Unico
film di un regista mediorientale in competizione ufficiale, Foxtrot dellisraeliano Samuel Maoz è una coproduzione molto articolata
sia nello spazio (oltre a Israele, i paesi di produzione sono Germania, Francia
e Svizzera) che nel tempo. Sono trascorsi otto anni dal precedente Lebanon, Leone dOro a Venezia, film che
ha dato a Maoz una certa notorietà anche dalle nostre parti. Poi quasi più
nulla, fino a questultima fatica che dietro lapparente essenzialità nasconde
un complesso lavoro di ricerca formale e interiore.
La
trama è articolata attorno a pochi, talvolta sbalorditivi snodi narrativi (che
cercheremo di non rivelare). Tre veri e propri coup de théātre suddividono il film in tre parti, formalmente e
contenutisticamente distinte, alle quali solo nel finale lo spettatore riuscirà
a dare un senso. Nella prima alcuni ufficiali dellesercito israeliano
annunciano a Michael (Lior Ashkenazi)
e a Dafna (Sarah Adler), lui
architetto di successo, lei insegnante di filosofia, che il loro figlio Jonathan
(Yonatan Shiray), militare, è morto
in servizio. Altri soldati si presenteranno successivamente davanti alla coppia
con una versione diversa: il ragazzo è vivo, si è trattato di un caso di
omonimia. Nella seconda parte Jonathan ci viene mostrato nellesercizio delle
sue funzioni in un posto di blocco nel nord del paese. Compito suo e dei
commilitoni è quello di controllare le macchine in uscita: un lavoro di routine che tuttavia prenderà una piega
inaspettata. Nellultima parte vediamo i due genitori, definitivamente convinti
della morte del figlio, impegnati nel tentativo di superare la perdita e di
ritrovare, attraverso il dialogo, un po di serenità.
Una scena del film Jonathan
è vivo? È morto? E se sì, come è morto? È su questi interrogativi che Maoz
riesce sapientemente a creare meccanismi di suspense
elementari ma avvincenti. Narrativamente ardito, il film è pieno di false piste
e di indizi che non portano a niente. Lindeterminatezza genera inquietudine, tanto
nello spettatore quanto in Michael, nei cui scatti dira si avverte non solo
lamore paterno, ma anche il personale, ossessivo rimpianto per non aver fatto
abbastanza in occasione della morte accidentale di un commilitone.
La
prima e la terza parte sono quasi interamente sorrette dalla recitazione muscolare
di Lior Ashkenazi, ipertesa
allinizio (a tratti lattore ricorda il Jake
Gyllenhaal più concitato) distesa e riappacificata nel finale, in cui il
regista regala a Michael e alla consorte, la brava Sarah Adler, una generosa quantità di primi piani. I toni sono
aspri, i dialoghi incalzanti: tensione appena stemperata dal breve inserto di
animazione: un rapido flashback
semiserio sulla vita di Michael attraverso gli occhi del figlio Jonathan.
Una scena del film Notevole
anche il lavoro del direttore della fotografia Giora Bejach sui contrasti, sia tra le varie sequenze (si pensi ai
colori dei murales allinterno del
container abitato da Jonathan e compagni vs
i toni spenti e i forti chiaroscuri degli interni “darchitetto” dellabitazione
dei due) sia allinterno dellimmagine stessa. Efficace la resa espressiva dei
volti: le rughe che solcano i volti dei protagonisti sono squarci quasi iperrealisti,
paesaggi nei quali si intravede il dramma della guerra.
Maoz
la guerra lha fatta come soldato israeliano in Libano durante linvasione del
1982. Nel suo cinema cè tanto vissuto e poco contesto (Lebanon era per gran parte girato in
un carrarmato). Il regista non vuole parlare di questa o quella guerra (cosa
che gli ha attirato dalle “sinistre” europee non poche accuse di
giustificazionismo filoisraeliano), ma della guerra in generale, del disordine
e dei lutti che essa genera.
È
quindi il caos, come sembra suggerire linaspettato finale, la caratteristica
più drammatica di qualsiasi condizione bellica, a prescindere dalle ragioni
delle forze in campo? Come afferma lo stesso Maoz citando Einstein: «la coincidenza è il modo che Dio ha di restare anonimo,
e Foxtrot è la danza di un uomo con
il destino». Perché di guerra si muore, ma ciò che è ancor più drammatico è che
spesso si muore per caso, secondo una catena di eventi imprevedibile e difficilmente
riconducibile al disegno di una qualche entità ultraterrena: se cè una cosa
che Maoz ha imparato sul fronte è questa. Il suo cinema sembra animato non solo da un'estrema consapevolezza del mezzo cinematografico, ma anche e soprattutto da un'urgenza espressiva che il tempo non sembra aver cancellato.
|
|