Lesplorazione del melodramma
italiano (o di scuola italiana) del primo Ottocento resta da sempre, pur tra
numerose altre diramazioni, la mission
per antonomasia del Festival della Valle dItria. In questa prospettiva, Fabio Luisi – da quattro anni direttore
musicale a Martina Franca – ama investigare da un lato la dialettica tra
compositori classicisti e sorgenti pulsioni romantiche (fu il caso della
splendida Medea in Corinto di Mayr),
dallaltro quella – forse meno affascinante – tra musicisti già romanticizzati,
ma ai loro primi passi, e ineludibili modelli rossiniani ancora capaci
dimbrigliare le pulsioni del “nuovo che avanza”. Il che è accaduto con la Francesca da Rimini di Mercadante lanno scorso e accade,
appunto, con questa meyerbeeriana Margherita
dAnjou. Un momento dello spettacolo © Fabrizio Margiotta
Meyerbeer, come più tardi Offenbach,
è uno di quegli ebrei tedeschi che – cosmopoliti per vocazione e portato
storico – solo alle prese con altri idiomi e altre estetiche approderanno a un
linguaggio capace di fare testo. Tuttavia, se il Meyerbeer “francese” codificherà
nuovi paradigmi (il romanzesco spettacolare, la cornice più viva dei
personaggi, gli ingredienti esornativi intesi come elemento non accessorio ma
ineludibile), il Meyerbeer “italiano” profuma dantico: ancora nel 1819 metteva
in musica una Semiramide basata sul
vetusto, e ormai poco commerciabile, libretto di Metastasio; mentre nel 1824, con Il crociato in Egitto, tentava di
giocare fuori tempo massimo la
carta del ruolo eroico scritto per castrato. Posta a mezza strada tra questi
due titoli (ebbe battesimo alla Scala nel 1820), Margherita dAnjou assume al confronto il sapore di un melodramma quasi
sperimentale: anche perché rientra in quellibrido genere, capace di far
convivere il patetico con lumoristico, definito come semiserio e che consente
a compositore e librettista – qui un Felice
Romani più probante sul piano della versificazione che su quello della
sceneggiatura – di zigzagare tra eterogenee sollecitazioni. Nonché, al
contempo, di addentrarsi in un realismo romantico congeniale tanto al versante comico
quanto a quello sentimentale.
Un momento dello spettacolo © Fabrizio Margiotta
Purtroppo ciò non basta a
sottrarre lopera dalle maglie del lavoro epigonico, sapiente nella fattura ma
timido nellispirazione, gravido di rossinismi convenzionali e neppure sempre ben
metabolizzati: gli affondi comici – competenza dun unico personaggio di
buffonesco deus ex machina – hanno
gran peso nel plot, ma a essi non
risponde pari rilevanza musicale; mentre il personaggio della protagonista, ad
onta della matrice shakespeariana (Margherita, regina vedova privata del trono,
è uno dei personaggi dellEnrico VI),
mostra scarso appeal drammaturgico e
non a caso si vede sottratta il rondò finale, affidato invece al mezzosoprano. Sicché,
in questo Meyerbeer ancora alla ricerca della sua strada, ciò che colpisce per
frammenti sono semmai certe costruzioni formali estranee al linguaggio
rossiniano: taluni momenti “a cappella” del primo atto, ad esempio, o la
capacità – poi portata al massimo grado dal Bellini dei Puritani – di
trasformare in veri e propri brani dinsieme pagine che, in partenza, sarebbero
momenti solistici con “pertichini” di altri personaggi. E stupisce scorgere nellincipit del rondò conclusivo (che
Meyerbeer, però, subito trasforma e destabilizza con un profluvio di
abbellimenti e variazioni) lo stesso tema che, tredici anni dopo, sarà
utilizzato da Donizetti per il
terzetto della Lucrezia Borgia.
