Alessio Boni, alla sua prima prova
registica, sceglie Joseph Conrad, in particolare una novella
dellautore polacco, I Duellanti. Si
tratta di un racconto pubblicato nel 1908 che narra le vicende di un
leggendario e ventennale duello tra due ufficiali della Grande Armée impegnati
nelle sanguinose conquiste napoleoniche di inizio Ottocento. A sostenere Boni –
anche interprete di DHubert, generale del Nord e damerino aristocratico – il
coregista Roberto Aldorasi. Lo
spettacolo sulla scena del teatro Verdi di Padova non convince sino in fondo.
Francesco Niccolini cura la traduzione e
ladattamento drammaturgico, decodificando il flusso narrativo di Conrad in un
botta e risposta di difficile resa scenica. La pièce è ricca di dettagli e di
“racconto”, densa di azioni spettacolari che, se cinematograficamente hanno
dato vita al capolavoro di Ridley Scott (1977), sul palcoscenico possono
degenerare nel feuilleton, o peggio,
nella soap televisiva.
Un momento dello spettacolo © Federico Riva Niccolini
pare essersi concentrato sul senso interiore, patologico, nascosto nella grande
metafora della sfida, del duello e dello scontro come forma di lotta permanente
contro un nemico che coltiviamo in noi stessi. «Feraud è la
metà oscura di DHubert» – scrive il drammaturgo nelle
note al testo – «è quella parte di te che riemerge ogni volta che abbassi la
guardia, ogni qualvolta che – guardandoti intorno – scopri un desiderio vietato
che non ti vuoi negare, come ad esempio un duello in piena regola».
DHubert-Boni,
che mette in moto lo spettacolo nei panni di un curioso soldato ferito di
guerra (una qualsiasi, lo spettatore del Nuovo
Millennio ha limbarazzo della scelta), e Feraud-Marcello Prayer, guascone assoldato da Bonaparte, rozzo nei modi e
votato senza condizioni alla causa napoleonica, danno vita a una coppia di
protagonisti-antagonisti mossa da intenzioni non molto chiare, sembra, agli
attori stessi. Niccolini parla di introspezione e di assurdo ed è forse da qui
che nasce il fraintendimento registico.
“Di
tutto un po”, potrebbe essere intitolato questo spettacolo; perché di tutto un
po ritroviamo nella recitazione degli attori, supportati anche da Francesco Meoni, ottimo caratterista
che si cimenta in diversi ruoli (il colonnello Marchand, lo zio di Adèle, il
ministro Fouchè), e dalle musiche di scena del violoncello di Federica Vecchio, molto apprezzata per
lesecuzione live (le musiche sono
curate da Luca DAlberto), meno per
linterpretazione dei personaggi femminili. Gli attori turbinano in scena senza
un preciso disegno coreografico, chiarito solo in rari passaggi, e,
stabilizzandosi su una recitazione al naturale a dir poco fastidiosa, si
spostano dal registro ironico-straniato al monologare interiore, inseguendo
unidea di assurdo che la regia non sostiene. Il ricorso a una voce fuori campo
complica ulteriormente le cose. Lo stesso Meoni, il più convincente nella
recita padovana, crea dei personaggi-macchiette di per sé lodevoli, ma per
nulla integrati con linsieme.
Un momento dello spettacolo © Federico Riva I
costumi depoca di Francesco Esposito
evocano una marziale eleganza ormai decaduta, rimandando allo sfacelo di un
mondo in bilico fra trasformazioni politiche epocali. La stessa instabilità è
ribadita dalle scene di Massimo
Troncanetti, costruite e semoventi, che consentono
agli attori di plasmare secondo necessità lo spazio. Eppure laccumulo di
oggetti e di elementi scenici, se da un lato acuisce lo squallore umano del
mondo descritto, se rispecchia la mancanza di ordine nellinteriorità dei
duellanti, dallaltro lato rischia di creare un senso di indeterminatezza che
adombra alcune vincenti e poetiche soluzioni. Si pensi al “duello a cavallo”,
reso magistralmente funzionalizzando i praticabili che compongono le scene. I
due mezzanini, quello della casa del medico a destra e quello dello studiolo a
sinistra, si trasformano in rigidi destrieri di legno attraverso il ricorso a
oggetti-segno (i paramenti da guerra delle teste dei cavalli) che i due attori
tengono in mano. Il disegno luci di Giuseppe
Filipponio, impegnato per lo più in effetti scenici cinematografici, qui
concorre delicatamente alla creazione di una seconda narrazione di ombre sul
fondale: raro campo lungo di una messinscena che ambisce a impadronirsi di
codici altri (cinematografici, appunto), perdendo la sua specificità.
Un momento dello spettacolo © Federico Riva Limpressione
generale è quella di intuizioni potenzialmente vincenti ma non “sostenute” adeguatamente, oppure (essendo quella padovana lultima piazza della stagione) di stanchezza e
perdita di verve dellensemble. Il sospetto nasce dagli indizi
positivi: si guardi, oltre al già ricordato “duello a cavallo” al “duetto della disfatta”. Una scena di forte pathos drammatico (il cui schema verrà
ripetuto sul finale), nella quale gli attori duellanti, questa volta compagni
della tragica ritirata di Russia, disposti frontalmente rispetto agli
spettatori, narrano-interpretano a ritmo incalzante e in contrappunto gli
orrori delle guerre di ieri e di oggi. Boni e Prayer ne restituiscono il senso
angoscioso ma qua e là una pausa salta o un tempo viene perso.
Presentato
al Festival dei due Mondi di Spoleto a luglio 2016, I Duellanti ha goduto di una certa fortuna critica e di unottima
risposta di pubblico. La platea di Padova non ride e non reagisce agli stimoli
provenienti dal palcoscenico, ma applaude entusiasta gli attori al termine
dello spettacolo.
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