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La casa degli orrori

di Marcello Bellia
  Ifigenia in Aulide
Data di pubblicazione su web 14/06/2018  

Raccontare le vicende degli Atridi, il γένος maledetto per antonomasia dell’antichità classica in (cattiva) compagnia dei Labdacidi di Edipo, significa inevitabilmente confrontarsi con i grandi tragici dell'Atene del V secolo. È infatti in virtù del prestigio dei loro capolavori che il mito in questione si è cristallizzato in una tradizione, imprimendosi nella memoria della cultura occidentale. Lo sa bene Antonio Latella, direttore dell’ambizioso progetto Santa Estasi della scuola di Alta Formazione della Fondazione Emilia Romagna Teatro. Partendo dai testi delle tragedie di Eschilo e Euripide (con qualche incursione senecana) si è infatti proposto di portare in scena i delitti e le nefandezze di Atreo e dei suoi discendenti nell’unico modo possibile: riscrivendoli. 

Il risultato finale è una imponente drammaturgia strutturata nella forma della “octalogia legata”: otto spettacoli, ciascuno dedicato a un personaggio del mito, dotati di una propria autonomia interna e tra loro concatenati. L’idea è quella di un’unica narrazione articolata in più segmenti distinti che rimandano continuamente gli uni agli altri. Tale originale formula consente al regista di saturare la ciclicità già propria del teatro tragico antico (la canonica trilogia legata eschilea) rimodulandola nei termini della serialità contemporanea, almeno quanto a estensione narrativa e a organicità del progetto compositivo nel suo insieme. La nuova cornice condiziona il trattamento del materiale mitologico: ad esempio il personaggio di Ifigenia, interpretato dalla medesima attrice (Federica Rossellini), è protagonista di due diversi spettacoli non consecutivi quali l’Ifigenia in Aulide e l’Ifigenia in Tauride, richiamando nel secondo momenti del primo. Oppure ancora nella Crisotemi, episodio finale aggiunto ex novo, si ripropongono letteralmente frammenti delle rappresentazioni precedenti ricomposti in un’altra prospettiva, dando vita a un vortice che avrà il suo clou nel ricongiungimento finale di tutti i protagonisti.

A fare da preambolo all’intero ciclo è una breve sequenza di ascendenza senecana dedicata allo svolgimento del sacrilego banchetto da cui ha avuto origine tutto: quello in cui Atreo offre in pasto al fratello Tieste le carni dei suoi figli, Tantalo e Plistene. La “digressione”, che forse accentua un po’ troppo l’elemento orrido e grottesco, già di per sé abbondante nel Tieste del filosofo stoico romano, sviluppa programmaticamente le componenti della serie spettacolare. La più significativa è l’angolatura intima, familiare, con la quale si inquadrano le vicissitudini dei protagonisti. L’azione scenica è infatti quasi sempre collocata all’interno dell’οἶκος, sia esso la reggia di Argo o la tenda di Agamennone, caratterizzato da una scenografia minimale – un tavolo, alcune sedie, dei divani e addirittura un televisore – che connota una dimensione domestica. Entro quelle mura si aggrovigliano le problematiche relazioni in seno alla famiglia “disfunzionale” degli Atridi, terreno fertile in cui si radicano i moventi delle brutali azioni dei personaggi. Ci troviamo nell’alveo del «dramma borghese», ironica etichetta usata da Agamennone nell’Ifigenia in Aulide per descrivere i tormenti di Menelao ossessionato dalla moglie fedifraga Elena. È questo taglio prospettico che, pur nella sua prevedibilità, ha il pregio di spezzettare le singole individualità portandole al naufragio in molteplici dinamiche relazionali, generando personaggi ricchi di sfaccettature.

Un momento dello spettacolo
© Brunella Giolivo

La prima tappa di questo lungo percorso è proprio la citata Ifigenia in Aulide, adattamento dell’omonima tragedia euripidea. La riscrittura, affidata alla giovane Francesca Merli sotto la supervisione dello stesso Latella, tiene in gran conto il modello di riferimento. Al contempo però l’autrice riesce a intaccare la versione canonica del mito scolpita nella memoria degli spettatori: pochi interventi programmatici tanto sottili quanto penetranti imprimono alle vicende e ai personaggi un deciso cambio di segno. Il resto lo fanno gli attori, i quali con la loro interpretazione si insinuano in queste crepe e scavano ancora più a fondo contribuendo ad accentuare tale gioco di scarti.

