Un
cubo trasparente al centro del palcoscenico, cinque personaggi in scena. È minimal la messinscena della tragedia Fedra di Seneca del regista Andrea De
Rosa. L'essenzialità e la brevità dello spettacolo (un atto unico di
ottanta minuti) comprimono la gravitas
che si libera nellapplauso catartico del pubblico.
Coraggiosa
la scelta di mettere in scena la
Fedra latina da parte
del regista che già in passato si è confrontato con il teatro antico (Le Troiane di Euripide 1999; Il decimo anno
da Euripide ed Eschilo 2000). È annosa e complessa la questione circa
la rappresentabilità delle tragedie di Seneca. Basti qui ricordare che la
maggior parte degli studiosi ritiene che esse non fossero destinate alla scena
bensì alle sale di recitationes.
De Rosa porta Fedra sul palcoscenico del Piccolo Teatro di Milano, riuscendo a
potenziarne la "teatralità" nonostante i lunghi monologhi, l'uso della parola
prevalente sull'azione, i movimenti ridotti degli attori. Gli strumenti
utilizzati sono appunto quelli del teatro: la scenografia, le luci, i suoni, i
costumi, la voce degli attori.
Un momento dello spettacolo © Mario Spada
La
scenografia di Simone Mannino esprime
con efficacia la «tragedia congestionata» di Seneca (G.G. Biondi, Introduzione a Fedra, Milano, Rizzoli, 2014, pp. 41-45). Il cubo dal quale entrano
ed escono i personaggi delimita lo spazio in cui esprimere i pensieri e i
sentimenti più profondi. La trasparenza della "gabbia" crea una dialettica tra
un "dentro" (l'interiorità) e un "fuori" (le relazioni interpersonali), in
bilico tra furor e ratio. La scena è inoltre il correlativo
oggettivo del matrimonio (per Fedra) e della castità (per Ippolito).
Nello
spazio scenico i protagonisti si dibattono illuminati da una luce bianca
ospedaliera (luci di Pasquale Mari).
La regina è una paziente da curare, il furor
una malattia da cui si può guarire. «Voler guarire è già parte della
guarigione», dice inutilmente la ragazza/nutrice a Fedra.
I
suoni (Gup Alcaro) sono funzionali
alla drammaturgia. I microfoni raccolgono i sospiri sofferenti dei personaggi,
amplificano le urla (assordante la maledizione di Teseo). I microfoni ad asta
non solo raccolgono le parole, le risate, i versi, i rumori della dea Venere (Anna Coppola è eccellente rumorista),
ma diventano anche figure spettrali dellAde a cui è appesa una maschera neutra o alberi ai quali è attaccato nel
finale il corpo a pezzi di Ippolito.
Un momento dello spettacolo © Mario Spada
Bianco
e nero sono i colori dello spettacolo, in una continua contrapposizione tra
luci e ombre, passione e ragione, salute e malattia. Il bianco dell'abito da
sposa di Fedra si contrappone al vestito nero di Teseo. Si distingue sul
palcoscenico una figura in rosso. Venere con i capelli grigi indossa un
completo maschile di velluto cremisi discostandosi dall'immagine topica della
dea. Adagiata su uno sgabello, tra una sigaretta e un drink, si gode lo
spettacolo della sofferenza umana. Rosso è lo schizzo di sangue che macchia il
box trasparente quando Fedra si suicida. Colore simbolo di eros e thanatos. L'azione
e il movimento ridotti inducono gli attori a lavorare sulla voce e sulla
parola. Nonostante le sticomitie sentenziose, i lunghi e contrapposti
monologhi, il dialogo trasmette la vis tragica.
Hanno
colori accesi, senza sfumature, i sentimenti dei personaggi: l'intransigenza di
Ippolito (Fabrizio Falco), la rabbia
di Teseo (Luca Lazzareschi), la sapientia della ragazza/nutrice (Tamara Balducci), lo strazio di Fedra (Laura Marinoni).
Un momento dello spettacolo © Mario Spada
Di straordinaria bravura Laura Marinoni che
interiorizza e verbalizza in modo commovente la duplicità di Fedra. L'attrice
comunica con forza la lacerazione della voluntas
(«quod volo me nolle») della moglie di Teseo. Con il linguaggio del corpo ne
esprime il fascino, il desiderio sessuale, al quale il giovane Ippolito
risponde con un rifiuto non del tutto convinto. Extratestuale e forse superfluo
il bacio strappato dalla matrigna al figliastro.
Nel
finale avviene la contaminazione della tragedia senecana con l'Ippolito di Euripide e le Epistulae ad Lucilium. Venere come una dea ex machina euripidea ristabilisce la
verità. Ma a differenza del testo greco, sorprendentemente la dea rivela che le
passioni illecite e le sofferenze che ne derivano non sono generate dalle
divinità. La responsabilità è unicamente dell'uomo. «Io non sono niente, non ci
sono dèi in Seneca. Il Dio è in te, è dentro di te e come tu lo tratti, egli ti
tratta» dice Venere, negando la sua stessa esistenza e dando voce a Seneca
filosofo stoico.
Il
logos tenta di piegare e spiegare
l'animo umano. Intanto la tragedia volge al termine e del giovane Ippolito
rimane solo il torace issato su uno stendardo. Un torso del Belvedere a futura
memoria.
|
|