È
stato presentato al Lido il terzo dei film asiatici in concorso, dopo Human Flow di Ai Weiwei e Sandome no Satsujin di Hirozaku Koreeda ma anche, e
soprattutto, il primo e lunico di una regista donna. Si tratta della cinese Vivian Qu, produttrice di opere indipendenti
(tra i titoli più acclamati Black Coal
Thin Ice di Yinan Diao, Orso dOro
al Festival di Berlino 2014), qui al suo secondo lungometraggio. Il suo film desordio,
Trap Street (2013), aveva partecipato
alla 70ª edizione della Mostra veneziana nellambito della Settimana della
Critica, guadagnandosi il Premio Opera Prima Luigi De Laurentiis.
“Promossa”
nella competizione ufficiale, Qu si presenta con una storia decisamente cruda, che
parla di una infanzia violata e di unadolescenza negata. In una cittadina sul
mare, la sedicenne Mia (Wen Qi)
lavora come maîtresse in un resort dellisola di Hainan. Una notte nella
stanza prospiciente la sua vede entrare un uomo (Cao Yunqing) e due ragazzine, Wen (Zhou Meijun) e Xin (Jiang
Xinyue). Come emerge il giorno successivo, e come una perizia medica sul
corpo delle giovani confermerà, in quella stanza si è consumato uno stupro.
Subito dopo laccaduto, Wen scappa dalla casa della madre, con la quale ha un
rapporto conflittuale, per pregare il padre (Geng Lee) di ospitarla a casa sua, ma viene respinta. Dopo il rifiuto la piccola vagherà da sola per la
città. Nel frattempo Mia, che la notte del delitto ha registrato un video
probatorio, decide di non consegnarlo
allispettore Wang (Li Mengnan) e
allavvocatessa Mrs. Hao (Shi Ke)
che stanno indagando sul caso: il suo piano è quello di chiedere un riscatto
allo stupratore per comprarsi un passaporto falso e lasciare il paese. Le cose,
tuttavia, non vanno nel verso sperato.
Una scena del film Fa
piacere che, dopo il documentario di Ai Wei Wei, sia approdato al Lido un altro
film cinese “impegnato” in un panorama, dominato dalle cinematografie europee e
anglosassoni, in cui il termine sembra aver acquisito una valenza quasi esclusivamente
negativa: gli ultimi scampoli di cinema engagé
sembrano quelli di Robert Guédiguian e Paolo Virzì o gli aborigeni “manieristi” di Thornton. Ma sarebbe sbagliato leggere Jia Niang Hua secondo unottica gender oppure orientalizzante: il cinema
di Qu è simile, quantomeno negli intenti, a quello di Jia Zhangke, seppure il rapporto della camera con i personaggi e le
strategie di messinscena ricordino piuttosto quello dei fratelli Dardenne.
Non
è un caso che il direttore della fotografia sia Benoît Dervaux, storico operatore dei due registi belgi, unica
presenza europea nella troupe. Si
potrebbe quasi parlare, malignamente, di un “brand Dardenne”, sorta di passe-partout, per giunta, a costi
contenuti, di cui buona parte del cinema indipendente contemporaneo parrebbe
servirsi per conquistare il pubblico, esigente, dei festival occidentali. Le
due protagoniste sembrano, e non poco, due variazioni sul tema di Rosetta (1999). La camera, rigorosamente
in steadicam, pedina i personaggi, si
sofferma sui loro primi e primissimi piani. Li scruta, cerca di metterne in
risalto la purezza, di eliminare gli elementi di contesto relegati a sottofondo
fuori campo o fuori fuoco. Infine, schiva qualunque soluzione possa essere
percepita come mistificatoria: niente musica, molto rumore di ambiente, poche
luci artificiali.
Una scena del film
Dietro a unestetica forse troppo derivativa si cela una riflessione formale profonda e appassionata. Si gioca sul contrasto tra quanto viene mostrato e quanto viene occultato: trasposizione dialettica del rapporto tra individui, soprattutto di sesso femminile, e una società, quella della Cina contemporanea. Le
azioni non sono mai rappresentate, ma restano nascoste in un intricato gioco di
ellissi. Né è possibile ricavare alcun indizio dellaccaduto dallespressività
quasi assente delle due protagoniste, malgrado labbondanza di primi e
primissimi piani. La solitudine narrativa ed estetica dei personaggi non è il
nucleo drammatico, ma la precondizione perché lazione abbia luogo. Come nei film
dei Dardenne, eliminare tutto ciò che è politico è una scelta di per sé estremamente
“politica”. La Cina di Qu è una sorta di anarchia neoliberista in cui tutto è
acquistabile, perfino la giustizia e la libertà. Lunica emancipazione
possibile passa attraverso lazione individuale, per quanto nichilista e cieca
essa possa essere (da qui, appunto, la pertinenza dell“estetica Dardenne”, e
il rimando a Zhangke).
Una scena del film
Nella
conquista della libertà da parte delle due protagoniste il film si trasforma progressivamente
in romanzo di formazione, quasi un rito di passaggio alletà adulta. Tuttavia i
ritmi della crescita non sono quelli del percorso individuale, ma quelli
imposti dalla società: il riferimento ai centri di chirurgia plastica per la
ricostruzione dellimene, su cui la regista si sofferma, è la manifestazione più agghiacciante.
Efficace,
in questo senso, la “felliniana” statua gigante di Marilyn Monroe, evidente surrogato materno, sotto cui Mia cercherà
riparo; e che non a caso verrà abbattuta e portata via nella splendida scena
finale. Qu mostra una sensibilità spiccata, lontana dagli stereotipi gender. Jia Nan Hua è unopera forse non impeccabile, dalla drammaturgia
incerta (poco riuscito il bilanciamento tra le vicende delle protagoniste), ma ha
la freschezza di un film militante che accompagna il percorso di crescita dei personaggi senza mai sovrapporsi a esso.
|
|
|
|
Jia Nian Hua
|
|
|
|
La regista Vivian Qu
|
|
|
|