Lo spettacolo di Martina Franca,
purtroppo, non fa molto per arginare le intrinseche debolezze dellopera. Luisi
si affida a una lettura musicale fin troppo compassata, talvolta anche
squadrata: la precisione dellappiombo non compensa il passo anelastico di
molti accompagnamenti, la volontà di valorizzare il Meyerbeer “orchestratore” a
scapito del più prevedibile Meyerbeer “vocalista” (ammesso che sia questa la
chiave di lettura della concertazione di Luisi) si scontra con la realtà di una
partitura dove il canto è preminente sulla strumentazione. Guardiamo a quanta civiltà
strumentale tedesca – sembra suggerire il direttore – trapela in Margherita dAnjou, anziché limitarci
alle suggestioni rossiniane e anticipazioni belliniano-donizettiane. Ma sta di
fatto che a tali suggestioni e anticipazioni si ancorano lestetica di
questopera e i suoi desiderata
esecutivi. Un momento dello spettacolo © Fabrizio Margiotta
Se Luisi crede fin troppo nei
pregi nascosti della partitura, Alessandro
Talevi a Margherita dAnjou deve invece credere pochissimo: la
sua regia si sostanzia in una radicale riscrittura drammaturgica, dove la
Scozia quattrocentesca della Guerra delle due rose cede il passo alla Londra
odierna dellalta moda e della fashion
week. Ne sortisce un aggiornamento, visivamente in chiave oltremodo gay-trash, che complica la vicenda
anziché renderla più fruibile al pubblico di oggi; che è privo di quella
pertinenza stilistica, e di quella prospettiva storica, necessarie a render
vive le contrapposizioni del genere semiserio; e dove la soppressione
dell“elemento guerra” (che Talevi nelle sue note di regia sbandiera come
unoculatissima scelta) è profondamente antimusicale, perché le pagine marziali
e militaresche costellano il primo atto, a cominciare dalla Sinfonia.
Il quartetto protagonistico
oscilla tra dal discreto allottimo: eppure, inserito in un terreno così mal
seminato, non arriva a pareggiare il conto. È comunque difficile non godere – soprattutto
in unopera come questa, dove le ragioni del canto sono preminenti – del
registro acuto siderale, ma anche tecnicamente ben governato, del tenore Anton Rositskiy (qualche disomogeneità,
in una tessitura così stratosferica, non disturba e può dirsi fisiologica); e
va certo lodata la salomonicità del “baritono buffo” Marco Filippo Romano, capace di far convivere senza sbilanciamenti
larte del canto con larte della commedia, le ragioni del vocalista con le
ragioni del comico. Un momento dello spettacolo © Fabrizio Margiotta
Giulia De Blasis è una protagonista che alterna la compenetrazione dellinterprete
a un canto non sempre scorrevolissimo (ma qui, forse, va chiamata in causa pure
una certa rigidità della bacchetta), allinterno comunque di unincarnazione
nellinsieme assai persuasiva. E meglio di tutti – è anche Meyerbeer a
privilegiarla – fa il mezzosoprano: Gaia
Petrone è perfetta (il suo aspetto minuto e brevilineo qui lavvantaggia)
nel suo ruolo di finto paggetto, dietro il quale si nasconde una sposa
innamorata determinatissima a riconquistare il marito, daltronde solo
platonicamente fedifrago. La compostezza della linea canora, abbinata però a un
fraseggio plastico e mobile, ne fa un elemento di sicuro interesse: sarebbe
bello riascoltarla in qualche grande ruolo del nostro Ottocento preverdiano.
I due bassi – personaggi di “cattivo” pentito luno, di “cattivo” tout court laltro – convincono meno;
tuttavia, non si può negare a Laurence
Meikle di riprender quota (dopo un avvio un po problematico) in corso di
serata e a Bastian Thomas Kohl di
avere autorevolezza, se non vocale, almeno scenica. Restano le perplessità sul lavoro
di Meyerbeer: ma se talvolta anche Omero sonnecchia…
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