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La maschera gode

di Chiara Schepis
  Arlecchino, il servitore di due padroni
Data di pubblicazione su web 24/03/2017  

Goldoni
è di casa al Verdi di Padova e Giorgio Sangati sembra esserne l’ambasciatore; dopo Le donne gelose di qualche settimana fa, il giovane regista, sostenuto dal Teatro Stabile del Veneto, azzarda con Arlecchino, testo celeberrimo dell’Autore veneziano. Altro che potere intimidatorio dei classici! Il servitore di due padroni, in special modo in Italia, rappresenta una sfida dichiarata per chi decide di proporne una nuova regia. Macchina scenica perfetta, dalla trama tanto aggrovigliata quanto vincente, chez nous quando si dice Arlecchino si dice Strehler e Piccolo Teatro. Il fortunatissimo allestimento strehleriano, lo si voglia o no, è diventato pietra di paragone per ogni nuova riattivazione del testo e Sangati, formatosi all’atelier milanese, lo sa bene.

La nuova messinscena si pone, dunque, in rapporto contraddittorio con la tradizione, citando con gusto, sorprendendo il palato e azzardando con spezie nuove che possono essere più o meno apprezzate, ma che non mancano di qualità. In particolare, del celebre spettacolo del 1947, Sangati sembra privilegiare l’edizione detta di Villa Litta del 1963, nella quale la metateatralità del testo viene sottolineata. Questo Arlecchino 2017 comincia nella penombra di uno stanzone in cui un gruppo di comici sta riposando tra bauli e abiti polverosi. Ad apertura di sipario la compagnia si sveglia e, accorgendosi del pubblico, sprimaccia la scena e dà avvio alla narrazione.


Un momento dello spettacolo © Serena Pea
Un momento dello spettacolo
© Serena Pea

Nove attori e una musicista, panche, bauli e luci, ma soprattutto le maschere di Donato Sartori: questi gli elementi che scrivono lo spettacolo. I colori sono quelli della terra, marrone, ocra, rosso, qualche punta di verde e blu nei costumi, nuances mai brillanti ma come sbiadite dal tempo. Le tonalità smorzate, unite al trucco degli attori, conferiscono alla recitazione la cifra stilistica di una Commedia dell’Arte da cartolina. Non realistica, ma riprodotta. Non filologica, ma originale.

Simile atteggiamento interessa le scelte in materia testuale. L’adattamento infatti ritraduce la commedia assegnando ai personaggi dialetti differenti rispetto a quelli tradizionali. Il dottore, Michele Mori, si esprime così in fiorentino e non nel consueto bolognese, i canti intonati dagli attori e accompagnati dalla fisarmonica di Veronica Canale provengono dalla cultura popolare del nostro meridione, in particolare da quella siciliana.


Un momento dello spettacolo © Serena Pea
Un momento dello spettacolo
© Serena Pea

Il regista gioca non solo con i dialetti dei suoi attori, ma anche con i generi: Pantalone è interpretato con efficacia da un’androgina Eleonora Fuser che toglie in aggressività – tipica del rustego pater familias – e aggiunge in nostalgia. Un’altra donna, Anna De Franceschi, rotondissima nel costume di Brighella, costruisce un oste che predilige la simpatia a quel tratto di ostentata superiorità che separa di consueto i due zanni, lo sciocco e l’astuto, Brighella e Arlecchino (un Arlecchino, quello di Marco Zoppello, affatto tontolone). Sangati, sulla scia dell’artista Sartori, pare aver seguito il sentiero delle origini di questa maschera fino a recuperarne i tratti meno caserecci, quelli ancestrali, ferini, diabolici, istintuali.

Arlecchino/Zoppello, rossiccio di barba e capello, non conosce pudore, è guidato da sesso e fame, scopi ultimi del suo agire. Il soddisfacimento di questi bisogni primari è l’intenzione su cui si costruiscono i movimenti dell’attore. Zoppello plasma un personaggio giovane, comico e animalesco; non è un acrobata e non tenta di emulare le imprese di alcuni storici predecessori. I lazzi vengono infatti ricalibrati sulle sue caratteristiche. La mollica di pane, la mosca, la lettera fatta a pezzi, la rocambolesca cena, sono lazzi-espedienti tutti presenti ma reinterpretati.


Un momento dello spettacolo © Serena Pea
Un momento dello spettacolo
© Serena Pea

Gli innamorati, da parte loro, spingono senza riserve sul pedale del grottesco. Silvio/Folena Comini, Clarice/Meneghetti, Florindo/Rota, Beatrice/Serena, divengono così più maschere delle maschere, portatori ognuno di un “ruolo” che pare fondere Commedia dell’Arte e compagnia per ruoli ottocentesca in un potpourri che stimola franche risate.

Infine Smeraldina, la servetta di casa De Bisognosi, costituisce un’ottima prova per Irene Lamponi. L’attrice delinea un personaggio rozzo e sguaiato ma dal retrogusto svampito e contemporaneo, da giovane donna emancipata. Come il compare Arlecchino, per estrazione sociale o per “mentalità”, anche Smeraldina è poco avvezza alle formalità e meravigliosamente pragmatica in gesti, azioni, battute. Il regista riserva a lei la celebre sentenza con la quale Clarice chiude il primo atto: «Ah, pur troppo egli è vero: in questa vita per lo più o si pena, o si spera, e poche volte si gode» (I, 22). E gode Smeraldina e ci esorta a godere, insieme alla maschera a noi tanto cara e a Sir Goldoni attraverso una serata tutta inscritta nel “mondo del teatro”. Un divertissement senza pretese moralistiche nel quale trionfa l’arte, così utile oggi, del sapersi arrangiare.




Arlecchino, il servitore di due padroni
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