È anche “a mo di metafora” che
potremmo interpretare il mestiere dei tre personaggi principali di questo film,
davvero molto bello e intenso. In quanto architetti Massimo (Fabrizio Gifuni), Francesca (Emmanuelle Devos) e il di lei padre Manfredi
(Giulio Brogi) dovrebbero creare
spazi e ambienti dai volumi armonici, preferibilmente razionali e funzionali,
nei quali far abitare in ideale equilibrio uomo-ambiente i loro clienti. E
infatti sostanzialmente questo fanno i due personaggi maschili, mentre Francesca
non ha quasi mai esercitato la sua professione.
Secondo le citate
caratteristiche sembra essere concepita la villa sul lago che Massimo (e poi Francesca) ha la
responsabilità di ristrutturare e arredare per due giovani clienti (i bravi Fausto Cabra e Giulia Michelini): una dimora che assume quasi la funzione di altro
personaggio, simbolo dello sviluppo della storia sentimentale tra Massimo e
Francesca, che lentamente si dipana via via che procedono i lavori. Una scena del film Se lautoritario Manfredi sembra
avere la solidità e il rigore degli edifici da lui creati, non è così per
Massimo e Francesca, di fatto fragili e, per motivi diversi, irrisolti,
non-finiti, al contrario delle case che progettano «solo per gli altri» (come
dice Massimo in una delle scene finali). E se il personaggio di Gifuni è sicuro
e rampante in ambito lavorativo, quello della Devos ha come rimosso il lavoro o,
comunque, ha rifiutato di svolgerlo per non assecondare la volontà paterna. Due
caratteri ben scritti e descritti, inquadrati e illuminati (dalla sempre
sapientissima luce di Fabio Cianchetti),
in modo magistrale interpretati, che sembrano scambiarsi le rispettive
caratteristiche. Perché la storia tra Massimo e Francesca non è solo nella
nascita e nellevoluzione di un forte sentimento, ma anche nella dinamica
caratteriale che fa sì che lei acquisti una nuova sicurezza – espressa anche in
certe virulente reazioni verso il padre – e lui scopra una leggerezza altrimenti
offuscata dal peso della propria indole fredda e ambiziosa, modellata su
Manfredi (del quale non a caso è stato il pupillo).
Siffatte dinamiche relazionali
sono dirette con un rigore e una misura – unarmonia viene da dire – che
confermano le notevoli virtù di Paolo Franchi,
mai così ben calibrate, così misurate nella essenzialità della messa in quadro
e della messa in scena. Locchio della sua macchina da presa accarezza i volti
e gli sguardi dei personaggi (richiamando la definizione di “immagine-affezione”
di Deleuze). Quello di Franchi è un film molto
letterario e teatrale ma nellaccezione migliore, ossia quella correlata sia a
una solida struttura narrativa e drammaturgica sia a una densa qualità di
scrittura dei dialoghi. In particolare la cosiddetta “teatralità” è legata a
fattori determinanti quali la prevalenza degli interni (dunque lapparato
scenografico): si pensi allabitazione di Manfredi, ampia, elegante, ricca di
quadri importanti (da Capogrossi a Lichtenstein), mobili, luci e
suppellettili, entro unideale combinazione stilistica di antico (classico) e
moderno.
Larmonica compresenza di stili diversi
contraddistingue anche la regia, che a sua volta combina motivi “classici” (vedi
la solidità sia letteraria sia teatrale alla Visconti, con Manfredi quale possibile evocazione del professore di
Gruppo di famiglia in un interno,
1974) e stilemi “moderni” (alla Antonioni,
specie nel taglio delle inquadrature, con Massimo e Francesca che ricordano la
coppia de La notte, 1961), con echi
dei melodrammi di Douglas Sirk.
Della abitazione sono
inquadrate poche stanze, come a dare lidea di uno spazio “da camera”
(Kammerspiel) claustrofobico simbolicamente soffocato dal carattere del vecchio
padre. Illuminata quasi solo da luci artificiali, “notturne”, la casa si
rischiara quando, morto Manfredi, la figlia vi fa entrare la luce naturale.
Una scena del film Laltro fattore “teatrale” risiede
nella prevalente vicinanza della macchina da presa sullespressività dei volti
degli attori, i quali fanno leva sulla loro sapienza di interpreti del
palcoscenico (in particolare Brogi e Gifuni, ma anche la Devos). Grandi interpreti
la cui intesa è tanto più sorprendente se consideriamo che non avevano mai
lavorato insieme (Brogi e Gifuni sono nel cast di Fai bei sogni di Bellocchio,
2016, ma senza scene in comune). La Devos offre una vasta gamma di sguardi e di
soluzioni espressive anche di microfisionomia; Gifuni lavora in sottrazione e sulla
interiorizzazione del proprio personaggio; Brogi, che ha ancora una magnifica
voce, ha tutte le espressioni che deve avere un carattere sfaccettato come quello del coriaceo e dispotico
padre.
Un impianto che in alcune
dichiarazioni Franchi e Gifuni hanno accostato, a proposito di letteratura e
teatro, a Čechov e a Henry James. Modelli effettivamente
plausibili, che in sintesi potremmo riconoscere nella profonda capacità di
scavo psicologico, nella delicata dimensione melanconica, nei dialoghi, nella
sapienza descrittivo-analitica degli ambienti.
È su un principio di grazia e
di tenera malinconia (viene in mente Breve
incontro di Lean, 1945, con echi
dello stile di un Sautet) di
mozartiana dolcezza, così romantica come la bella e funzionale colonna sonora
di Pino Donaggio, che si fonda
unopera della quale, fra mille neo-post-neorealismi italici (tra cinema e tv),
si aveva un gran bisogno.
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