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Semplicemente schubertiano

di Paolo Patrizi
  Fierrabras
Data di pubblicazione su web 04/07/2018  

Franz Schubert sta al teatro musicale come Henry James sta al teatro di prosa: due geni che nutrirono per le tavole del palcoscenico un amore non corrisposto. Tuttavia, almeno nel caso di Schubert, un capolavoro ci scappò: e che Fierrabras sia tuttora confinato nel campo delle curiosità sfiziose, anziché collocarsi tra i vertici dell’operismo tedesco prewagneriano accanto a Fidelio e al Freischütz, conferma come le selezioni operate dal tempo non sempre siano ragionevoli. Poi, certo, l’accidentata genesi del lavoro (rimasto nel cassetto d’un compositore il cui talento liederistico sottraeva autostima nel terreno operistico, fugacemente proposto una prima volta a trent’anni dalla morte di Schubert e sdoganato, senza però entrare in repertorio, solo dall’ultimo ventennio del ventesimo secolo) può spiegare questo plateale equivoco critico. Ma non lo giustifica.   
 
Schubert, d’altronde, “pensa” liederistico anche quando scrive un’opera: al di là della forma di volta in volta utilizzata (Lied o aria, melologo o parlato), in Fierrabras il canto è inteso come introspezione e non scontro tra i personaggi, in una verità poetica che, per il musicista, è assai più stringente della verità drammatica. Se il libretto di Josef Kupelwieser accumula eventi, Schubert stempera l’azione per affidarsi all’evocazione. La materia pseudoariostesca di luminosi paladini cristiani e ombrosi, ma altrettanto eroici, condottieri saraceni viene trattata dal librettista con uno strutturale eccesso di ripetitività (l’amore tra Florinda e Roland è contrastato dalle diverse fedi religiose, quello tra Emma ed Eginhard dalle differenze sociali, in entrambi i casi lei è più decisionista di lui), ma Schubert trasforma due storie che sono l’una il clone dell’altra in uno squisito gioco di specchi.    
 

Un momento dello spettacolo
© Monika Rittershaus

In tali trasognate simmetrie l’epos cavalleresco si fa tela vuota, saranno poi gli “affetti” (spogliando il termine d’ogni residua accezione settecentesca) a riempirla: gli eventi vengono mostrati “in soggettiva”, lo scontro tra franchi e mori lo vediamo con gli occhi di Florinda alla finestra, Fierrabras – eroe in catene – combatte la sua battaglia sul piano della pura interiorità. Ardito sperimentalismo o pacata contromisura di Schubert per sopperire alla sua limitata confidenza con il lessico operistico, tutto questo però “passa” poco allo spettatore se la concertazione non è sensibile a ogni sfumatura di quell’ineffabile mondo musicale definito, intraducibilmente, schubertisch. E, anche, senza una regia capace di rievocare tale impalpabile cosmo poetico. Accolto con una certa freddezza da pubblico e critica, il Fierrabras andato in scena alla Scala ha forse reso giustizia alla musica grazie più alla regia di Peter Stein che alla direzione di Daniel Harding.   
 
Da Harding, direttore antisentimentale e tecnicista, era lecito aspettarsi un’interpretazione illuminante soprattutto per l’analisi della struttura. È scaturita invece una direzione energica e scattante (sotto questo profilo sembra Roland, non Fierrabras, il personaggio con cui più s’identifica l’orchestra), un po’ esteriore laddove la musica dovrebbe inclinare alla severità concentrata più che all’intensità drammatica (l’aria di Florinda nel secondo atto) e, per contro, sobria fino all’asciuttezza in taluni squarci di lancinante lirismo. Né, d’altronde, l’aplomb tecnico della bacchetta ha posto Harding al riparo da qualche sbavatura: almeno nella recita di cui si dà conto, certi attacchi dei corni sono sembrati tutt’altro che a fuoco.   


Un momento dello spettacolo
© Monika Rittershaus
 
Perfettamente coadiuvato dalla squisita stilizzazione delle scene di Ferdinand Wögerbauer, e dai costumi di Anna Maria Heinreich che sembrano usciti da un codex medievale, Stein firma invece uno spettacolo “di carta”, colto, elegante, all’occorrenza anche ironico, che valorizza con la mano del grandissimo regista di prosa tutti i numerosi dialoghi parlati. Se l’allestimento ha perso qualcosa nel passaggio dagli atipici spazi della Felsenreitschule di Salisburgo, dove nacque quattro anni fa, al palcoscenico della Scala (Stein non è direttamente intervenuto alle prove di questa ripresa milanese), il meccanismo resta però oliato. Alle prese con una drammaturgia convenzionale, l’ottantenne regista decide di non reinterpretarla ma semplicemente testimoniarla (in un Fierrabras zurighese disponibile in video Claus Guth preferì di fatto riscriverla, ponendo al centro della vicenda Schubert nel suo laboratorio), lasciando che sia la musica a raccontare. E affidandosi alle magie d’un teatro di cartapesta, d’un libro delle favole, d’una messinscena “antica”, Stein ci fa cogliere di Fierrabras gli aspetti che alla direzione di Harding sfuggono: lo iato tra testo altisonante e dettato musicale malinconico, il tempo dell’azione mai “oggettivo” ma rispondente alla percezione che ne hanno i singoli personaggi, il continuo transito da ambienti interni ad ambienti esterni speculare ai sommovimenti interiori dei protagonisti. 


Un momento dello spettacolo
© Monika Rittershaus
 
I molti personaggi vengono amministrati nel cast scaligero puntando più sull’omogeneità dell’insieme che sulle grandi individualità vocali. L’unica a non sembrare solo la rotella d’un ingranaggio è la Florinda di Dorothea Röschmann, voce fertilmente ibrida tra soprano e mezzosoprano, compenetrata nel fraseggio e appagante sul piano fonico: certe ombreggiature imprimono grande verosimiglianza timbrico-psicologica a questa principessa saracena, anche nel suo corpo a corpo con il clarinetto. Dovrebbe invece giganteggiare un po’ più il Fierrabras di Bernard Richter. Il personaggio però si staglia con chiarezza, magari meglio nella dimensione rassegnata del perdente in amore che in quella titanica dello sconfitto e, tuttavia, vincitore di sé stesso. Più acuto – ma anche più falsettante – l’altro tenore, Peter Sonn, che nei panni di Eginhard è chiamato a un cimento altrettanto impegnativo sul piano vocale e ingrato su quello interpretativo (un ruolo di “amoroso”, ma pavido e poco limpido).   
 
Baritono grintoso per vocazione ma lirico quanto a mezzi naturali, Markus Werba affronta con qualche forzatura l’arme e gli amori di Roland. Anett Fritsch restituisce di Emma più le malinconie della fanciulla innamorata che i principeschi turbamenti della figlia di Carlo Magno: ne esce un carattere un po’ ridimensionato, al servizio però d’una vocalità corretta e gentile. Marie-Claude Chappuis e Gustavo Castillo svolgono l’una con zelo, l’altro con sapore i ruoli ancillari e di spalla della confidente Maragond e del luogotenente Brutamonte. Sebastian Pilgrim e Lauri Vasar incarnano i due padri feriti negli affetti con vocalità declamatoria molto robusta e poco flessibile. Il che non disturba nel secondo, essendo il vecchio moro Boland un ruolo scabro e tagliente, ma è meno congruo per il primo, che deve dar vita a un personaggio frastagliato come Carlo Magno.


Fierrabras
Opera eroico-romantica in tre atti


cast cast & credits
 
trama trama



© Monika Rittershaus

 
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