La via della conoscenza di sé, si sa, richiede qualche
sacrificio. Quando un figlio afferma la propria individualità, rivendicando il
diritto a seguire la sua vocazione, questo porta non di rado a conflitti col
padre e, presto o tardi, a una resa dei conti. Al Teatro dellArte della Triennale di Milano (3-5 marzo
2017) Jan Fabre e Cédric Charron – carismatico danzatore
della compagnia Troubleyn fondata ad Anversa dal regista belga – hanno portato
in scena tale resa dei conti, con una produzione forte e originale. Un momento dello spettacolo © Wonge Bergmann Nel breve spazio di unora il performer, solo in scena,
compone in un monologo di parola e danza la rivendicazione della sua scelta
esistenziale: quella di aver preferito l“eleganza del superfluo” alle
ambizioni paterne, seguendo la propria vocazione artistica di danzatore e uomo
di teatro. Quando la sala è ancora al buio, una musica elettronica
crescente evoca unatmosfera sovrannaturale. Volute di fumo avanzano sulla
scena, disegnando loscurità, fino a diffondersi in platea. Dal fondo si comincia
a distinguere una figura, dapprima appena una sagoma, poi un fascio di luce la
rivela: completamente vestita di rosso, è una creatura mefistofelica con in
mano un lungo bastone. La grande efficacia mimica di Charron fa subito
comprendere che si tratta del remo di una sorta di traghettatore. Fabre gioca
infatti col nome del danzatore, identico nella pronuncia a “Charon”, nome
francese di Caronte (Charon), lo psicopompo dagli occhi di bragia. Un momento dello spettacolo © Wonge Bergmann Lidea è semplice e potente: il figlio attende il padre
sulla soglia del regno dei morti – da qui il titolo Attends, attends, attends… (pour mon père) – offrendogli di
accompagnarlo nellAldilà, dopo avergli fatto la propria confessione. In sei tempi, scanditi dalle monete che il figlio/Caronte
posa idealmente sul corpo del padre per prepararlo al viaggio, comera duso
nella tradizione greca, Charron dà sfogo al suo “canto del desiderio”, nel
quale rivela i sogni e le passioni che lo hanno portato a diventare un
“guerriero della bellezza” come Fabre ama chiamare i propri danzatori. La
parola non è argomentativa, ma espressiva. “Canto del desiderio” si rivela
essere non solo limpronta data da Charron al proprio percorso di vita, ma
cifra dello spettacolo stesso che pare costruito intorno alle pulsioni
individuali del performer. Pulsioni non solo liriche o erotiche, ma anche
animalesche, barbariche. Un momento dello spettacolo © Wonge Bergmann Se del danzatore si ammira la capacità mimica, quasi
pittorica, che con pochi accenni sa disegnare unintera situazione, ci si sente
spesso esclusi da unazione che sembra cercare solo lo sfogo di un impulso
immediato, o la proiezione di una visione interiore. Come quando Charron
attraversa la scena ringhiando su quattro zampe come un cane, oppure si
autodilania le carni chiazzandole del rosso di cui ha tinta la bocca cannibalesca. La spettacolo è forte, ben misurato nei tempi, inquadrato
magistralmente dalla regia. Ma alcune scelte coreografiche appaiono prive di
giustificazione, interrompendo la forza del monologo e lattenzione dello
spettatore che allora è pago di seguire con lo sguardo, accompagnato dalle
intense musiche di Tom Tiest, le
volute del fumo.
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