Senza
bisogno di aspettare linaugurazione del 7 dicembre, lopera è tornata per un
giorno ad essere un po al centro dellattualità. La prima della Gazza ladra alla Scala dello scorso 12
aprile ha interessato le cronache, musicali e (soprattutto) non. Per farlo è
però dovuto accadere qualcosa, e il qualcosa sono state le sonore contestazioni
nel corso e alla fine dello spettacolo. Eh sì, deve scorrere del sangue perché
ci si accorga che tra le varie notizie che fanno notizia cè anche la cultura,
opera inclusa. Basta anche solo sangue metaforico, per fortuna, ma pur sempre
sangue. Insomma, alla prima ci sono stati dei fischi e battibecchi tra il
pubblico in sala. E però si è parlato solo di quello.
Eppure
di motivi per occuparsi di questa Gazza
ladra ce nerano a sufficienza. Lopera è una di quelle che hanno fatto la
storia della Scala: scritta da Rossini
proprio per questo teatro, dove debuttò il 31 maggio del 1817, vi ebbe una
felicissima accoglienza iniziando da lì a girare furiosamente nei teatri
dItalia e del mondo per i decenni successivi. Per avere unidea del suo
successo si guardino i numeri delle sole rappresentazioni milanesi: nel 1817 la
Gazza resse per ventisette serate,
che alla ripresa del 1820 divennero addirittura quarantuno, trentadue in quella del 1823 e così via. Poi,
a un certo punto, più nulla. Come le altre opere semiserie rossiniane (Matilde di Shabran o, più ancora, Torvaldo e Dorliska), intorno a metà
Ottocento la Gazza iniziò a sparire dalla
circolazione (con leccezione della sinfonia), per riapparire soltanto nel
Novecento inoltrato con la Rossini Renaissance. Fu proprio la Gazza ladra a inaugurare nel 1980 la
prima edizione del Rossini Opera Festival di Pesaro, ma, da lì in avanti, gli
allestimenti sono stati pochi, uno ogni tanto. Persino alla Scala, che laveva
commissionata, la precedente messinscena della Gazza risale infatti al 1841, centosettantasei anni fa.
Un momento dello spettacolo © Brescia e Amisano / Teatro alla Scala
Il
teatro approfitta adesso del duecentesimo anniversario dalla creazione per
riportare questo capolavoro nella casa che lo vide nascere, dimostrando così
linteresse concreto della nuova direzione scaligera nei confronti delle opere
cosiddette “belcantistiche”, divenute negli ultimi tempi assai rare proprio in
una di quelle istituzioni che in passato avevano dato il via alla loro
rinascita moderna (si veda per esempio la recente Anna Bolena, e lannunciato ritorno del Pirata per la stagione 2018).
Per
loccasione la Scala ha affidato lo spettacolo a un nome di richiamo: Gabriele Salvatores (regia). Non quindi
un grande esponente del mondo della lirica, ma di quello del cinema, in modo da
creare ancor più attesa e curiosità riguardo alloperazione. Con i dovuti
distinguo (come nel caso di Luchino
Visconti o, più di recente, di Terry
Gilliam o Peter Greeneway),
però, con i registi cinematografici gli esiti sono spesso deludenti, e,
purtroppo, questa Gazza ladra non fa
eccezione.
