Le parole di Shakespeare per alimentare la ricerca dellidentità personale di un
attore che labbia perduta, assieme alla propria memoria, per stress o
malattia. Quanto è davvero accaduto allattore Enrico Campanati del Teatro della Tosse diventa spunto per il
drammaturgo e regista Emanuele Conte
per uno spettacolo un po confuso ma volenteroso, a tratti attraente per il
modo di riutilizzare i brani del testo ispiratore.
Le perplessità sorgono fin dalla prima
scena, nella quale un attore vestito di nero, seduto accanto a un letto, comincia
la confessione del suo insolito malessere. Non giace dunque morente a fare un bilancio
della propria vita nel finale del dramma: «Lo spettacolo si apre con Amleto sul
letto di morte. Ma è veramente il principe di Danimarca? Oppure si tratta di un
vecchio attore che nella sua lunga carriera ha interpretato tutti i ruoli della
famosa tragedia? [...] Il protagonista Enrico Campanati che recita sul letto
con il solo aiuto delle lenzuola e coperte per entrare dentro i vari personaggi
cercherà di ricucire questi brandelli, mescolando le parole dellAmleto con i suoi personali ricordi di
palcoscenico» (dalle Note di regia).
Un momento dello spettacolo © Donato Aquaro
Amletto allude (si veda il manifesto-locandina) alla valenza
simbolica di un letto incombente sullattore e sul pubblico, oggetto che però
resta vuoto e funzionalmente immotivato. Quasi nel corso delle prove si sia modificata
la drammaturgia (che infatti risulta discontinua nei registri linguistici e nel
progresso dellazione).
Lespediente del
teatro-nel-teatro soltanto in parte funziona e grazie allempatia persuasiva
dellinterprete non diventa ridondante. Una recitazione “bassa”, ma tuttaltro
che dimessa, guida Campanati a rivelarsi al pubblico, mentre attinge da un
altrove coscienziale le minime certezze sufficienti a riconoscersi. Così gli riesce
la ricomposizione del tempo perduto; anche se non si comprende luso del
registratore per fissare battute sfuggenti o perdute. Il richiamo è allUltimo nastro di Krapp: le memorie
vengono recuperate dal passato ma riascoltate immediatamente in modo che il
controllo di quelle garantisca laffidabilità del presente. Il fatto che non
giaccia infermo e sia vigile nellattraversare le regioni di sé disperse
consente al personaggio di ricondurre il suo passato al suo presente in atto:
vivendo così una faticosa resurrezione.
Un momento dello spettacolo © Donato Aquaro
Malgrado le contraddizioni
dintenti e di risultati, in quel senso di rinascita mi pare trovarsi laspetto
positivo dello spettacolo, confermato dalla recitazione convincente che, in
poco meno di unora, ha permesso agli spettatori di apprezzare molte sfumature
duna visione complessa, ma essenziale, dellarte dellattore. Una sensibilità
contemporanea regge laffabulazione metodicamente razionalizzata, oltre
limprovvisazione, del protagonista. La tecnica ottiene una dizione che perviene
chiara fino alla soglia del sussurro. Lenfasi implicita in tante parole prese
a prestito dal dramma è contestata dal sapore ironico con le quali sono
pronunciate. Così paiono superflui gli espedienti introdotti dal regista per sottolineare
il gioco teatrale, come indossare orecchie da coniglio posticce o citare generi
passati di moda quali il punk o il
teatro-danza.
Un momento dello spettacolo © Donato Aquaro Il tessuto più denso e coerente del discorso nasce dal modo dappropriazione
delle “parti” dellAmleto shakespeariano:
quando Campanati interpreta Claudio o il Fantasma del padre in decisa, sobria
introspezione; o quando nella figura di Ofelia, la più drammaticamente pura, risuonano
parole di rassegnazione e dono assoluti. Quando il monologo del dubbio
proverbiale, scelto per il finale, coincide
con la condizione di un attore che, liberato dalle sue imbarazzanti
contingenze, giunge, da una specie
di schizofrenia, alla consapevolezza
artistica. Allora la conversazione già fidente con il pubblico diventa dialogo
sicuro con le ritrovate presenze della scena.
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