Elvira o la passione
teatrale è la pièce che Giorgio Strehler mise in scena
con Giulia Lazzarini nel 1986, per inaugurare la scuola di
recitazione del Teatro Studio, conquistando il pubblico grazie alle
capacità affabulatorie del grande regista nella parte di Louis
Jouvet. Il sottotitolo “o la passione teatrale” riassume
il tema portante che lega la versione strehleriana allElvira
di Servillo che ha debuttato proprio al Piccolo Teatro di Milano il 3
novembre 2016 ed è poi approdata sulle scene del Teatro Niccolini di
Firenze il 18 febbraio scorso. La passione per il teatro è
raccontata attraverso il tema della
trasmissione del sapere e del “saper fare”: lo spettatore spia il
mondo che si cela dietro lo spettacolo e prima di esso, cogliendo la
tensione pedagogica e la voglia di imparare insite nel rapporto
maestro-allievo.
Appena entrati nello
storico ed elegante teatro fiorentino si
coglie lessenzialità della scena che quasi stride con il vocio
sovrabbondante degli astanti: due sedie, un piccolo scrittoio con
abat-jour accesa, una pedana rialzata, alcuni fogli, forse dei
copioni, appoggiati sulla ribalta e una scaletta di raccordo con la
platea le cui prime file, lasciate appositamente libere, sono coperte
da lenzuoli bianchi, come si usa fare a teatro nei giorni di
chiusura. Latmosfera sembra quella di una pausa durante le prove
per uno spettacolo. Una voce fuoricampo esclama: «Parigi, 14
febbraio 1940». La supposizione è confermata. Dal buio
improvvisamente calato siamo catapultati nel bel mezzo delle prove:
lattrice attacca con la battuta ma viene interrotta, qualcosa non
va. Interviene il regista ammonendola e sottolineando limprecisione
nei movimenti, il tono errato e la mancanza di sentimento. Ci
accorgiamo che quello a cui stiamo assistendo non è la messa in
scena di un vero e proprio testo teatrale ma la rappresentazione di
“lezioni di teatro”.
Un momento dello spettacolo © Fabio Esposito Più precisamente si
tratta delle sette lezioni – sul
carattere del personaggio di Elvira nella sesta scena del quarto atto
del Don Giovanni di Molière –
tenute dal regista e attore Jouvet per gli allievi del terzo anno al Conservatoire national
dArt Dramatique di Parigi tra febbraio e settembre 1940. Elvire
Jouvet 40 di Brigitte Jaques fu la prima lezione messa in
scena l8 gennaio 1986 al Théâtre national de Strasbourg. Questa,
come le altre, su richiesta dello stesso Jouvet furono stenografate
da Charlotte Delbo e successivamente raccolte nei due volumi
Molière et la comédie classique (Gallimard 1965) e
Tragédie classique et théâtre du XIXe siècle
(Gallimard 1968). A questo spettacolo e alla sua omonima riduzione
cinematografica (1987) di Benoit Jacquot si ispira
esplicitamente la regia di Toni Servillo, nella nuova
traduzione di Giuseppe Montesano, soprattutto
nellessenzialità dellallestimento e nella restituzione di
unatmosfera intima e privata. Attori e regista trovano lo spazio e
il tempo delle “prove” concedendo allo spettatore, in via
eccezionale, di “sbirciare” nella fucina del “fare teatro”.
Jouvet (Servillo) si
sofferma sul personaggio di Elvira per far riflettere i suoi allievi
Claudia/Elvira (Petra Valentini),
Octave/Don Giovanni (Francesco Marino)
e Lèon/Sganarello (Davide Cirri)
sul parallelo tra il mistero del testo molieriano e quello della
recitazione. Elvira è una figura divina intervenuta in extremis
per salvare Don Giovanni dalla dannazione attraverso la rivelazione
del suo agire dissennato. Allo stesso modo lo sforzo pedagogico di
Jouvet mira a suscitare nei suoi allievi una rivelazione interiore
(«ciò che si è in relazione a ciò che si fa» sulla scena).
Durante le prime lezioni Claudia si sforza di assecondare le
indicazioni ricevute ma «il sentimento non è ancora abbastanza
forte» per trasmettere le motivazioni e gli stati danimo del
personaggio. Quello di Elvira è un atto damore che si palesa come
unapparizione che sorprende Don Giovanni senza dargli modo di
reagire ed è questo il sentimento che lattrice dovrebbe
restituire. Claudia però ha bisogno di più tempo. Nelle lezioni
successive Jouvet puntualizza come il recitare richieda uno sforzo
che deve essere avvertito dallattore in ciò che fa («smuovere la
propria sensibilità per arrivare a colpire chi ci sta ascoltando,
andando oltre la ribalta»). Secondo il maestro i tentativi
dellattrice sono ancora troppo legati ad una orgogliosa
«intelligenza drammatica» che non le permette di superare una
tecnica sterile e noiosa. «Bisogna che il sentimento ti obblighi a
recitare il testo», le dice. Claudia, rimasta sola in scena, ci
riprova ma è interrotta nuovamente. Dal fuoricampo si fa sempre più
assillante una voce: è quella di Hitler. Lorrore della
guerra incombe. Buio.
