I Sette contro Tebe di Eschilo e le Fenicie di Euripide sono
le due tragedie che con una scelta ardua, ma culturalmente stimolante, lIstituto
Nazionale del Dramma Antico (INDA) ha selezionato per il 53° Ciclo di
spettacoli classici al Teatro Greco di Siracusa (in scena a giorni alterni fino
al 25 giugno). La sfida è rappresentare due
drammi che trattano lo stesso mythos,
lo scontro fratricida per il potere tra Eteocle e Polinice, figli di Edipo e di
Giocasta, preludio al tragico epilogo della saga dei Labdacidi, sovrani di
Tebe.
Con
la regia rispettivamente di Marco
Baliani, i Sette contro Tebe, e
di Valerio Binasco, le Fenicie,
selezionati dal direttore artistico Roberto
Andò, gli spettacoli consentono un confronto tra il mondo ideologico e
poetico dei due grandi drammaturghi ateniesi. Il nucleo tematico centrale della
guerra e della violenza allinterno della famiglia nella lotta per il potere
viene declinato con accenti epici da Eschilo che, coerentemente con la propria
teodicea, mette in risalto il tema della maledizione degli dèi, stabilendo una
stretta relazione tra il mondo divino e quello umano, mentre Euripide cerca,
scavando nellanimo dei personaggi, le motivazioni delle loro azioni rovinose
per denunciarne lintrinseca meschinità.
Rappresentate,
luna nel 467 a.C., laltra tra il 410 e il 408 a.C., le tragedie riflettono la
diversa temperie politica vissuta dalla polis
a distanza di oltre mezzo secolo. Negli anni Sessanta nella memoria degli
ateniesi era ancora vivo il ricordo delle guerre persiane combattute contro un
nemico esterno, ed Eschilo nei suoi versi denuncia gli aspetti devastanti delle
lotte armate in una visione che travalica il tema del conflitto fratricida.
Euripide invece propone alla coscienza critica dei suoi concittadini una
riflessione sul relativismo morale sotteso alle dinamiche della corsa al potere
e sugli aspetti deleteri della guerra civile, in particolare quella che si era
scatenata nel 411 a.C. con il colpo di stato dei Quattrocento contro il regime
democratico. Un momento dello spettacolo I Sette contro Tebe © Carnera La
strada percorsa da Baliani e Binasco non è nella linea della lettura
filologica, fornita loro dalle due valide traduzioni, rispettivamente di Giorgio Ieranò e di Enrico Medda. Entrambi i registi
operano in direzione di un avvicinamento delle tragedie al pubblico odierno
intervenendo sul testo con tagli, cambi nellattribuzione delle battute dei
personaggi, inserzione di elementi didascalici, fino ad arrivare, nel caso dei Sette contro Tebe, a un radicale
adattamento.
Baliani
porta sulla scena un Coro che, a differenza di quello eschileo fatto di sole
donne, presenta una significativa componente maschile per rendere con maggiore
icasticità limmagine di unintera comunità assediata dal nemico e in preda al
panico. Lavorando a fondo sugli interpreti (gli allievi dellAccademia dArte
del Dramma Antico dellINDA, sezione Giusto Monaco), il regista (con lausilio
della coreografa Alessandra Fazzino)
ne ha fatto corpi narranti, espressione del terrore che invade tutti. Una
scelta che tuttavia non intacca il risalto dato nelloriginale alla condizione
femminile, nella sua intrinseca vulnerabilità ed esposizione alla violenza dei
vincitori.
A
capo di questo Coro inedito, nei panni della Corifea, Baliani mette Antigone
(la interpreta in maniera non del tutto convincente Anna Della Rosa), benché nel testo greco il personaggio compaia
solo nel finale, per altro riconosciuto come spurio dai filologi. Ne deriva
limmagine di una fanciulla fragile, unanti-eroina, che condivide la paura
delle altre donne e non cessa i suoi iterati lamenti di fronte agli aspri
rimproveri del fratello Eteocle. E lo stesso eroe subisce una metamorfosi, resa
in maniera persuasiva da Marco Foschi.
Allinizio si dimostra abile nocchiero di una nave in tempesta, baluardo sicuro
in difesa dei propri sudditi, osteggiando la psicosi del nemico, sciogliendo
enigmi, mettendo in opposizione strategica i propri uomini contro i nemici. Poi
la dolorosa presa di coscienza dellineluttabilità della maledizione paterna ne
rivela lintima sofferenza. La sicurezza con cui risponde alla vivida
descrizione dei guerrieri argivi fatta dal Messaggero (un efficace Aldo Ottobrino) cede il posto a un senso
di impotenza di fronte alla via tracciata dagli dèi.
