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Questo amore non si tocca

di Stella Scabelli
  Figlia mia
Data di pubblicazione su web 02/03/2018  

«Perché la devi curare? È malata?» domanda Angelica a Tina. Angelica (Alba Rohrwacher) è una donna inquieta che ha affidato la figlia Vittoria (Sara Casu) ancora in fasce alla più giudiziosa amica Tina (Valeria Golino). Il primo contatto tra l’ignara Vittoria e la madre biologica desta nella bambina una curiosità irrefrenabile verso quella donna inquieta e sfrontata. Mentre Tina sostiene che il suo atteggiamento apprensivo è per la ragazzina una “cura”, la madre naturale non riesce proprio a capire cosa debba essere curato in Vittoria.

Laura Bispuri rappresenta nuovamente il cinema italiano nella sezione Competition della Berlinale. Concorre all’ambito Orso d’Oro con una pellicola ancora dominata da donne. Le figure maschili restano sullo sfondo, a livello narrativo e recitativo. Evidente la contrapposizione fra attori “locali” e le intense attrici protagoniste. La Rohrwacher prosegue la collaborazione con la regista romana confrontandosi con Valeria Golino. Il film è ambientato in una piccola realtà sarda.

La giovane figlia si muove tra due poli. Lo spazio ha una funzione narrativa e simbolica dirimente. Da una parte, i luoghi chiusi della casa della madre adottiva, pia e timorosa; dall’altra gli spazi aperti, luminosi, intensi dell’impetuosa madre naturale. Analogamente gli spazi cinetici vissuti da Vittoria e Angelica – i viaggi in macchina, l’arrampicata sul Supramonte, la corsa dei cavalli legati alla jeep – si oppongono allo spazio della casa dov’è cresciuta: la cameretta spoglia dove la madre adottiva la controlla a breve distanza, l’acqua immobile e silenziosa della vasca da bagno. Una drammaturgia dello spazio che include anche gli  spazi del rumore: il vento che sferza il volto della ragazzina mentre scala l’aspro altopiano sardo con l’irrequieta Angelica e la giocosa melodia anni ’80 di Questo amore non si tocca che ballano insieme si oppongono al placido canto delle cicale delle serate estive.

© Vivo film / Colorado Film / 
Match Factory Productions / Bord Cadre Films

La fotografia di Vladan Radovic esalta questo ruolo oppositivo e descrittivo dei luoghi: i colori caldi e ancestrali dei territori selvatici dove vive e si muove Angelica si alternano con gli spazi più cupi di Tina. In un bar fumoso la fragilità di Angelica emerge e naufraga nell’opacità di un luogo di frustrazione e solitudine.

La luce è fondamentale anche nel tracciare i lunghi piani sequenza che dipingono gli stati d’animo delle protagoniste. Un disperato buio notturno avvolge l’inquadratura che segue Tina nella straziante sofferenza generata dal rifiuto da parte della figlia. Mentre un’accecante luce opprimente allude al senso di inadeguatezza di Angelica, all’aggressività con cui cerca di sottrarsi al compito materno, per il quale pensa di essere inadeguata.

Come nell’opera d’esordio Vergine Giurata, il corpo è indagato dalla regista attraverso lunghi piani sequenza con la camera a mano. Con viscerali piani ravvicinati che sottolineano i sentimenti esasperati delle madri, la fragilità e l’imperfezione della condizione materna, i momenti di confronto-scontro tra le due donne che ora si invidiano e si odiano, ora si cercano riconoscendosi in questa loro opposizione.

© Vivo film / Colorado Film / 
Match Factory Productions / Bord Cadre Films

Ma la camera indaga soprattutto il corpo di Vittoria, portavoce della sua irrequietezza. Una sete di ricerca che tragitta dalle avventure al respiro affannoso della paura che conosce insieme all’audacia e all’eccitante sfrontatezza delle sfide che Angelica le propone. Il dondolio degli orecchini che la madre naturale le dona è il correlativo oggettivo di una femminilità più istintiva e libera. Si pensi poi alla drammaturgia della fuga, del “cammino”: la macchina da presa segue la bambina nel movimento verso la casa di Angelica: una possibilità di scoperta, ma anche un rifiuto della madre adottiva, del suo atteggiamento apprensivo che la fa sentire inadatta, imperfetta. Una “malata” da “curare”. 

Vittoria vacilla tra questi due modelli, in bilico tra attrazione e repulsione. La forza fragile e scombinata di Angelica la incuriosisce, la stimola, ma la spaventa e la ferisce. L’amorevole cura di Tina la opprime, la fa sentire l’oggetto – deludente – di una soddisfazione egoistica («Mi hai comprata!»), ma al contempo ha bisogno della sicurezza di questo affetto placido e rassicurante. Non è soltanto la maternità ad essere messa in questione, ma la ricerca della protagonista diventa una quête identitaria. 

Nonostante nella pellicola siano forse eccessivamente esibiti gli intenti, è da apprezzare l’assenza di un approdo, di una soluzione finale scontata o consolatoria. Non c’è una scelta possibile, a eccezione del riconoscimento della bellezza dell’amore materno – e forse, più propriamente, della scoperta di sé – nel suo duplice carattere di attrazione-repulsione, nella sua imperfezione e complessità, nella molteplicità del suo significato e delle sue possibilità di attuazione (madre naturale, madre adottiva, madre che ritorna).




Figlia mia
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La locandina


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