Un momento dello spettacolo © Fabio Esposito «Parigi, 10 settembre
1940». Ormai loccupazione nazista è in atto. Gli attori
ricompaiono in scena con cappotti e valigie pronti per ogni
evenienza. Tuttavia le lezioni continuano. Sganarello è in fondo
alla scena; Don Giovanni, appoggiato sulla scaletta della ribalta, dà
le spalle al pubblico mentre Elvira è in piedi di fronte a lui ma
non lo guarda. Il tono della sua voce appare improvvisamente
profetico quando esclama: «vi dico queste cose in lacrime». La
magia è compiuta, Claudia “è stata nel sentimento” del
personaggio; ha compreso, rielaborandoli, i suggerimenti del maestro.
Un cartello ci informa del primo premio per la commedia e la tragedia
ottenuti dallattrice grazie al monologo di Elvira al Conservatoire
di Parigi prima di essere allontanata dalle scene e denunciata dalle
autorità naziste in quanto ebrea. Jouvet invece sarà costretto a
lasciare la Francia nel maggio del 1941. Il suo esilio forzato durerà
fino alla fine del 1944. Riproporrà in scena il Don Giovanni
al Théâtre de lAthénée di Parigi nel 1947. Elvira non è una
pièce ma, come osserva lo stesso Jouvet/Servillo «una scena che si
recita per i provini, per le audizioni o, al massimo, nelle
premiazioni». Non cè un testo, se non le parole che Jouvet
pronunciò durante le prove, né una scenografia definita.
Lattenzione si concentra sul rapporto regista-attore. Tuttavia non
siamo di fronte al solito gioco metateatrale ma ad unanalisi
profonda e sofferta del fare teatro, mentre lo si sta facendo, da
parte di chi quel mestiere lo fa tutti i giorni. La regia viene
ridotta al minimo, così come i cambiamenti e i passaggi di luce:
tutto è lasciato nelle mani dellattore. Perfino la guerra, pur
incombente, non riesce a frenare la passione teatrale. Lagire di
Elvira, tanto dolce nel messaggio di perdono quanto straziante nel
funesto avviso di morte, è paragonabile al tentativo accorato e
sofferto di Jouvet di trasmettere il proprio sapere professionale
agli allievi per accrescerne la sensibilità emotiva: cogliere le
motivazioni del personaggio senza preconcetti ed «essere costretti
dal sentimento a recitare il testo». Lo spettatore sonda le viscere
più profonde e gli stati danimo più contrastanti del rapporto
maestro-allievo per comprendere motivazioni, intenzioni e
incoscienze: la magia comunicativa ed espressiva che sta alla base
della rappresentazione teatrale.
Un momento dello spettacolo © Fabio Esposito I destinatari del
messaggio della messinscena sono quindi molteplici: mentre Elvira
tenta di salvare Don Giovanni, Jouvet/Servillo cerca di farsi capire
dai suoi allievi ma, allo stesso tempo, scruta lo spettatore. È a
noi che ripetutamente si rivolge il regista-attore spingendosi al
centro della platea in “a parte” che fungono da momenti cruciali
di riflessione insieme ai lunghi silenzi magistralmente adoperati per
restituire il significato profondo di quellinsistere agitato,
fremente e anelante intorno al testo di Molière. Il messaggio sembra
essere questo: unefficace trasmissione del sapere dipende dalla
qualità del rapporto insegnante-alunno che, soprattutto a teatro,
richiede un adeguato processo elaborativo in cui il fallimento è
visto come fondamentale momento di crescita dellindividuo. Il
grande maestro Jouvet, attraverso il personaggio di Elvira e
linfaticabile interpretazione di Servillo, vuole suscitare
maieuticamente nei suoi allievi e contemporaneamente negli spettatori
la capacità di mettersi alla prova e giungere per gradi e con sforzo
alla rivelazione interiore «di ciò che si è in relazione a ciò
che si fa»: tanto sul palcoscenico così come nella vita. Un
insegnamento universale, dunque, che diventa anche un serio spunto di
riflessione (per la confusa e iperattiva società di oggi) sulla
nobiltà dellarte del recitare e sul valore stesso
dellinsegnamento, “dentro” e “fuori” dai teatri.
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