A
fare da cornice allo spettacolo, in apertura e in chiusura, Baliani introduce
due rheseis spurie, scritte di suo
pugno, recitate da un anziano “custode del teatro” (Gianni Salvo) che rende edotti gli spettatori sulle vicende
mitiche, estrapolandole dal testo, e li esorta pleonasticamente, con toni
retorici, a fare tesoro di quanto avviene in scena. Di fatto il regista
conferisce alla sua lettura un taglio marcatamente politico. Un pamphlet contro
le guerre dei nostri giorni, più o meno vicine. Si stabilisce così
unequivalenza tra lassedio di Tebe e quello di Sarajevo o Aleppo o Kobane. Un momento dello spettacolo I Sette contro Tebe © Centaro In
questottica sono stati ideati i costumi: arcaici e tribali nella parte
iniziale si mutano in ultimo nelle tuniche e nel capo coperto delle donne
musulmane che disperate abbracciano i caduti. Il passaggio dal tempo mitico
alla contemporaneità è contrassegnato anche dalle musiche di Mirto Baliani. Un tessuto sonoro composito, che a tratti si fa melodia.
Un grumo di rumori bellici assordanti e incombenti, allinterno del quale lo
scalpitio dei cavalli e il cozzare di lance e scudi diventano il fragore
esplosivo delle armi da fuoco e delle bombe che aprono profondi crateri nel
terreno.
Un
albero frondoso è posto al centro della scena creata da Carlo Sala, autore anche dei costumi. Una sorta di totem intorno al
quale si stringevano gli assediati in preda al terrore, che alla fine si spezza
a sancire la rovina di una famiglia e di unintera città: salva dalla conquista
nemica, ma lacerata dalla guerra fratricida e da un contrasto che causerà nuove
morti, quello per la sepoltura del corpo di Polinice. Il governo di Tebe, che
lo considera un traditore per aver osato muovere guerra contro la patria,
decreta che il suo corpo debba rimanere insepolto. Una decisione empia e
tirannica di cui il regista sottolinea la ferocia con luso di un altoparlante
sul genere di quelli usati nei campi di sterminio nazisti. La violenza del
potere, la sua ottusa protervia, il suo contrapporsi alla Giustizia non
conoscono confini temporali. La fiera resistenza di Antigone al decreto, in un
atteggiamento eroico in contrasto con la vulnerabilità emotiva dimostrata fino
a quel momento, lascia presagire un futuro luttuoso.
Per
le Fenicie la scenografia di Sala
copre il terreno con un telo rosso che dilaga come sangue oltre lorchestra: al
centro spicca un albero secco, reso bianco dallusura del tempo quasi a segnare
il passaggio dallepoca eschilea a quella euripidea, vuota ormai di prospettive
politicamente vitali.
Anche
per questo spettacolo il regista introduce in apertura una rhesis riassuntiva del contenuto mitico, affidata alla voce della
Corifea (Simonetta Cartia) che con
accento dellEst parla in un microfono a stelo. Ai margini della scena siedono
“brechtianamente” alcuni degli attori protagonisti.
Giocasta
recita il prologo dopo aver rivolto a Zeus una preghiera che Binasco estrapola
dalle Troiane euripidee, dove è Ecuba
a pronunciarla. Le sue parole segnano la distanza della divinità dalle vicende
umane: nessun aiuto soprannaturale soccorre gli individui in balia della sorte
e delle loro stesse rovinose azioni.
Secondo
Euripide, lanziana regina, diversamente da quanto raccontato da Eschilo e da Sofocle, ha scelto di vivere nonostante
latroce scoperta dellincesto consumato inconsapevolmente col figlio Edipo, il
quale a sua volta vive ancora nella reggia dopo essersi accecato. Un momento dello spettacolo Fenicie © Carnera
Fin
dalle prime battute il regista sottolinea il ruolo materno di Giocasta,
interpretata con appassionato accoramento da Isa Danieli. Lattrice circonda di amorose cure, nutrendolo e
accarezzandolo, Edipo, lattore italo-giapponese Yamanuchi Hal. Presenza muta, ma inquietante per tutta la durata
della vicenda. Sempre da madre, Giocasta si appella a Eteocle e a Polinice, li
convince a incontrarsi, cerca con loro una comunicazione fisica oltre che
verbale in un gioco prossemico teatralmente efficace. Sforzi vani che si
infrangono nella brama di potere di Eteocle (reso con vibrante arroganza da Guido Caprino) e nella irremovibile
determinazione di Polinice (Gianmaria
Martini dai toni talvolta queruli). Binasco drammatizza lo scontro in atto
esasperandone i toni e mettendo in evidenza il carattere violento dei due
fratelli. Radicalizza la fisionomia di Eteocle, guerriero audace, ma incline
più allazione che al ragionamento; e attribuisce a Creonte, diversamente
dalloriginale, loculata idea di consultare lindovino Tiresia, dando anche
risalto allordine di non seppellire il cadavere del fratello e di punire con
la morte chiunque osi farlo. Un inserto testuale probabilmente spurio.
