Nellesistenza solitamente
effimera delle farse teatrali e degli intermezzi, destinati a un rapido consumo,
Limpresario in angustie di Domenico
Cimarosa rappresenta uneccezione simile alla Serva padrona pergolesiana.
Ideato come terzo atto per una ripresa de Il credulo, trascende i ristretti limiti
delloccasione rappresentativa per acquistare una vita autonoma. Merito anche
del librettista Giuseppe Maria Diodati,
rilevante protagonista della fase estrema della scuola napoletana, aver
costruito un testo che, al di là delle inevitabili concessioni al gusto coevo,
inserisce le convenzioni del genere farsesco in una interessante confezione
meta-teatrale.
In questottica Cimarosa si
rivela, ancora una volta, drammaturgo intelligente e versatile. Caratteri
stereotipati come limpresario imbroglione, il musicista privo di ispirazione,
la primadonna isterica e presuntuosa si rivestono di una spiccata umanità.
Lambiente teatrale, afflitto da perenni angustie finanziarie, appare specchio
del mondo intero, microcosmo nel quale si riflettono ansie e conflitti più
ampi. Lazione annunciata e sempre rimandata, le aspettative costantemente
frustrate creano un senso di attesa che sarebbe certo esagerato definire
beckettiano, ma che comunque assume caratteri eminentemente moderni. Lo
scioglimento conclusivo della compagnia addita un fallimento distante da
qualsiasi catarsi.
Un momento dello spettacolo © Irene Trancossi
Per le rappresentazioni al
Cantiere Internazionale dArte di Montepulciano la regista Caterina Panti Liberovici intende sfruttare al massimo questi
spunti, mettendo in scena una riflessione sullattuale crisi del teatro e della
cultura in generale, sulla frizione fra lopera darte, minacciata da una
mortale immobilità, e la sua realizzazione concreta. A tale scopo costruisce un
vero e proprio adattamento drammaturgico che, oltre a intessere una fitta trama
di citazioni, da Pirandello a Strehler, introduce il personaggio
inedito del regista, i cui slanci utopici sono destinati a infrangersi contro
la cruda realtà. Allinizio lo vediamo sottrarre letteralmente alla polvere i
propri personaggi, fragili ectoplasmi animati da una vita effimera, simboli di
un mondo logoro e usurato. Un inizio di indubbia suggestione che trova eco e
risonanza in alcune idee altrettanto valide (i protagonisti spogliati dei
propri costumi che si agitano in alto come simulacri inservibili e distanti).
Un momento dello spettacolo © Irene Trancossi
Eppure, alla fine, resta
limpressione di un qualcosa di irrisolto. Leccessivo peso dato alla parola
recitata sottrae spazio alla musica che appare quasi come un accessorio.
Peccato, perché lispirazione del compositore di Aversa è, come di consueto,
fresca e brillante. Le numerose sollecitazioni intellettualistiche paiono
girare intorno a un obiettivo che viene solo in parte centrato. Il sentimento
pirandelliano di estraneità rispetto al mondo, limmagine delle larve
angosciose che abitano la coscienza umana sovraccaricano lestetica
settecentesca di un peso che questa non può sostenere. A soffrire di più è il
divertimento che pervade lopera di Cimarosa. Una vis comica tale da
spingere un gigante della cultura come Wolfgang
Goethe, il quale aveva assistito a
una sua rappresentazione romana, a portare la farsa a Weimar traducendone
personalmente il testo in tedesco. Unoperazione coronata da successive riprese
come quella del 1797, con una nuova elaborazione librettistica di Cristoph Vulpius, e linserimento di
due liriche dello stesso Goethe. Evidentemente lopera aveva lasciato un solco
profondo nella sua anima.
Un momento dello spettacolo © Irene Trancossi
Così il poeta nel Viaggio in
Italia: «A tarda sera, allOpera
buffa. Si dà un intermezzo nuovo: Limpresario in angustie, ottimo lavoro, che
ci divertirà qualche sera a dispetto del gran caldo in sala. Cè un quintetto,
riuscitissimo, in cui il poeta legge il suo pezzo, limpresario e la prima
donna da una parte lo applaudiscono, il compositore e la seconda donna
dallaltra lo criticano, dopo di che succede un baccano generale» (nellediz. a
cura di Lorenzo Rega, Milano, Rizzoli, 1991, p. 396). Goethe si riferisce al brano più complesso e riuscito
dellintera partitura, quasi una prefigurazione dei grandi ensemble rossiniani.
Peccato che la regista abbia deciso di inserire una pausa proprio allinterno
di questo pezzo, creando una divisione dellatto unico in due sezioni che, in
realtà, non esiste.
Un momento dello spettacolo © Irene Trancossi
Godibile lesecuzione musicale. Roland Böer ottiene il massimo dalla
giovane Orchestra Poliziana, strumento duttile nelle sue mani esperte. Fra gli
interpreti una menzione meritano la Fiordispina di Dioklea Hoxha e il Gelindo Scagliozzi di Claudio Zazzaro. Claudio
Mugnaini (Don Crisobolo) supplisce allo scarso peso vocale con una
frizzante verve interpretativa. Brave Silvia
Alice Gianolla nel ruolo di Merlina e Vittoria
Licostini in quello di Doralba. Un poco ingessato dal punto di vista
scenico il Don Perizonio di Francesco
Samuele Venuti, ancorché vocalmente appropriato. Cristian Maria Giammarini
affronta la parte recitata del regista con impeto e partecipazione. Pregevole
infine Stefano Bernardini nel ruolo
secondario di Strabinio, privo di arie ma di ampio respiro attoriale.
Nellottica del Cantiere,
improntata da sempre alla valorizzazione dei giovani, rientrava anche il concerto
della Cambridge University Orchestra che, sotto lattenta direzione di Naomi Woo, ha dato buona prova di sé
nellOuverture del Barbiere di Siviglia, nelle Variazioni Sinfoniche di Antonin
Dvořák e nella Quinta
Sinfonia di Čajkovskij.
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