Franz Schubert sta al teatro musicale come Henry James sta al teatro di prosa: due geni che nutrirono per le
tavole del palcoscenico un amore non corrisposto. Tuttavia, almeno nel caso di
Schubert, un capolavoro ci scappò: e che Fierrabras
sia tuttora confinato nel campo delle curiosità sfiziose, anziché collocarsi
tra i vertici delloperismo tedesco prewagneriano accanto a Fidelio e al Freischütz, conferma come le selezioni operate dal tempo non sempre siano ragionevoli.
Poi, certo, laccidentata genesi del lavoro (rimasto nel cassetto dun
compositore il cui talento liederistico sottraeva autostima nel terreno
operistico, fugacemente proposto una prima volta a trentanni dalla morte di
Schubert e sdoganato, senza però entrare in repertorio, solo dallultimo
ventennio del ventesimo secolo) può spiegare questo plateale equivoco critico.
Ma non lo giustifica.
Schubert,
daltronde, “pensa” liederistico anche quando scrive unopera: al di là della
forma di volta in volta utilizzata (Lied
o aria, melologo o parlato), in Fierrabras
il canto è inteso come introspezione e non scontro tra i personaggi, in una
verità poetica che, per il musicista, è assai più stringente della verità
drammatica. Se il libretto di Josef Kupelwieser accumula eventi, Schubert
stempera lazione per affidarsi allevocazione. La materia pseudoariostesca di
luminosi paladini cristiani e ombrosi, ma altrettanto eroici, condottieri
saraceni viene trattata dal librettista con uno strutturale eccesso di
ripetitività (lamore tra Florinda e Roland è contrastato dalle diverse fedi
religiose, quello tra Emma ed Eginhard dalle differenze sociali, in entrambi i
casi lei è più decisionista di lui), ma Schubert trasforma due storie che sono
luna il clone dellaltra in uno squisito gioco di specchi. Un momento dello spettacolo © Monika Rittershaus
In
tali trasognate simmetrie lepos
cavalleresco si fa tela vuota, saranno
poi gli “affetti” (spogliando il termine dogni residua accezione
settecentesca) a riempirla: gli eventi vengono mostrati “in soggettiva”, lo
scontro tra franchi e mori lo vediamo con gli occhi di Florinda alla finestra,
Fierrabras – eroe in catene – combatte la sua battaglia sul piano della pura
interiorità. Ardito sperimentalismo o pacata contromisura di Schubert per
sopperire alla sua limitata confidenza con il lessico operistico, tutto questo
però “passa” poco allo spettatore se la concertazione non è sensibile a ogni
sfumatura di quellineffabile mondo musicale definito, intraducibilmente, schubertisch. E, anche, senza una regia
capace di rievocare tale impalpabile cosmo poetico. Accolto con una certa
freddezza da pubblico e critica, il Fierrabras
andato in scena alla Scala ha forse reso giustizia alla musica grazie più alla
regia di Peter Stein che alla
direzione di Daniel Harding.
Da
Harding, direttore antisentimentale e tecnicista, era lecito aspettarsi
uninterpretazione illuminante soprattutto per lanalisi della struttura. È
scaturita invece una direzione energica e scattante (sotto questo profilo
sembra Roland, non Fierrabras, il personaggio con cui più sidentifica
lorchestra), un po esteriore laddove la musica dovrebbe inclinare alla
severità concentrata più che allintensità drammatica (laria di Florinda nel
secondo atto) e, per contro, sobria fino allasciuttezza in taluni squarci di
lancinante lirismo. Né, daltronde, laplomb
tecnico della bacchetta ha posto Harding al riparo da qualche sbavatura: almeno
nella recita di cui si dà conto, certi attacchi dei corni sono sembrati
tuttaltro che a fuoco.
Un momento dello spettacolo © Monika Rittershaus Perfettamente
coadiuvato dalla squisita stilizzazione delle scene di Ferdinand Wögerbauer, e dai costumi
di Anna Maria Heinreich che sembrano
usciti da un codex medievale, Stein
firma invece uno spettacolo “di carta”, colto, elegante, alloccorrenza anche
ironico, che valorizza con la mano del grandissimo regista di prosa tutti i
numerosi dialoghi parlati. Se lallestimento ha perso qualcosa nel passaggio
dagli atipici spazi della Felsenreitschule di Salisburgo, dove nacque quattro
anni fa, al palcoscenico della Scala (Stein non è direttamente intervenuto alle
prove di questa ripresa milanese), il meccanismo resta però oliato. Alle prese
con una drammaturgia convenzionale, lottantenne regista decide di non
reinterpretarla ma semplicemente testimoniarla (in un Fierrabras zurighese disponibile in video Claus Guth preferì di fatto riscriverla, ponendo al centro della
vicenda Schubert nel suo laboratorio), lasciando che sia la musica a
raccontare. E affidandosi alle magie dun teatro di cartapesta, dun libro
delle favole, duna messinscena “antica”, Stein ci fa cogliere di Fierrabras gli aspetti che alla
direzione di Harding sfuggono: lo iato tra testo altisonante e dettato musicale
malinconico, il tempo dellazione mai “oggettivo” ma rispondente alla
percezione che ne hanno i singoli personaggi, il continuo transito da ambienti
interni ad ambienti esterni speculare ai sommovimenti interiori dei
protagonisti.
Un momento dello spettacolo © Monika Rittershaus I
molti personaggi vengono amministrati nel cast
scaligero puntando più sullomogeneità dellinsieme che sulle grandi individualità
vocali. Lunica a non sembrare solo la rotella dun ingranaggio è la Florinda
di Dorothea Röschmann, voce
fertilmente ibrida tra soprano e mezzosoprano, compenetrata nel fraseggio e
appagante sul piano fonico: certe ombreggiature imprimono grande verosimiglianza
timbrico-psicologica a questa principessa saracena, anche nel suo corpo a corpo
con il clarinetto. Dovrebbe invece giganteggiare un po più il Fierrabras di Bernard Richter. Il personaggio però si
staglia con chiarezza, magari meglio nella dimensione rassegnata del perdente
in amore che in quella titanica dello sconfitto e, tuttavia, vincitore di sé stesso. Più acuto – ma anche più falsettante –
laltro tenore, Peter Sonn, che nei
panni di Eginhard è chiamato a un cimento altrettanto impegnativo sul piano
vocale e ingrato su quello interpretativo (un ruolo di “amoroso”, ma pavido e
poco limpido).
Baritono
grintoso per vocazione ma lirico quanto a mezzi naturali, Markus Werba affronta con qualche forzatura larme e gli amori di
Roland. Anett Fritsch restituisce di
Emma più le malinconie della fanciulla innamorata che i
principeschi turbamenti della figlia di Carlo Magno: ne esce un carattere un po
ridimensionato, al servizio però duna vocalità corretta e gentile. Marie-Claude Chappuis e Gustavo Castillo
svolgono luna con zelo, laltro con sapore i ruoli ancillari e di spalla della
confidente Maragond e del luogotenente Brutamonte. Sebastian Pilgrim e Lauri
Vasar incarnano i due padri feriti negli affetti con vocalità declamatoria
molto robusta e poco flessibile. Il che non disturba nel secondo, essendo il
vecchio moro Boland un ruolo scabro e tagliente, ma è meno congruo per il
primo, che deve dar vita a un personaggio frastagliato come Carlo Magno.
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