Attento a rivalutare il
contributo dei drammaturghi francesi del dopoguerra alla
luce del dibattito sui rapporti fra potere e libertà
individuale, Emanuele Conte ha colto nellopera di Albert
Camus un esempio fra i più interessanti. Dopo Caligola
(2014), allestisce ora I giusti, quale esempio di una
dialettica storica ricorrente, che comporta il dilemma sulla scelta
dei mezzi e dei metodi della lotta politica.
Un momento dello spettacolo © Donato Aquaro La pièce drammatizza
alcuni eventi svoltisi a Mosca nel 1905 e li centra sul protagonismo
del vero Ivan P. Kaljaev, giornalista russo rivoluzionario. La
cellula immaginata da Camus è dunque ispirata a quella che attentò
al Granduca Romanov e mette a confronto due visioni
discordanti sullidea e sulla condotta rivoluzionarie.
Allidealista e “poeta” Kaliayev, sempre dubbioso sui moventi e
le azioni pratiche, oppone Stepan, fautore intransigente e “puro”
della giustizia da imporre a qualunque costo, secondo il radicalismo
manicheo che attraversa questo dramma. Mentre Stepan supera scrupoli
e sensi di colpa, il compagno antagonista li vive in crisi costante.
Dora, lunica donna coinvolta, partecipa allimpossibile
mediazione: ama Kaliayev e disapprova Stepan, eppure vuole restare
fedele alla causa. Divampano i conflitti personali quando fallisce il
primo attacco, proprio per defezione di Kaliayev, disorientato dalla
presenza di bambini nella carrozza della vittima designata. Segue un
lungo e tormentato confronto di gruppo, a riprova di posizioni
inconciliabili, in preparazione di un secondo intervento, che riesce,
ma che comporta larresto e la condanna del responsabile. In
prigione, leroe non cede a proposte e tentazioni, rifiuta la
grazia e verrà impiccato. Lavere mantenuto limpegno, senza
tradire i compagni, senza rinnegare lideale, sarà suo merito e
gloria.
Se il regista ha chiara
la problematica, pare esitare nel decidere la strategia espressiva
peculiare per i suoi attori. Infatti non intende ambientare lazione
in una Russia storicamente definita, ma suggerire come «i personaggi
e le situazioni de I giusti possano svolgersi in un passato
lontano, nel presente o nel futuro, in qualsiasi paese del mondo»
(dal programma di sala). Inoltre,
riconosce che il carattere universale della storia così orientata,
nel richiamo a perenni istanze morali, riflette comunque il nostro
presente. Ne consegue unoscillazione fra enunciazione concettuale
e comportamenti concreti degli interpreti, in figure molto
caratterizzate.
Un momento dello spettacolo © Donato Aquaro La scabra scenografia
consiste in un parallelepipedo di elementi metallici, scatola o
gabbia, praticabile al piano superiore come abitazione, allinterno
come cella di prigione e dove il palcoscenico vuoto rappresenta
lesterno immaginario. I personaggi appaiono in costumi
primonovecenteschi, russi o addirittura bolscevichi. Se ne stacca
Dora, che porta un mantello nero con cappuccio; cintura, sciarpa e
guanti rossi, quasi simboliche allusione alla morte e al sangue. Non
da donna fatale, ma in travestimento da “attrice”, adeguato alle
circostanze, poiché lattentato avviene davanti a un teatro. Come
Granduchessa, riapparirà velata di nero, connotata dagli indizi
religiosi dun gran “sacrocuore” illuminato e da un
“crocifisso”. Del resto, anche Kaliayev porta il segno della fede
cristiana originaria nella croce di legno appesa al collo.
Sottolineature così marcate, non necessarie, suscitano perplessità.
La rappresentazione –
nellindubbio impegno e nella dedizione degli attori a incarnare
ruoli schematici, di esile, sfuggente sottotesto – varia per
tensione di confronti fra destini personali (nei “duetti”, ad
esempio di Dora con Kaliayev o di Dora con Stepan) e dialoghi in
contrapposizione di ideologie e/o sentimenti. Sentimenti che sono
espressi soprattutto da Dora, una Sarah Pesca di vigorosa
sensibilità, retta dallunica dolorosa certezza di identificarsi
nel sacrificio delleroe. Quando il bisogno di tenerezza in lei
sgorga più naturale, offre un momento vibrante e rattenuto fino al
pudore. Non altrettanto sicura e forte la prestazione di Gianmaria
Martini, un Kaliayev spesso attonito, sgomento e come svuotato,
quando potrebbe (dovrebbe, per la dichiarata gioia di vivere)
esaltarsi nella tensione ideale che pure lo sostiene fino alla morte.
Un momento dello spettacolo © Donato Aquaro Anche il supporto emotivo
della musica, scelta dal gusto del regista, ammette qualche scompenso
ritmico nel rapporto con lilluminazione: quando, ad esempio,
avviene lincontro
fra i due protagonisti (sono in gioco amore e morte, spiegazioni e
scelte vitali) le luci restano fisse e monocrome e il sentimento
femminile si contrae e si smorza, senza corrispondere allo stato
affettivo della donna. Interessante lo scarto figurativo e vocale
assunto dalla Granduchessa (la stessa Sarah Pesca), mediatrice
ambigua duna grazia che allude alla religione per promettere la
salvezza dalla pena. Una tentazione mossa a passi di danza, con voce
in falsetto allettante, vera mistificazione del potere, forse
proiezione dellincubo del prigioniero. Distinta per rigore ed
effetto persuasivo, la recitazione di Luca Mammoli,
nellumanità ad una sola dimensione di Stepan e soprattutto nel
sarcasmo suadente di Skuratov, poliziotto in veste quasi talare, che
insinua una speranza di grazia da pagarsi però col tradimento.
Graziano Sirressi ha il ruolo di Annenkov, un capo dalla linea
programmatica inflessibile e paziente. Alessio Zirulia mostra
il giovane, generoso neofita Voinov, che confessa la paura e rinuncia
allimpresa.
Certi momenti passibili
di giustificare analogie con il terrorismo degli “anni di piombo”,
sono smentiti, riassorbiti dallintimistico rovello esistenziale
(peraltro camusiano), come quando Kaliayev stempera i profondi furori
di rivolta assoluta in prostrazione, singinocchia e nel confessare
forse un residuo di fede cristiana, confida nella nonviolenza. Uno
spettacolo discutibile, quindi importante, nella sensibilità
attuale: così lontana sia dalla creazione del 1949 (regia di Paul
Oettly, con Maria Casarès e Serge Reggiani), sia
dalledizione italiana diretta da Giorgio Strehler nel 1950.
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