In Heinrich von Ofterdingen – romanzo che
nominalmente non rientra fra le fonti del Tannhäuser, ma il cui tema di
fondo, ossia il viaggio alla ricerca di sé stessi, è il medesimo di questa Grosse
romantische Oper wagneriana – uno dei personaggi esalta le guerre di
religione, intese come apoteosi della follia, ma anche forma di dissoluzione da
cui potrà nascere unumanità rigenerata. Il libro di Novalis venne pubblicato postumo e incompiuto nel 1802, oltre quarantanni
prima che Tannhäuser vedesse la luce, e – comè nel destino dei lavori
lasciati a metà – non appare inequivocabile in tutte le sue argomentazioni:
daltronde, il cuore poetico del romanzo è racchiuso nelle sue innumerevoli
metafore, non nei suoi occasionali paradossi. Altrettanto paradossalmente,
però, ci voleva un regista estraneo alla cultura tedesca per illuminare il
nesso tra Wagner e Novalis: è
accaduto in questa produzione allo Staatstheater di Darmstadt, dove Amir Reza Koohestani (uno dei nuovi
protagonisti della scena teatrale di oggi, ghettizzarlo al mero ambito
sperimentale sarebbe ormai limitativo) si è cimentato nella sua prima regia
operistica.
Il legame non deriva solo dal fatto che
Ofterdingen, al pari di Tannhäuser, è un trovatore medievale realmente esistito
e poi trasfigurato dallautore che vi sidentifica. Altri argomenti puntellano
tanto lopera quanto il libro: il dolore della lontananza, lesperienza del
ritorno, linsufficienza dun approccio conoscitivo solo intellettuale o solo
emozionale, che unicamente il riapprodo a unetà primigenia potrà ricondurre a
unità. E se Wagner non parla di guerre di religione, lesaltato misticismo e il
rigore sessuofobico che, almeno allapparenza, intridono il Tannhäuser
potrebbero oggi suggerire unattualizzazione in tal senso.
Un momento dello spettacolo © Wolfgang Runkel Così facendo, liraniano Koohestani non solo
racconta assai bene un mondo che conosce, ma ci restituisce un Tannhäuser
“rovesciato” eppure di straordinaria autenticità. Dunque, la Turingia del
tredicesimo secolo cede il posto a un Medioriente contemporaneo, ma soprattutto
ideale; la polemica antiecclesiastica e antiromana di Wagner – il Papa, in
questopera, non è certo un modello di perdono cristiano – diventa un jaccuse
verso lintransigenza islamica; lo struggente ma ambiguo ascetismo mariano di
Elisabeth, angelicata più per necessità che intima virtù, si converte in una
ragazza in hijab non priva di conati trasgressivi (sotto la tunica
traspaiono i jeans), che si esalta damor platonico e aspira allamore
completo. Allopposto, Venus, piuttosto che demonica signora della passione e
bellezza ultraterrena, qui è una donna innamorata e ancora piacentissima, ma a
un dipresso dallo sfiorire: allettante e implorante luomo che la sta
abbandonando come fosse la protagonista della Voix humaine.
Tutti questi tasselli – natura versus
cultura, femminilità antitetiche ma complementari allo specchio, leros come
ansia di conoscenza prima ancora che di piacere – vengono ricostruiti da
Koohestani con la sinergia, per lui consueta, tra linguaggio teatrale e
cinematografico. Filmati da Philipp Widmann, i video non diventano solo un
modo di tradurre immagini irrealizzabili per via scenografica, come il tripudio
di naiadi, sirene e baccanti nel Venusberg: è una maniera di restituire quellutopia
di «scena invisibile» wagneriana (espressione coniata dallo stesso compositore)
per cui si può raccontare senza “illustrare”. E luso delle telecamere qui
amplifica gli spazi mentali piuttosto che quelli fisici: come la
moltiplicazione del volto di Elisabeth quando sincammina verso il suo
castissimo ed eroticissimo olocausto santificatorio, o il primo piano di
Wolfram dietro le quinte, che spia disperato lamore tra lei e Tannhäuser.
Un momento dello spettacolo © Wolfgang Runkel
Quanto a quella borghesizzazione dellèpos
wagneriano che dai tempi di Chéreau
e Ronconi sembra un affondo
ineludibile per ogni regia “dautore”, Koohestani non vi rinuncia del tutto: il
certamen trovadorico del secondo atto ha le luci sparate e il pubblico
cammellato di certe competizioni in studio televisivo, mentre il Venusberg
viene ricondotto a un mastodontico letto a baldacchino, simbolo di benessere
sessuale e, probabilmente, anche finanziario. Ma si tratta di ammodernamenti
dun regista interessato alleternità più che allattualità della vicenda.
