Retorico,
tribunizio, tutto dun pezzo? Dipende dai punti di vista. A metà
strada tra vicenda privata e affresco storico, verismo rampante e
residue suggestioni romantiche, pittura depoca e sollecitazioni
politiche contemporanee (alla Rivoluzione francese descritta nel
libretto non erano estranei gli avvenimenti
repressivi contro i Fasci dei Lavoratori in Sicilia e gli anarchici
in Lunigiana, di palpitante attualità quando nel 1896 lopera
debuttava in palcoscenico), Andrea Chénier
è, di fatto, un melodramma dallanima divisa in due. Affidarne un
nuovo allestimento a Marco Bellocchio –
che delle contraddizioni della Storia e delle dissociazioni
dellintimo ha fatto lasse portante della propria cinematografia
– è stata, da parte del Teatro dellOpera di Roma, una scelta
oculata.
Un momento dello spettacolo © Yasuko Kageyama Salvaguardando
sia il romanzesco popolare al centro della partitura di Giordano
sia quel decorativismo minuzioso che, con qualche dissonanza rispetto
allafflato sintetico del compositore, informa il libretto di Luigi
Illica, Bellocchio li
travalica entrambi: il risultato è uno Chénier
di sguardo cinematografico nelle scene di massa, eppure
fondamentalmente antirealistico. Grazie alle scene di Gianni
Carluccio, autore anche di un astratto e
“psicologico” disegno luci, il regista impagina un Settecento
efficacemente schematico, molto riuscito nel transito da un primo
atto (quello Ancien
régime) ancora ornamentale a un resto
dellopera (quando ci si proietta in pieno Terrore) assai più
stilizzato, per approdare a un finale diacronico e visionario che è
un gran bel colpo di teatro. Senza sovrapporsi ideologicamente al
racconto, e valendosi di pochi segni sparsi sottotraccia, Bellocchio
restituisce alla perfezione il tema (in partenza capitale nellAndrea
Chénier, ma che Giordano stempera nelle
urgenze di una grande storia damore) delle utopie tradite e della
rivoluzione madre-matrigna, che divora i suoi figli annientando gli
intellettuali che lhanno appoggiata: argomento, daltronde, da
sempre caro al regista dei Pugni in tasca.
Anche
Roberto Abbado, dal
podio, mira ad asciugare lopera da certi eccessi di tradizione e a
ricondurla in un alveo che non sia solo quello del verismo. Lo fa,
però, con una sensibilità diversa da Bellocchio e, soprattutto,
approdando a risultati meno convincenti. Laddove il regista stilizza,
il direttore raffredda. Se Bellocchio racconta, Abbado sminuzza. La
castigatezza emotiva, sulla distanza, qui si traduce in
anestetizzazione delle emozioni. Mentre il senso del dettaglio che
caratterizza la sua concertazione frantuma la partitura, più che
metterne a fuoco tutte le componenti, senza peraltro che tale
analiticità – sul piano vocale – renda giustizia a quegli
sgretolamenti strutturali in cui Giordano era maestro, al suo gusto
di far proseguire il periodare canoro anche dopo lapparente
conclusione della pagina. Nemico della patria
e La mamma morta
continuerebbero oltre il punto in cui scattano il vertice emotivo e,
di solito, lapplauso: ma dalla lettura di Abbado (almeno in questo
tradizionale, e non nel senso migliore del termine) è difficile
avvertirlo.
Un momento dello spettacolo © Yasuko Kageyama Se pure dal
palcoscenico si respira comunque unaria nuova (difficile dire
“fresca”, per le ragioni anagrafiche che vedremo), è perché il
protagonista esordiva nel ruolo. A sessantatré anni Gregory
Kunde arriva dunque vergine al personaggio di
Chénier: un debutto che lascia ammirati non solo per la volontà di
sperimentazione del cantante, che dopo quasi quarantanni di
carriera continua a mettersi in gioco con sfide sempre nuove, ma
anche per la validità intrinseca dellesito. Il suo excursus
da tenore contraltino a baritenore, e da questo a tenore
grandopéristico, tardoverdiano, verista e perfino britteniano,
si arricchisce oggi dun rilevante tassello: per lempatia
autentica che Kunde mostra con la civiltà vocale della “Giovane
scuola”, per quella perfetta congiunzione tra grande cuore e grande
personalità che sola può garantire una calzante raffigurazione di
Andrea Chénier.
Che poi un
tenore ultrasessantenne possa avere qualche cedimento fonico –
tanto più in una tessitura scabrosa come questa – rientra fra gli
inconvenienti prevedibili, ma Kunde li aggira nel modo migliore. La
stessa sopravvenuta disomogeneità dello strumento (dovuta non solo
alletà, ma ai molti anni di frequentazione con il repertorio
baritenorile rossiniano) torna utile a valorizzare certi trapassi: ad
esempio, il passaggio dalla magniloquenza dellincipit
di Sì, fui soldato al
tono trasognato della frase «Passa la vita mia come una bianca
vela». E lottimo dominio tecnico gli consente di evitare quelle
cautele – uno Chénier cauto è una contraddizione in termini –
proprie dei cantanti che, sapendosi non più in piena forma,
soppesano al bilancino slanci ed energie.
Un momento dello spettacolo © Yasuko Kageyama Qualche
eccesso di prudenza, semmai, si può riscontrare nel Gérard plasmato
da Roberto Frontali,
di pochi anni più giovane di Kunde. I grandi momenti solistici
vengono onorati con una non trascinante correttezza, mentre altri
squarci di solito più defilati – soprattutto nello scontro con
Maddalena nel terzo atto – lasciano intuire un interprete
tuttaltro che pallido. La voce ha perso molto in termini timbrici,
e solo il registro acuto mantiene ancora la dovuta risonanza, ma si
tratta pur sempre dun baritono di ottima scuola, tanto omogeneo
nellemissione quanto chiarissimo nella dizione. Più generica la
prova di Maria José
Siri, che non rende il
transito dalla Maddalena di Coigny aristocratica e viziata del primo
atto a quella perseguitata e allucinata del resto dellopera; e
anche sul piano vocale, quando Giordano sollecita le zone più gravi,
la parte viene resa con qualche approssimazione.
Quanto alle
numerosissime parti di fianco, è vero quanto detto dal direttore
artistico dellOpera di Roma in sede di conferenza stampa: la
scelta dei comprimari dellAndrea Chénier
è un termometro per dare il voto a chi fa i cast. A giudicare da
questo spettacolo la direzione del teatro capitolino si merita un bel
“sette più”, non il “dieci e lode”: ottimi elementi si
alternano ad altri meno adeguati. Ma piace ricordare almeno lo
spessore quasi coprotagonistico della Bersi di Natascha
Petrinsky (daltronde Illica aveva
concepito il ruolo come “seconda donna”, fu Giordano a
ridimensionarlo), la vocalità robustissima del baritono Gevorg
Hakobyan (un Mathieu che è già un Gérard
belle pronto), il talento camaleontico di Graziano
Dallavalle, credibile quale mellifluo
Fléville nel primo atto non meno che come implacabile
Fouquier-Tinville nel terzo. Soprattutto, però, spicca
linossidabilità della veterana Elena
Zilio: una vecchia Madelon icasticissima. Ma
– attenzione – così credibile non perché di voce “naturalmente”
senile, bensì in virtù di un tecnicismo e una stilizzazione (senza
i quali il canto operistico non è tale, nemmeno nel verismo) che
consentono di raffigurare con compiutezza lidea di senilità.
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