«Cumu
i ricordi è stummira/ca unu scurrdari si vulissi. / Di sutta terra, di sutta
terra, / spunta cumu i serpenti»: «questombra è come i ricordi / che ognuno
vorrebbe dimenticare. / Da sotto terra, da sotto terra / appare come i
serpenti». Seduta sta accanto alla sua ombra una vecchina. Parla con lei.
Armata di scopa e di acido, vorrebbe eliminarla, quasi un presentimento di
morte da allontanare, ma lombra resiste, incalza, si prende gioco della poverina,
fino ad esasperarla, comicamente: «ogni mossa, ogni cosa che fazzo, la va a
fare pure idda!».
Inizia
così, sospeso tra le note struggenti di un'antica melodia e il dialogo surreale
di una stralunata vecchina con la sua ombra, Assassina di Franco Scaldati
che Enzo Vetrano e Stafano Randisi hanno portato in scena
all'Arena del Sole di Bologna. Uno spettacolo sospeso tra realtà e sogno
che parla di identità e disgregazione
dell'io, ma anche del doppio e dell'altro da sé. I due attori-registi palermitani,
ormai da tempo trasferitisi in Emilia Romagna, tornano nuovamente al teatro di
Scaldati, il drammaturgo, attore e regista siciliano scomparso nel 2013, che Franco Quadri definì «poeta
aristocratico delle caverne» (F. Scaldati, Il
teatro del sarto, Milano, Ubulibri, 1990, p. 108). Avevano già incontrato
la sua poesia nel 2012 con lo spettacolo Totò
e Vicè, dopo aver a lungo attraversato l'universo drammaturgico
pirandelliano.
Un momento dello spettacolo
© Luca Del Pia
Al
chiarore della luna, nei ruderi di un edificio abbandonato, in quello che doveva
essere un tempo un bagno pubblico, in via della Mosca Volante cinquanta, si
trova una casa con i suoi curiosi abitanti: un omino e una vecchina. I due si
muovono in questa caverna, ignari l'uno dell'altra, ma con la familiarità e l'abitudine
che ciascuno ha con la propria abitazione. La vecchina (Vetrano) stira, ascolta
una radio, che si accende e si spegne quando vuole, lava i piedi sporchi nella
bacinella in cui di lì a poco l'omino cuocerà la pasta per il suo pranzo.
L'omino (Randisi) è un uomo mite e buffo, amante del buon vino, che chiacchiera
amabilmente con la gallina Santina e col topo Beniamino, e trascorre tutto il
giorno per strada a chiedere l'elemosina. Non si sono mai visti né conosciuti,
eppure abitano insieme, senza essersi mai incontrati. Entrambi però si
rivolgono con devozione al ritratto dei genitori (i Fratelli Mancuso) che incombe per tutto lo spettacolo appeso alla
parete, dietro di loro. Un quadro vivente, illuminato dai chiaroscuri che
caratterizzano tutta la scena (luci di Max
Mugnai), e che rievoca il dipinto seicentesco della Donna barbuta di Jusepe de
Ribera. La cornice, di tanto in tanto, si anima del canto e della musica
dei Mancuso, che in abiti d'epoca
scandiscono lo spettacolo con la loro musica antica, fatta di una lingua
perduta (il siciliano "stretto") e di strumenti dimenticati (la sansula, la
viella, il mezzo colascione, il salterio ad arco, l'armonium ed altro ancora).
Componendo poesie e riversando in musica le parole di Scaldati, i due musicisti
creano degli intermezzi musicali che rappresentano quasi le stazioni di questo
viaggio perso tra le esistenze: forze primigenie e ctonie che recuperano le
radici siciliane nella forma di una
reductio ad uterum.
Una
sera l'omino e la vecchina, all'insaputa l'uno dell'altro, si coricano per
andare a dormire, nella loro vasca da bagno color turchino – il colore che
ricopre tutto ciò che resta di questa casa diroccata (scene e costumi di Mela dell'Erba) –, ma vengono svegliati
dal ronzio molesto della mosca Lucina, loro abituale compagna di appartamento.
Soltanto allora si scoprono nello stesso letto, tra le urla strampalate della
vecchina che crede si tratti di un ladro. Prende avvio così un botta e risposta
tra i due, interminabili battibecchi in cui entrambi tentano di dimostrare
l'appartenenza e la legittima proprietà del rudere, additando oggetti e dando
nomi alle cose («questa è la mia casa… la mia casa Questa è la mia casa / …C'è
il mio gabinetto C'è la mia gallina C'è la / mia cucina… c'è la mia radio […] c'è il mio rasoio C'è / il mio sapone»
esclama l'omino, mentre più avanti ribatte la vecchina:
«Questa è la mia casa La vedi? C'è la mia cucina / il mio gabinetto La mia
sedia c'è e mi siedo / C'è il mio letto… e c'è la mia radio… e / suona la mia
musica C'è il mio tavolo», ecc.). Una tenzone fatta di buffe schermaglie
sostenute da incalzanti ritmi comici, che danno luogo a bisticci,
fraintendimenti, scambi di identità, in una dimensione perennemente surreale,
come quando l'omino si rivolge alla vecchina dandole del "voi", e alla risposta
stizzita dell'una: «Voi… chi è Voi», fa eco quella paradossale dell'altro: «io
con me ho confidenza e mi do del tu /… a voi non vi conosco… e vi do del voi».
