A due anni da Une histoire de fou, Robert Guédiguian racconta unaltra
storia di incontro e di difficile integrazione, che ha per teatro la Calanque
de Méjean, graziosa baia alle porte della sua città, Marsiglia. Protagonisti,
ancora una volta, Jean-Pierre Darroussin
e Ariane Ascaride, veri e propri
attori-feticci del regista, che lo accompagnano ormai da più di trentanni.
In
pieno inverno, un infarto riduce in fin di vita Maurice (Fred Ulysse) nella sua casa sul mare. Accorrono al suo capezzale i
tre figli: Angèle (Ariane Ascaride), attrice parigina ossessionata dal passare
degli anni; Joseph (Jean-Pierre Darroussin), ex-operaio ed ex-impiegato ora in
disoccupazione, amante non corrisposto di una ragazza molto più giovane; e
infine Armand (Gérard Meylan),
lunico dei fratelli a essere rimasto a Marsiglia, dove tenta di far sopravvivere ciò che resta della
tradizione familiare tenendo aperta una piccola osteria e riproponendo le
ricette della madre defunta.
Limprovviso malore del padre offre ai convenuti loccasione per fare i bilanci delle proprie esistenze, ma anche della vita (o della morte) del paese in cui si ritrovano, ormai quasi interamente consacrato al turismo e quindi, nei mesi invernali, spopolato. Il già fragile quadro familiare viene turbato dallarrivo di alcuni bambini arabi, appena sbarcati sulle coste francesi, che Joseph e Armand decidono di accudire. Una scelta coraggiosa che consentirà alla famiglia di riunificarsi e di riconoscersi intorno ai propri valori. Il genitore in fin di vita innesca la riflessione su un passato che non cè più e sulle sfide del futuro: un tema frequentato da molto cinema tragicomico contemporaneo. Si pensi al padre di Le invasioni barbariche (2003) di Denys Arcand; al figlio di È solo la fine del mondo (2016) di Xavier Dolan; e – perché no – alla madre di La prima cosa bella (2010) di Paolo Virzì. Un topos che Guédiguian cerca di integrare nella sua poetica, con tutti i limiti che la contraddistinguono: tra tutti, una velleità politica e pedagogica mal dosata, e spesso difficilmente integrata con i tradizionali schemi narrativi sentimental-borghesi dOltralpe. Si ricordino, sia pure su piani totalmente diversi, la guerra di Larmée du crime (2009), il genocidio armeno di Une histoire de fou (2015), o, infine, il licenziamento del sindacalista in Le nevi del Kilimangiaro (2011), questultimo forse più noto al pubblico italiano).
Non fa eccezione La villa: il personaggio di Joseph è il simbolo – fin troppo prevedibile e abusato – di una classe operaia incapace di interpretare, con i suoi schemi ideologici, la realtà che cambia. Joseph accusa la giovane amante di essere «con il cuore a destra e la testa a sinistra»; a sua volta è accusato dal soldato “neoproletario” di colore di negligenza borghese e addirittura di razzismo. In questo senso egli si pone in continuità con il Michel di Le nevi del Kilimangiaro e con i suoi dilemmi morali, quelli di una “classe” che non esiste (quasi) più. La cosa migliore del film è Ascaride, cui il regista conferisce maggior risalto e profondità rispetto alle precedenti pellicole, venendo ripagato da una performance asciutta e impeccabile. I turbamenti interiori di Angèle, relativi al tempo e alletà che avanza, oltreché allopportunità o meno di concedersi al giovane pescatore Benjamin (Robinson Stévenin), verranno risolti, quasi teleologicamente, nello stesso modo: attraverso il contatto con i migranti. Da questo punto in poi la politicizzazione forzata del film vanifica tutto, rendendolo una sorta di pamphlet “post-umanitario” (così Lili Choukiaraki) teso a indagare non tanto il dramma dei migranti, quanto leffetto, quasi taumaturgico, dellazione umanitaria su chi la compie. Larrivo dei profughi non porta a una riflessione rispetto allordinarietà della vita familiare, come avviene in parte, per esempio, in Terraferma (2011) di Emanuele Crialese; e neanche innesca quelle dinamiche di inseguimento poliziesco che rendono convincente un film come Miracolo a Le Havre (2011) di Aki Kaurismäki, che pure tematicamente sembra essere, per Guédiguian, un modello di riferimento.
La tematica migratoria è qui inserita in modo gratuito, a tratti fastidiosamente ammiccante. «Oggi non potrei fare un film senza fare riferimento ai profughi» ammette lo stesso regista, e sinceramente non si capisce il perché. Alcuni, vedendo La villa, penseranno a Eric Rohmer, sia per il predominio del parlato sullazione, sia per il continuo contrappunto tra realtà e finzione, tra parola e immagine, tra sistema degli sguardi e sistema dei personaggi. Ma quello di Guédiguian è piuttosto un “racconto dinverno” che non racconta niente, se non la velleità autocompiacente di un regista che pretende di guardare la realtà riuscendo a parlare solo di se stesso: simile, in questo senso, al suo protagonista.
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