Dopo
più di sessantanni finalmente arriva a Venezia il “mostro della laguna”. A
riportarlo in vita è Guillermo Del Toro
con il suo The Shape of Water, terzo
film in concorso alla Mostra, che modella sul corpo dellamico Doug Jones un nuovo costume da anfibio
(dopo quello di Abe Sapiens in Hellboy –
The Golden Army, 2008) con le identiche fattezze della creatura del film di
Jack Arnold.
Viste
le premesse la storia non può che essere ambientata agli inizi degli anni 60,
in piena guerra fredda. Elisa (Sally
Hawkins) è una donna muta, abitudinaria e dimessa che fa le pulizie in un
laboratorio scientifico militare di Baltimora. Divide la sua vita tra i
quotidiani incontri con Giles, il vicino di casa omosessuale (Richard Jenkins), e le lunghe
“chiacchierate” con la collega Zelda (Octavia
Spencer). Un giorno al laboratorio arriva dentro una capsula piena dacqua
una creatura inquietante, accompagnata da Strickland, lancora più inquietante
nuovo capo della sicurezza (Michael
Shannon). Il crudele trattamento riservato alla creatura provoca la
reazione della donna, che riesce a stabilire una sintonia particolare con il
“mostro”, al punto che ne nascerà una vera e propria storia damore destinata a
interferire con i piani dei militari statunitensi e delle spie russe.
In
questo nuovo capitolo della sua filmografia il regista messicano riscopre il
cinema classico e soprattutto uno dei sottogeneri più caratteristici del cinema
di serie B, che viene riletto, rimodellato e persino ribaltato nel rapporto tra
la donna e il mostro allinterno di unopera “liquida”, completamente immersa
in un verde-azzurro che sembra emanare dalla creatura e permeare così tutta la
scena.
Gli attori si muovono
molto bene a partire dalla protagonista, una sorprendente Sally Hawkins che
svela un lato sensuale inatteso. Conferme vengono da Shannon, Jenkins e
soprattutto da Octavia Spencer, particolarmente a suo agio in una scenografia
che sembra arrivare direttamente dal set di Diritto
di contare (2016). Eppure i loro personaggi peccano di un eccesso di
drammatizzazione che ne impedisce un vero e proprio sviluppo nellavanzare
dellintreccio, rimanendo troppo uguali a loro stessi.
Una scena del film
Una
semplificazione che porta Del Toro a eludere qualsiasi approfondimento su temi
concettualmente “pericolosi” (ad esempio lestetica del mutante), andando a
sfiorare le banalità di Downsizing (come nel tocco
guaritore del mostro) evitate proprio grazie alla non scontata componente
erotica che subito irrompe felicemente nel film con la masturbazione “a tempo”
della protagonista per arrivare al sesso consumato con la creatura.
Come
accade in molto cinema hollywoodiano di questi ultimi mesi, non si dimentica di
stigmatizzare la “nuova” America trumpiana, così pericolosamente uguale a
quella segregazionista e muscolare di sessantanni fa, di cui il personaggio di
Shannon, con la sua crudeltà gratuita, il suo prepotente arrivismo, il suo
naturale odio per il diverso, la sua “perfetta” famiglia e il suo
incondizionato amore per gli status
symbol è la rappresentazione più evidente.
Allo
stesso modo Del Toro non dimentica di regolare alcuni conti in sospeso con una
certa critica che troppo spesso sottolinea il suo debito con lestetica di Tim Burton (in un dialogo tra Elisa e
Giles fa bruciare la “sua” fabbrica di cioccolato) e questo nonostante abbia
definito il film “un antidoto al cinismo”. Per il regista questo suo lavoro è
unopera «sullAmore reale, che come lacqua è la forza più gentile e più
potente dellUniverso, libero, senza forma fino a quando non lo si lascia
entrare» (ma, mi raccomando, non accostatelo allAtalante…).
Insomma
come e più di La La Land, The Shape of Water è omaggio transgender
al cinema degli anni doro di Hollywood: fantascienza, mostri, commedie,
peplum, noir, spionaggio e, ovviamente, il musical (tanto musical) farciscono
(forse anche oltremisura) le immagini di una pellicola che, come il film premio
Oscar di Chazelle, rimane fin troppo
in bilico tra buone idee e tanta furbizia.
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