Così così. Questa è limpressione dopo aver visto il Freischütz della Scala, uno spettacolo che
lascia molto perplessi. Che cosa non ha funzionato? I problemi, sia detto senza
giri di parole, sono tutti nellallestimento e nella regia, e sono resi ancor
più evidenti dal confronto inevitabile con lopera immediatamente precedente in
cartellone, lo splendido Tamerlano di
Davide Livermore. Ebbene, stavolta lincanto non si è ripetuto.
In questo Freischütz Matthias Hartmann (regia) non ha optato
per la trasposizione della vicenda (come invece avveniva nel Tamerlano), bensì per un realismo “traumatizzato”,
per così dire. In scena si vedono le cupe foreste della Selva boema, ma le
montagne sullo sfondo e gli edifici sono affidati a sagome di tubi luminosi al
neon (scene di Raimund Orfeo Voigt);
i personaggi vestono panni dallaspetto genericamente alpino, di cui sono modernissime
reinvenzioni (creazioni degli stilisti Susanne
Bisovsky e Josef Gerger, con la
collaborazione di Malte Lübben). Un momento dello spettacolo © Marco Brescia e Rudy Amisano
Capiamo subito che non siamo «poco dopo la guerra dei Trentanni»
come prescrive il libretto, ma in un passato da fiaba filtrato dallestetica
contemporanea. Tuttavia questa convivenza tra modernità e tradizione non
diventa la o una chiave interpretativa dellopera: si assiste infatti a uno spettacolo convenzionale, in cui invece dei fondali dipinti e
delle casette di cartapesta ci sono silhouette disegnate da neon bianchi. Intendiamoci,
nulla di male in queste interferenze. Solo si vorrebbe che ci si facesse carico
della parte “convenzionale” come si conviene, seguendo con cura la recitazione
e i movimenti dei cantanti e del coro (e i Meistersinger
von Nürnberg di Harry Kupfer della primavera scorsa ci hanno
mostrato come sia possibile farlo, vedi recensione LINK).
Oppure che, al contrario, si facesse un passo deciso per lopzione modernista. Invece
non cè nessuna sterzata né da una parte né dallaltra, col risultato che lo spettacolo
resta sospeso in una via di mezzo irrisolta e quindi, alla fine, poco
interessante. Di
tuttaltro tenore, invece, la parte musicale. A cominciare dalla direzione di Myung-Whun Chung. Che qui le cose
funzionino a meraviglia è chiaro già dallinizio dellouvertüre. Basta ascoltare come Chung fa suonare la prima nota, il
lungo do tenuto da archi e legni,
pianissimo con forcella di crescendo, per entrare nellatmosfera da fiaba
gotica dellopera. Il direttore ruba subito la scena al regista: è
dallorchestra che emana la magia di sonorità tornite, di colori, tempi e
dinamiche cangianti, che creano, loro sì, la regia dello spettacolo, e lo fanno
a tal punto che guardare lazione sul palco è alla fine superfluo. La scrittura
di Weber, come è noto, in
questopera è un po la fiera del «fàmolo strano», e spesso incoraggia
direzioni discontinue ed eccessive. Ecco, niente di tutto ciò nella direzione
di Chung. Che accompagna il canto, crea suggestioni, commuove, spaventa ma con
il passo sereno di chi sa prendersi i tempi giusti per raccontare (in musica) una
storia.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia e Rudy Amisano
Molto bene il cast vocale, sebbene penalizzato da uno spettacolo
che non ne mette in evidenza le potenzialità sceniche. Ciò è vero soprattutto
per i due ruoli femminili, Agathe (Julia
Kleiter) e Ännchen (Eva Liebau).
La prima abbandonata a sé stessa da una regia disattenta alla performance attoriale; la seconda
costretta invece a una recitazione caricata, e sfavorita inoltre da costumi demenziali
(specie quello del secondo atto). Per fortuna arrivano in soccorso le capacità
musicali delle due interpreti, entrambe perfette nei rispettivi ruoli della
fanciulla romantica seria e di quella faceta. Kleiter, ancora compassata nellaria
del secondo atto (Leise, leise, fromme
Weise), emerge poi nella cavatina del terzo (Und ob die Wolke sich verhülle), cantata con estrema eleganza di
fraseggi, padronanza delle tessiture, e con grande omogeneità timbrica nei
registri. Liebau dà spessore drammatico al suo personaggio fin dallinizio, recitando
con una voce ricca di inflessioni e duttile nei fraseggi. Degli interpreti maschili il migliore è sicuramente Günther Groissböck (Kaspar). Voce e corpo prestanti e du rôle, Groissböck evita gli effetti grossolani del cattivo, che sono spesso caratteristici di chi interpreta il ruolo. Sorprendente il Lied del primo atto (Hier im irdschen Jammertal) per la varietà delle sfumature, oltre che per la sicurezza con cui il cantante affronta le insidiose puntature allacuto alla fine delle strofe; impressionante, davvero, la sua scena della Gola del lupo del secondo atto, dove riesce a dominare un brano irto di difficoltà vocali che alterna canto, recitazione e melologo.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia e Rudy Amisano
Meno a
fuoco il Max di Michael König. König
esegue tutto correttamente, e non è poco per una parte difficile come questa,
ma il personaggio resta sullo sfondo. Bene poi tutti i comprimari, lOttokar di
Michael Kraus, il Kuno di Frank van Hove, leremita di Stephen Milling, il Kilian di Till von Orlowsky, e le quattro
damigelle Celine Mellon, Sara Rossini, Anna-Doris Capitelli e
Mareike Janowski, allieve dellAccademia di Perfezionamento del teatro alla
Scala.
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