Salvatores
inizia con una mossa “audace”, e che è ormai la prassi dei registi che vogliono
essere “moderni”: lopera “comincia” già con la sinfonia, che si suona a
sipario aperto. Sulla scena compare un teatrino di marionette (della compagnia
Carlo Colla & Figli), su cui si rappresenta lantefatto, lepisodio di
insubordinazione e il conseguente arresto di Fernando Villabella, padre della
protagonista Ninetta. Il tutto dura pochissimi minuti, poi il teatrino di
marionette scompare ed entra lacrobata (Francesca
Alberti) che impersona la Gazza. La sinfonia va avanti così, con lei che fa
evoluzioni sul palco. Alberti è bravissima, e si produce in numeri
impressionanti. Ma i tempi dellopera non sono quelli del circo, e la sinfonia
della Gazza ladra è una delle più
lunghe scritte da Rossini. Le evoluzioni, per quanto funamboliche, iniziano
presto a ripetersi, creando un effetto di saturazione, e senza un filo
narrativo (che, visto linizio con le marionette e lantefatto, ci si aspettava)
i colpi di scena sparano a vuoto e alla fine arriva la noia. Che rimane poi per
tutta lopera, con una regia caratterizzata da un realismo povero di vitalità e
di sorprese.
Un momento dello spettacolo © Brescia e Amisano / Teatro alla Scala
Per
fortuna che la compagnia di canto era ottima, con alcune punte di eccellenza.
Meno male, perché altrimenti lopera con la sua lunghezza sarebbe stata
insostenibile. Inizio dalla protagonista, Rosa
Feola (Ninetta): ecco unartista, avrebbe detto Floria Tosca. La voce non è
grande ma è bella; la tessitura di Ninetta non è quella ideale per lei (Teresa Belloc, la prima interprete,
potrebbe essere infatti definita un contralto), eppure la cantante non fatica a
proiettarla anche nella sala ampia della Scala, superando senza problemi
lorchestra (che nella Gazza non è
certo piccola). Con la voce poi Feola recita: lo fa con i fraseggi, con i
colori, supportata anche da una spigliata presenza scenica. Perfetto nel ruolo
del Podestà Gottardo Michele Pertusi
(un altro artista!): la voce negli anni non ha perso smalto o volume, e
linterprete ha affinato ancora di più, se è possibile, la sua musicalità e
padronanza del palcoscenico. Perfetto ancora come Fernando Villabella Alex Esposito (un altro ancora!), nel
ruolo scritto a posta per il grande basso Filippo
Galli, le cui difficoltà Esposito risolve in modo magistrale. Un gran lusso
poi avere Teresa Iervolino (Lucia) e
Paolo Bordogna (Fabrizio) per la
coppia dei Vingradito. Iervolino in particolare ha avuto qui lopportunità di
mettere in luce le sue considerevoli doti vocali e musicali, visto che si è
scelto di eseguire la propria aria nel secondo atto (un
classico “sorbetto”, nel lessico dellepoca). Molto bene Edgardo Rocha a suo agio nella difficile parte tenorile di
Giannetto. Corretta Serena Malfi
(Pippo). Molto bene infine i comprimari Matteo
Macchioni (Isacco), Matteo Mezzaro
(Antonio), Claudio Levantino
(Giorgio/Il Pretore), Giovanni Romeo
(Ernesto).
Un momento dello spettacolo © Brescia e Amisano / Teatro alla Scala
La
direzione di Riccardo Chailly è
stata forse il principale bersaglio delle contestazioni alla prima. Pare si sia
trattato di contestazioni organizzate da partiti milanesi ostili al maestro.
Conoscendo un po le dinamiche scaligere degli ultimi anni, non stento a
credere che ci sia un fondo di verità nellipotesi del complotto. Nella mia
esperienza, tuttavia, devo ammettere che stavolta non ho assistito ad una delle
prove migliori del direttore. I tempi erano sempre ben calibrati, ma il suono
dellorchestra era spesso (almeno dalla platea), e il fraseggio poco scattante,
soprattutto nel primo atto. Di sicuro niente di imperdonabile (da cui la mia
convinzione “complottista” per i fischi della prima), certo, però, una
direzione senza grandi sottigliezze e slancio.
Ottimo
successo la replica del 2 maggio: il pubblico ha premiato calorosamente gli
interpreti principali (in particolare Pertusi, Feola, Esposito e Iervolino), e
soprattutto Chailly, risarcendolo così dopo le ingenerose contestazioni della
prima.
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