Approdato sulle scene una decina
danni dopo Oedipus rex di Stravinskij, e precedente doltre un ventennio Oedypus der Tyrann di Orff, Oedipe di George Enescu è unopera più antica di
quel 1936 in cui vide la luce allOpéra di Parigi. La gestazione durò circa un
quarto di secolo (già allinizio degli anni Dieci il compositore rumeno
iniziava a lavorare attorno alla tragedia di Sofocle): e sarà uno di quei casi, al pari del tardo Wagner (stella polare di Enescu,
assieme allimpressionismo musicale francese), in cui la lunga incubazione non
recherà né contraddizioni né farragini, ma solo quella perfezione del
capolavoro arrivato alla sua giusta stagionatura.
Poi, certo, venticinque anni di
lavorazione qualche divergenza la creano. Giacché se il bel libretto francese di
Edmond Fleg che accorpa in
ununica campata narrativa Edipo re
ed Edipo a Colono, consentendo così un
finale catartico tradotto da Enescu con un diafano, lentissimo e davvero
parsifaliano Sol maggiore è figlio di quel neoclassicismo che rappresenta una
precisa stagione dinizio Novecento, lesito musicale appare meno circoscrivibile
in una temperie specifica. La partitura è “solo” quella di un grande classico
del ventesimo secolo: post ma non antiromantico, pluristilistico non per
virtuosismo estetico ma intrinseca necessità, moderno non perché “attuale” ma
per leternità delle sue sollecitazioni drammatiche.
Nikolai Lugansky
© Alex Damian
Ne è consapevole Vladimir Jurowski, direttore artistico
e musicale del Festival Enescu, la rassegna con cui dal 1958 Bucarest celebra
il più illustre figlio della musica colta rumena: una kermesse dedicata essenzialmente al grande repertorio sinfonico (la
sezione principale è intitolata Great
Orchestras in the World e questanno
vi si avvicendano, tra le altre, la London Philharmonic, la Israel Philharmonic
e il Concertgebouw di Amsterdam), ma dove non manca spazio per la cameristica e
lopera in forma di concerto. Quello con Oedipe,
anzi, è per ovvie ragioni un appuntamento ricorrente del festival, e Jurowski
laffronta restituendone tutto il substrato sinfonico-vocale: esaltando, cioè,
la ricchezza dellorchestrazione, ma pure senza prosciugare quella cantabilità
che ora per frammenti, ora a lunga gittata è componente ineludibile della tragédie lyrique di Enescu.
Gesto ampio eppure precisissimo,
istrionico quanto basta ma sempre allinterno duna mimica di plastica eleganza
(è un piacere osservarlo mentre dirige), Jurowski ormai ultraquarantenne ha
definitivamente compiuto il salto da giovane promessa a grande del podio. Lintesa
con la London Philharmonic è perfetta e forse, con unaltra compagine, respiro
lirico e respiro drammatico non sarebbero arrivati a una così perfetta confluenza:
sta di fatto, comunque, che la partitura ne è uscita esaltata in ogni più
prezioso dettaglio; che il tessuto contrappuntistico viene sviscerato con
logica stringente e senza compiacimenti analitici; e che i cantanti sono stati
perfettamente valorizzati e sostenuti, mostrando nel Jurowski concertatore
anche la stoffa del “regista vocale” di razza.
Vladimir Jurowski e Paul Gay
© Alex Damian
Il cast con i suoi tredici ruoli, di cui nessuno può dirsi
secondario mostrava daltronde un ottimo livello complessivo. Anche se forse,
come in ogni tragedia greca che si rispetti, il personaggio più a fuoco era quello
collettivo: fossero anziani ateniesi o sacerdotesse tebane, intonassero canti
guerrieri o pastorali, i coristi del Coro Filarmonico Enescu simpongono per
amalgama canoro, scolpitura della frase, appiombo ritmico. Tra i solisti domina
invece, inevitabilmente, lEdipo di Paul
Gay: baritono capace alloccorrenza tanto dimpennate tenorili quanto di
affondi nel registro di basso (come si conviene a un personaggio-simbolo che
deve arpeggiare su tutte le corde dellessere umano), trascolorante con uguale
proprietà dallo Sprechgesang al
cantabile e capace di restituire in termine di puro suono perfino lurlo disperato,
che prelude allautoaccecamento, con cui il protagonista scopre la propria
incolpevole colpevolezza. Ne scaturisce un personaggio così come lo
concepirono Enescu e il suo librettista meno archetipico e più intellettuale
di quello sofocleo: si era in anni freudiani, quando Fleg scrisse il testo, ma
questo Edipo più grande (nonostante tutto) del destino, e mai connivente con
lincubo che gli è toccato in sorte, è un Edipo “senza complesso”.