Un momento dello spettacolo
© Luca Del Pia
Così,
cercando il legittimo abitante di quella casa, l'omino e la vecchina si pongono
domande sull'esistenza e sull'identità, un'identità continuamente messa in
crisi, dai mille dubbi e dalle mille domande che si rivolgono: «non so più /
chi sono né dove sono Se sono femmina o / maschio», si chiedono nel bel mezzo
della commedia, fino ad una completa disgregazione dell'io, che li porta a
chiedersi se sono una sola persona sdoppiata in due, oppure l'uno l'ombra
dell'altro.
Ed
è forse proprio nella loro natura umbratile che va ricercata la spiegazione di
tutto; forse soltanto attraverso di essa è platonicamente possibile raggiungere
poi una forma di conoscenza. Così i personaggi si ritrovano spesso a registrare
le proprie azioni, a decodificare verbalmente ciò che accade o sta per accadere
sulla scena («e ora poso il ferro da stiro… e la camicia»; «e ora ci laviamo i
piedi […] vi infilo nell'acqua calda e non vi faccio uscire più» o ancora: «riscaldo
l'acqua/ e mi cuocio la pasta […] e grattiamo aglio e cipolla», ecc.), esprimendo expressis verbis quanto stanno per compiere. Per lo più l'azione si
approssima attraverso una serie continua e ripetuta di alternative direzionanti
che i personaggi si pongono («devo fare la pipì o no? sì… la pipì / devo fare…
la pipì / devo fare /…devo riscaldare lacqua e devo fare la pipì» ecc.). Si
giunge allora ad una performatività "aumentata", per cui parte della perfomance viene descritta e non agita,
ma acquisisce una consistenza reale. La decodificazione
verbale, al pari del tentativo di appropriarsi degli oggetti nominandoli, conferisce alle parole un valore predittivo: esse
reificano le cose e diventano la misura dellesistenza dei due personaggi. Sì,
perché i due arrivano ad un certo punto della pièce
a dubitare della loro stessa esistenza, e, quando va via la luce, si chiedono
perplessi se al buio esistano ancora, proprio come accade alle ombre, che senza
luce non esistono più.
I
due cercano conferma della loro consistenza fisica nella realtà che tentano di crearsi
attraverso la descrizione, la nominazione e la decodificazione; ma è proprio così
facendo che negano sé stessi, dimostrando la
loro inconsistenza materiale. Sono affondi nei risvolti metafisici del
linguaggio quelli di Scaldati, che realizza uno spettacolo in bilico tra realtà
e sogno, vita e morte.
Un momento dello spettacolo
© Luca Del Pia A
conferire plasticità e consistenza materica è allora la lingua. Un siciliano
rude e criptico anima il testo di Scaldati,
oggetto poi di molte riscritture, come spesso è accaduto al suo teatro. Non una drammaturgia scritta a tavolino
ma un composto di pratica scenica. Vetrano e Randisi, che non utilizzano la
versione originaria, compiono un'operazione di trasposizione linguistica
sottile e certosina per rendere più accessibili e comprensibili le maglie
strette della lingua del drammaturgo (a questo scopo presentano al pubblico
prima dell'inizio dello spettacolo un breve corso di siciliano orientato). «Noi
partiamo chiaramente dalla sua scrittura» – affermano i due registi in
un'intervista (a cura di Viviana Raciti; cfr. qui)
– «cercando di mantenere il più possibile la struttura ma ci poniamo sempre il
problema della comprensione. Prima di definire il testo facciamo un lavoro
preliminare confrontandoci con alcuni amici che non conoscono il siciliano.
Quando arriviamo al momento in cui ci viene detto che pur non avendo compreso
tutte le parole il senso è stato capito appieno, allora questa è la versione
che possiamo presentare al pubblico».
L'ascolto
e la possibilità di entrare nello spettacolo non
necessita, dunque, della comprensione immediata di tutte le parole. La poesia
arriva sfruttando altri canali rispetto a quelli
esclusivamente circoscritti alla veicolazione del significato esatto di un
termine, e attinge anche alla capacità evocativa delle parole, nonché al
potenziale immaginifico e visionario della drammaturgia di Scaldati, esaltato
dagli assoli lirici dei Fratelli Mancuso e dalle grandi capacità attoriali dei due
protagonisti. È così che, come affermano anche gli attori-registi, da metà
spettacolo in poi non si sente più l'urgenza di una traduzione e «lo spettacolo
arriva con tutta la sua lingua e alla fine noi parliamo perfettamente in
siciliano e non se ne accorge nessuno, e tutti capiscono tutto, senza nessun
problema» (da Zazà, programma di Rai
Radio 3, puntata del 12 febbraio 2017). La dimensione evocativa è sublimata dai
due attori che si muovono sulla scena, occupandone tutti gli ambienti,
contaminando l'alto e il basso, la poesia e il linguaggio dei bassifondi, degli
emarginati e degli esclusi di molti testi di Scaldati. Vi è però, qui più che
altrove, un divertimento pervasivo, che erompe in esilaranti gags, dove, con la complicità di uno
straordinario Randisi, Vetrano diventa a tratti irresistibile, nei panni di
questa vecchina che, tuttavia, porta dentro di sé un dolore profondo e una
grande tristezza anche nei momenti di maggiore comicità. È opera di grande
poesia questo spettacolo, che si muove nel segno di un teatro popolare di
ricerca.
In
questo «giallo sotterraneo della coscienza» (F. Quadri, in Scaldati, Il teatro del sarto, cit., p. 109) lo
spettatore si chiede allora chi abbia
assassinato i due personaggi, che ritroviamo finiti a terra privi di vita a
fine spettacolo: il topo? Come nella prima stesura del testo di Scaldati? O
tutti gli animali? Oppure ancora l'ombra, evocatrice della morte, tornata da
sottoterra a tormentare i vivi? Forse assassina è questa nostra vita.
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