La
connotazione positiva data alla figura di Creonte è affidata alla sensibile
interpretazione di Michele Di Mauro.
In lui, allabile stratega che suggerisce a Eteocle il piano difensivo da
opporre agli aggressori, si somma la fisionomia di padre tenero. Un padre che
allinteresse dello Stato antepone la vita del figlio Meneceo, indicato da
Tiresia come vittima da sacrificare per la salvezza di Tebe. Sarà il giovane ad
abbracciare volontariamente la morte compiendo una scelta che linterprete (Matteo Francomano) rende con
fanciullesco e volutamente goffo eroismo.
Completano
il quadro dei personaggi principali Antigone (unespressiva Giordana Faggiano), fanciulla
irrequieta, curiosa di vedere i guerrieri nemici dallalto delle mura, sospesa
tra timore e stupita meraviglia, legata a Eteocle e soprattutto allesule
Polinice in maniera così viscerale da far subito intuire quale sarà il suo
comportamento di fronte al divieto di seppellire il fratello. E anche la sua
dedizione nei confronti del padre, di cui condividerà lesilio, è in linea con
il carattere generoso e appassionato che la contraddistingue.
Nel
disegnare teatralmente una saga tanto cupa e sanguinosa Binasco sceglie
unintonazione variegata, dove a momenti resi con intensa drammaticità si
alternano venature comiche e grottesche. A cominciare dalla scena della teichoskopia giocata tra Antigone e il
Pedagogo (Simone Luglio) con toni
talvolta ludici. Per continuare con lepisodio di Tiresia, dove lindovino
(interpretato da Alarico Salaroli) è
rappresentato come un vecchio bizzarro, con infradito ai piedi e in mano un
sacchetto di plastica in cui custodisce la corona doro ottenuta per i suoi
meriti nellarte della divinazione. Analogamente, nelle due drammatiche rheseis dei messaggeri. Luna a
resoconto della battaglia, laltra del mortale duello tra Eteocle e Polinice e
del suicidio di Giocasta, recitate dallo stesso attore, Massimo Cagnina, con accento siciliano. Qui il tono epico si
abbassa a quello di un racconto popolare sul genere del cuntu e vengono intercalate battute comiche, che sebbene gradite al
pubblico appaiono troppo insistite. Un momento dello spettacolo Fenicie © Centaro
In
controtendenza rispetto alla consuetudine del teatro greco siracusano, Binasco
riserva una dimensione statica al Coro (sempre gli allievi dellAccademia). Le
donne Fenicie, con il volto coperto da maschere e gli abiti dimessi, appaiono
come un gruppo di profughe che nellabbigliamento sembrano richiamare le deportazioni
della seconda guerra mondiale, un tempo cui alludono anche le divise militari
dei messaggeri e del pedagogo. La loro funzione è ieratica, sacrale. Con le
loro parole, doppiate dalla Corifea, le donne richiamano le origini del mito,
in quellabisso insondabile che governa la storia degli uomini. Lazione si
svolge davanti ai loro occhi, ma le Fenicie guardano lontano oltre il presente,
in una dimensione che travalica il contingente e assume una valenza universale.
È una meditazione sul destino degli uomini, sul loro essere in balia del volere
degli dèi o dei capricci della sorte, attraverso la quale il regista esprime
una sua dolente consapevolezza. A dilatare questo effetto contribuiscono le
musiche di Arturo Annecchino suonate
dal vivo al pianoforte digitale da Eugenia
Tamburri ed echeggiate da un pianoforte registrato. Cellule melodiche che
si ripetono insistentemente ed evocano con andamento sempre uguale lessenza
delle antiche storie, la perenne immanenza del teatro
greco.
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