succede un baccano generale» (nell’ediz. a cura di Lorenzo Rega, Milano, Rizzoli, 1991, p. 396). Goethe si riferisce al brano più complesso e riuscito dell’intera partitura, quasi una prefigurazione dei grandi ensemble rossiniani. Peccato che la regista abbia deciso di inserire una pausa proprio all’interno di questo pezzo, creando una divisione dell’atto unico in due sezioni che, in realtà, non esiste.


Un momento dello spettacolo
© Irene Trancossi

Godibile l’esecuzione musicale. Roland Böer ottiene il massimo dalla giovane Orchestra Poliziana, strumento duttile nelle sue mani esperte. Fra gli interpreti una menzione meritano la Fiordispina di Dioklea Hoxha e il Gelindo Scagliozzi di Claudio Zazzaro. Claudio Mugnaini (Don Crisobolo) supplisce allo scarso peso vocale con una frizzante verve interpretativa. Brave Silvia Alice Gianolla nel ruolo di Merlina e Vittoria Licostini in quello di Doralba. Un poco ingessato dal punto di vista scenico il Don Perizonio di Francesco Samuele Venuti, ancorché vocalmente appropriato. Cristian Maria Giammarini affronta la parte recitata del regista con impeto e partecipazione. Pregevole infine Stefano Bernardini nel ruolo secondario di Strabinio, privo di arie ma di ampio respiro attoriale. 

Nell’ottica del Cantiere, improntata da sempre alla valorizzazione dei giovani, rientrava anche il concerto della Cambridge University Orchestra che, sotto l’attenta direzione di Naomi Woo, ha dato buona prova di sé nell’Ouverture del Barbiere di Siviglia, nelle Variazioni Sinfoniche di Antonin Dvořák e nella Quinta Sinfonia di Čajkovskij.



L'impresario in angustie



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Un momento dello spettacolo visto al Cantiere di Montepulciano il 14 luglio 2018


 
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