Emblema dell’efficace procedimento appena descritto è il personaggio di Ifigenia. In Euripide la fanciulla è un paradosso, una “bomba a orologeria”. L’atto eroico che compie assumendosi volontariamente la responsabilità del proprio sacrificio sgretola definitivamente il mondo degli uomini eroi, prigionieri di una Ἀμηχανία che impedisce loro di definire il giusto, prima ancora che di perseguirlo. Merli, nel suo adattamento (tramite l’allusione a doppio senso ai giochi infantili) suggerisce una possibile relazione incestuosa di Ifigenia con il padre Agamennone come vero movente del suo finale suicidio. Lo spunto si trasforma nella chiave di volta dell’interpretazione della Rossellini: Ifigenia non soltanto toglie ogni dubbio mimando in scena un rapporto sessuale con il capo degli Achei, ma si spinge oltre infondendo una forte carica erotica in tutte le azioni sceniche in cui è coinvolta. La fanciulla non è più una vittima innocente che riesce a capovolgere la situazione e a farsi carico del proprio destino, ma una figura meno lineare, per certi versi oscura e più intimamente tragica. In un mondo di pseudo-eroi uomini che la relega a merce di scambio, sceglie di trasformare il proprio corpo in strumento di controllo. In qualche caso le sue azioni palesano intenti apertamente sovversivi. Si pensi alla scena in cui sfida gli argivi che hanno assistito alla rivelazione del suo destino baciandoli uno a uno.

Un momento dello spettacolo
© Brunella Giolivo

In questa versione dell’Ifigenia l’equilibrio, o meglio lo squilibrio, su cui si regge l’impianto della tragedia rimane inalterato. Gli interventi mirati spostano l’ago della bilancia attivando significati nuovi e ulteriori, ma nella sostanza, oggi come allora, in scena si assiste a una lenta e inesorabile decostruzione del mondo degli eroi. Anche in questo caso l’erosione avviene su due fronti: un fronte interno – che interessa gli eroi stessi, incapaci di orientarsi in una realtà ormai irriconoscibile – e uno esterno. Se tuttavia in Euripide l’elemento perturbante che agiva dal di fuori era Ifigenia, adesso questo ruolo è assegnato al coro. Lo compongono due donne della Calcide, non più voci della ragione e della coscienza come nella drammaturgia antica ma piuttosto portatrici di una identità ‘altra’. Agamennone e Menelao sono intravisti come da lontano, mescolando disprezzo e velata invidia, quasi si tratti di divi contemporanei situati in un altrove inarrivabile che non tocca minimamente le coreute. Il dialogo tra le due, condensato in un’unica sequenza, mette in luce gli aspetti grotteschi e ridicoli dei capi della spedizione troiana. Entrambe si dicono felici di non appartenere al mondo eroico finto e gonfiato, intavolando una riflessione – arricchita da echi senecani – sulla maledizione che deriva dalla fama e dal potere.

La funzione tradizionale del coro è comunque mantenuta tramite un altro gruppo silente che accompagna i protagonisti lungo tutto l’arco dell’azione. Si tratta dell’insieme degli Argivi, personaggi muti che non si limitano a osservare con attenzione quanto avviene sulla scena, da spettatori nello spettacolo, ma interagiscono attivamente in diverse occasioni. La più plateale delle quali ha luogo durante il banchetto che funge da prologo, nel momento in cui si palesa la vera natura del pasto consumato da Tieste: gli Argivi si alzano sbigottiti, nauseati e terrorizzati. È un altro punto di vista che moltiplica i piani di realtà orientando la ricezione del pubblico.

Temeraria al punto giusto, questa Ifigenia è costruita su un meccanismo solido e ben oliato che ruota principalmente attorno ai suoi interpreti. Sono gli attori ad avere l’ultima parola sul personaggio attuando quel lavoro di scavo interiore che porta alla «Santa Estasi» che secondo la definizione dei drammaturghi del progetto (Federico Bellini e Linda Dalisi) è la «condizione dell’attore che si lascia attraversare dalle parole, dal mito, dagli archetipi, dalla frammentazione del pensiero in tutti i suoi piani» (dal programma di sala). Concretamente ciò si traduce in una recitazione sempre «caricata» che servendosi di un registro patetico estremizzato mira a suscitare reazioni forti nello spettatore. Questa strada riduce l’ambiguità e l’indeterminazione, ingredienti così importanti per la definizione dei caratteri della tragedia antica, rendendo al tempo stesso l’Ifigenia un dramma fruibile e denso di significati per un pubblico contemporaneo.



Ifigenia in Aulide
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