Nel centro
di Milano vi era un cinema a luci rosse, piuttosto famoso al suo tempo, poiché
tra le ombre della sala si consumavano voglie erotiche di vario genere. Cinema
Cielo di Danio Manfredini, che
nel 2004 ha
vinto il Premio Ubu per la miglior regia, porta per titolo il nome di
quella sala, scomparsa, come altri cinema pornografici, con lavvento dellhome video e
lapertura dei club privé. Ma lo sguardo poetico di Manfredini ha
conservato lumanità che si raccoglieva davanti a quegli schermi, e la rievoca
sotto la lente dingrandimento di questa malinconica creazione teatrale,
riportata in scena il 19 febbraio, dopo più di dieci anni, al Teatro Era di Pontedera. Lartista ci
consegna una meditazione, insieme raccolta e carnevalesca, sulla condizione
esistenziale delluomo, che il bisogno damore e di contatto fisico espone al
tarlo della solitudine e al sentimento dabbandono. Un momento dello spettacolo © Daniele Ronchi
Un angelo dalle ali rosse (Manfredini) apre lazione alzandosi lentamente da terra, davanti alla facciata e allinsegna del Cinema Cielo proiettate sul sipario ancora calato. È un travestito, dallaccento straniero. Ha una missione, dice. Gesù gli ha ordinato di dare amore a chiunque ne abbia bisogno. Cosa non facile, e tanto amore è finito in marchette. Cinema Cielo non segue
una drammaturgia lineare, narrativa. La sua poesia risponde ad una logica
simbolica. E coerentemente con questa logica la prima scena racchiude in
nuce il dramma che poi si esplica, frammentato ma perfettamente
organizzato, nelle azioni successive. I personaggi in cui i quattro attori (il
citato Manfredini, Vincenzo Del Prete,
Patrizia Aroldi e Giuseppe Semeraro) si moltiplicano in
unabile successione di maschere e costumi, sono come un gioco di specchi, in cui
si riflette il dramma di una carne chiusa in sé stessa, affamata sì d'un amore fatto di corpi, ma che non può saziarsi nel consumo di un sesso fugace e autoreferenziale. Che si tramutino in
una cassiera, in un marchettaro sordomuto, o nellimmigrato che tira su due
lire offrendo “lavoretti” nei cessi della sala, questi personaggi sono tante
maschere della stessa vicenda umana, dove la ricerca dei corpi, e lincontro
con essi, si risolvono nel ritrarsi reciproco di ognuno nella propria solitudine.
Un momento dello spettacolo © Daniele Ronchi
Allalzarsi del sipario si disegna linterno di una sala cinematografica, dove lo spettatore spia, tra le file di poltroncine rosse, la presenza di altri spettatori. Una voce fuori campo, come fosse il sonoro del film in programmazione, richiama frammentariamente Notre-Dame-des-fleurs di Genet, in un crescendo di rimandi con gli incontri furtivi che animano la scena. Sfumano gli opposti: suscitano insieme tenerezza e senso di degrado i corpi che si toccano e accoppiano fra le ombre; la malinconia di chi vorrebbe sentirsi amato trabocca in repentini lampi di festa, come quando Manfredini, vestito di bianco, illumina la scena con una danza, sotto la pioggia argentata dei coriandoli che gli escono dalle maniche. Limpressione di unintenzione metafisica si conferma quando avanza
sui trampoli un Cristo seminudo (Del Prete), a braccia spalancate, silente.
Lui, che ha patito le sofferenze della carne, tace di fronte al grido della
carne delluomo. «Signore del cielo e della
terra, noi non capiamo… Tu fai le creature, e poi le pianti in asso», dice langelo
dalle ali rosse, senza ottenere risposta. Un momento dello spettacolo © Daniele Ronchi
Cinema Cielo è un canto
della solitudine umana, e di quella tenera e amara bellezza che si rivela nella
fragilità della carne. Con la precisione di un orologiaio, la regia sa
raccogliere il ricco accadere di scenette, frammenti e invenzioni teatrali in
ununità efficace e toccante, che rivela un destino comune: quello di essere
anime gettate nel labirinto del mondo, in cerca di risposta ad un amore che,
anche se inascoltato, ci urla dentro.
La parola in
Cinema Cielo è scarna, frammentaria, ma densa di disincantata poesia. Al
racconto si predilige il frammento, lo scorcio, il simbolo. È la visione di chi
spia. Vestendo la maschera gli attori ci pongono davanti uno specchio, nel
quale spiare cosa si cela sotto la maschera del quotidiano: bisogno,
solitudine, fragilità.
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