Usciti da teatro, quel che resta negli occhi è soprattutto la forza di certe
immagini che riassumono la sensualità della religione e il misticismo della
materia: come il velo islamico abbandonato da Elisabeth, che Wolfram trasforma
in reliquia erotica e feticistico oggetto di desiderio; o proprio quel letto a
baldacchino, un tempo ricettacolo di piaceri, ormai smantellato e ridotto a una
colonna e un brandello di tenda che evocano una crocifissione stilizzata. Quasi
si fosse assistito a una martirizzazione delleros. Bacchetta in passato abbastanza presente in Italia,
e oggi direttore della Staatsorchester Darmstadt, Will Humburg sigla una concertazione in fruttuosa empatia con la
regia. Ne scaturisce una lettura musicale tanto di alto profilo tecnico
(respiro ampio, colori cangianti, suggestivi effetti di avvicinamento e
allontanamento del suono grazie alla variabile dislocazione del coro e degli
ottoni) quanto di estrema lucidità narrativa (la contrapposizione tra il tema
diatonico e quello cromatico che, già dalla Sinfonia, evoca il mondo dello
spirito e quello della carne si profila con immediata chiarezza). Ed è
rimarchevole anche la capacità di far “cantare” lorchestra: le voci vengono
perfettamente sostenute dal podio, si tratti dei momenti di lirismo strofico o
dei plasticissimi transiti dallarioso al declamato.
Stando così le cose anche il cast vocale ha
una bella tenuta complessiva, sebbene le due protagoniste femminili
sopravanzino gli interpreti maschili. A dominare è Katrin Gerstenberger, voce di soprano drammatico fertilmente
ibridata con il mezzosoprano e, dunque, epitome della fisionomia canora di
Venus (nonché di Ortrud, Kundry, della stessa Isolde): un canto slanciato e
dalla straordinaria forza di penetrazione, capace però al contempo di subitanee
morbidezze, che ritrae alla perfezione questa dea dellamore “umana, troppo
umana”. Mentre la voce più lirica di Edith
Haller, come Elisabeth, ne rappresenta un ideale contraltare: in lei è la
limpida sofficità del suono a evocare la sensualità sottopelle del personaggio,
che la cantante sottrae alla serena spiritualità delle raffigurazioni
tradizionali, ma pure alle esaltazioni isterico-verginali di certe
interpretazioni “alternative” (Anja
Silja, Gwyneth Jones).
Un momento dello spettacolo © Wolfgang Runkel
Sul fronte maschile simpone il Langravio di Martin Snell: un basso non più giovane
di cui dunque tanto più colpisce lautorevolezza sonora, oltre che la pregnanza
di accento e fraseggio. Cantante dottimo appiombo musicale, David Pichlmaier circoscrive Wolfram in
una dimensione di soavità e raccoglimento, confacente al ritratto da
seminarista inibito e perdente in amore che sembra farne Koohestani: il timbro,
però, è troppo poco baritonale (non manca, anzi, un retrogusto di pallida e
nasale paratenorilità) per rendere giustizia ai grandi momenti solistici del
personaggio. Mentre il Tannhäuser plasmato
dal musicalmente meno preciso Deniz
Yilmaz è quello dun Heldentenor deficitario, sì, ma non più daltri
più blasonati tenori wagneriani di oggi: porta la sua recita fino in fondo e
non arriva senza voce al micidiale monologo dellultimo atto.
I comprimari sono tutti a fuoco, ed è bello – dato
il crogiolo di culture e morali diverse che permea il Tannhäuser – che
tra i cantori della Wartburg ci sia il Walther von der Vogelweide dai tratti
orientali di Minseok Kim e lo
Heinrich der Schreiber di pelle nera di Musa
Nkuna. Kim, in particolare, con la sua tenorilità lirica si ritaglia un bel
primo piano nel Lied di Walther; mentre langoloso e robusto strumento
bassobaritonale di Nicolas Legoux imprime
icasticità alla feroce intransigenza di Biterolf. E il soprano Amelie Gorzellik è deliziosa nella
melopea del pastorello, che qui sembra innalzarsi alle vette del lamento del
pastore in Tristan und Isolde: grazie alla bravura della cantante e a
Humburg e Koohestani che, musicalmente e visivamente, trasformano
questepisodio di raccordo in un momento magico.
|
|