Tra gli altri interpreti spiccano
le rifrazioni sinistre e i riverberi ironici impressi da Ildikó Komlósi agli enigmi della Sfinge, la rocciosità prosciugata cui
il Tiresia di Willard White affida
il suo canto di veggente inascoltato, la tonda e pastosa baritonalità impressa
da In Sung Sim allaraldo Phorbas; e
fa piacere ritrovare in buona salute vocale una veterana come Felicity Palmer nei panni della madre
adottiva Merope. Detto che lamor filiale di Antigone è reso con lirica
gentilezza dal soprano Gabriela Iştoc,
e che pure i tenori si difendono bene (Marius
Vlad Budoiu plasma un Laio giustamente più tracotante che paterno, Graham Clark è abile nel flettere la
propria voce usurata ai timori e ai risentimenti del Pastore), si poteva forse
chiedere qualcosa di più alla Giocasta comunque corretta di Ruxandra Donose. Sicché, alla fine, a
lasciar perplessi è solo il Creonte di Christopher
Purves: più bisbigliato che fraseggiato, troppo incline a risolvere nel sussurro
la malvagità dello zio-cognato di Edipo.
Un momento dello spettacolo
© Alex Damian
Il giorno seguente ha rivisto
Jurowski alla guida della London Philharmonic in un programma anchesso
parzialmente operistico. Il concerto, infatti, si apriva con il Preludio del Tristano, creando così un ponte tra
lEnescu “wagnerista” della sera prima e il Wagner tout court: e se Jurowski, forse, non ha ancora conquistato una
piena idiomaticità wagneriana, piace la logica serena con cui dipana senza
pretendere di svelarne il mistero lineffabilità del Tristan Akkord, il suo affidarsi non tanto al “tempo sospeso” di
quella suprema ambiguità tonale quanto, piuttosto, a una narrazione musicale
cullante e sciabordante, anticipazione dellambiente marino che intriderà
lopera. Quanto al Concerto per violino
di Berg (il secondo brano in programma),
Jurowski preferisce evidenziarne il pathos
più che la sapienza destrutturante: se solo nel Wozzeck il compositore austriaco riuscì a parlare simultaneamente
alla testa, al cuore e alla pancia dellascoltatore (in tutti gli altri casi
preferì parlare alla sola testa), Jurowski proprio a quellirripetuto
capolavoro berghiano sembra, anche qui, voler guardare. E vi è riuscito grazie
alla perfetta unità dintenti con il solista Christian Tetzlaff, alla «serena
disperazione» come direbbe Umberto
Saba che scaturisce dal suo violino.
La totale empatia tra bacchetta e
partitura, però, scatta nella seconda parte del concerto, quando il direttore affronta
la Sinfonia n. 11 di Sostakovic. Di questo classico della
musica a programma del Novecento (largomento è la repressione zarista a
Pietroburgo nel 1905, che il cinema immortalò nella Corazzata Potëmkin) Jurowski rende alla perfezione lagghiacciante
calma iniziale, il crescere progressivo della tensione, lesplosione del bagno
di sangue. La sua lettura evita qualsiasi cesura tra i quattro movimenti: innervando
in un unico continuum narrativo lAdagio e lAllegro che rievocano i fatti e i successivi Adagio e Allegro non troppo
che rappresentano il momento della riflessione, mettendo così su uno stesso
piano cronaca ed ermeneutica. Ed è un modo impeccabile di rendere quello
straziante senso della Storia che permea la musica di Sostakovic. Ildiko Komlosi (la Sfinge) © Alex Damian
La terza serata (ma il festival si protrae per tre settimane) portava
alla ribalta la Russian National Orchestra. Nuovamente sotto il segno di
Enescu, per cominciare: Isis è un
poema sinfonico incompiuto che si riallaccia a un filone misterico il culto
di Iside, nella fattispecie assai in voga in certa musica colta novecentesca.
Vi si gioca la carta di unorchestrazione trasparente e riverberata (con
lapporto suggestivo di un coro nella sua sola compagine femminile), forse
anticipatrice del Ligeti di Lux aeterna: direttore di gesto più
scabro ma non meno incisivo di Jurowski, Mikhal
Pletnev ne restituisce tutte le magie e gli eventuali manierismi. Mentre il
Prokofev che segue (tanto quello giovanile
del Concerto per pianoforte n. 3
quanto quello maturo della Sesta Sinfonia)
appare scattante nella ritmica, tecnicistico ma con ironia, senza incoerenze
nellandamento deliberatamente rapsodico. E con un solista Nicolai Lugansky così abile da occultare
lartificiosità con cui, in quel brano, Prokofev fa dialogare orchestra e pianoforte.
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