Ora che questo spettacolo ha
concluso una nuova fase (prima al Vascello di Roma, poi al Franco Parenti di
Milano) di una trionfale tournée, possiamo dire di averne intuito bene il
successo dopo averlo visto in anteprima assoluta ai primi di luglio del 2015,
sempre a Milano. La stessa impressione positiva è stata confermata, in tempi
più recenti, nella serata fiorentina al Niccolini. E dire che questo nuovo “assolo”
era nato come una proposta del Circolo dei Lettori di
Torino, nellambito del Festival Torino Spiritualità, in serata unica al
Carignano. Ma la curiosità artistica e intellettuale e la maestria di Fabrizio Gifuni, nonché lempatia con il
pubblico hanno fatto sì che il romanzo di Camus
divenisse unaltra importante tappa del suo percorso attoriale e a suo modo
autoriale.
Seguendo a una certa distanza di
tempo il magistrale dittico Pasolini-Gadda, questo Straniero potrebbe sembrare deviare da
quella linea progettuale che Gifuni (allepoca con Giuseppe Bertolucci) si era dato, accostando i due grandi intellettuali
come paradigmi di unidea di antibiografia di una nazione. A sua volta lo
“straniero” Meursault è un anti-eroe, come a suo modo il Gonzalo Pirobutirro
gaddiano, entrambi espressione di un preciso male di vivere, di una “cognizione
del dolore” che, nel caso del personaggio di Camus, si dà anche come una
rinuncia alla difesa di sé. Un momento dello spettacolo
Per un attore da sempre rigoroso
nel costruire il proprio percorso, tanto più nellambito teatrale, deve essere
scattato un interesse non solo verso un altro grande scrittore, ma anche nel corpo
a corpo con un personaggio di spessore. Abbacinato da un faro che lo fronteggia
per tutto lo spettacolo – evocazione del sole algerino che nel film di Visconti (1967) colpiva il viso sofferente
di Mastroianni – Gifuni trasuda
passione stando spesso fermo davanti al leggio, cui si affida peraltro a
intermittenza, calibrando essenziali ma fondamentali movimenti e creando una sempre
rinnovata polifonia di voci e suoni. Volta per volta egli è Meursault, ma è anche
il commissario e poi il Pubblico Ministero e nel dire le parole del romanzo ne
mette in evidenza i valori linguistici, semantici e espressivi, come in altri
lavori precedenti. Certo, stavolta si tratta di recitare e interpretare in
italiano un testo francese, ma la lingua di Camus ha una sorta di grado zero,
di essenzialità della “messa in frase” tale da conservare anche nella nostra
lingua gran parte delle proprie qualità. Parafrasando un celebre scambio di
battute di Amleto è come se lattore
dicesse al pubblico “queste parole sono mie” e il pubblico a sua volta “sì ma
ora sono anche mie”, perché ascoltare un grande attore che legge o dice a alta
voce per noi un testo crea un meccanismo di scambio. Una relazione teatrale.
Un momento della tournée spettacolare di Gifuni
Tornano alla mente le immagini
del citato film di Visconti – che Gifuni a suo modo ha tenuto in considerazione
– già quando vediamo lattore indossare un abito che richiama molto da vicino
quello di Mastroianni. Sia nel capolavoro viscontiano che in questo monologo i
vestiti di Meursault, di taglio sartoriale, sembrano appartenere più a un
borghese che a un semplice impiegato, estraniandolo.
In taluni allestimenti del
monologo gifuniano sono state collocate in scena delle valigie, addossate quasi
alla maniera di una celebre installazione di Fabio Mauri conservata al MAXXI di Roma. Ciò, ci è sembrato, a
evocare il tema del viaggio, che è da intendere sia come percorso interiore sia
come destino. Bravissimo G.U.P Alcaro
che ha composto suoni e musiche di stridente, inquietante valenza, anche in
forma di adattamenti di brani dei Cure o dei Tuxedomoon. Essenziale e efficace
la regia di Roberta Lena che ha
lintelligenza di mettersi al servizio di un grande attore.
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