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La morale (anti)terrorista della Rivoluzione

di Gianni Poli
 
Data di pubblicazione su web 28/02/2017  

Attento a rivalutare il contributo dei drammaturghi francesi del dopoguerra alla luce del dibattito sui rapporti fra potere e libertà individuale, Emanuele Conte ha colto nell’opera di Albert Camus un esempio fra i più interessanti. Dopo Caligola (2014), allestisce ora I giusti, quale esempio di una dialettica storica ricorrente, che comporta il dilemma sulla scelta dei mezzi e dei metodi della lotta politica.


Un momento dello spettacolo ©Donato Aquaro
Un momento dello spettacolo 
© Donato Aquaro

La pièce drammatizza alcuni eventi svoltisi a Mosca nel 1905 e li centra sul protagonismo del vero Ivan P. Kaljaev, giornalista russo rivoluzionario. La cellula immaginata da Camus è dunque ispirata a quella che attentò al Granduca Romanov e mette a confronto due visioni discordanti sull’idea e sulla condotta rivoluzionarie. All’idealista e “poeta” Kaliayev, sempre dubbioso sui moventi e le azioni pratiche, oppone Stepan, fautore intransigente e “puro” della giustizia da imporre a qualunque costo, secondo il radicalismo manicheo che attraversa questo dramma. Mentre Stepan supera scrupoli e sensi di colpa, il compagno antagonista li vive in crisi costante. Dora, l’unica donna coinvolta, partecipa all’impossibile mediazione: ama Kaliayev e disapprova Stepan, eppure vuole restare fedele alla causa. Divampano i conflitti personali quando fallisce il primo attacco, proprio per defezione di Kaliayev, disorientato dalla presenza di bambini nella carrozza della vittima designata. Segue un lungo e tormentato confronto di gruppo, a riprova di posizioni inconciliabili, in preparazione di un secondo intervento, che riesce, ma che comporta l’arresto e la condanna del responsabile. In prigione, l’eroe non cede a proposte e tentazioni, rifiuta la grazia e verrà impiccato. L’avere mantenuto l’impegno, senza tradire i compagni, senza rinnegare l’ideale, sarà suo merito e gloria.

Se il regista ha chiara la problematica, pare esitare nel decidere la strategia espressiva peculiare per i suoi attori. Infatti non intende ambientare l’azione in una Russia storicamente definita, ma suggerire come «i personaggi e le situazioni de I giusti possano svolgersi in un passato lontano, nel presente o nel futuro, in qualsiasi paese del mondo» (dal programma di sala). Inoltre, riconosce che il carattere universale della storia così orientata, nel richiamo a perenni istanze morali, riflette comunque il nostro presente. Ne consegue un’oscillazione fra enunciazione concettuale e comportamenti concreti degli interpreti, in figure molto caratterizzate.


Un momento dello spettacolo ©Donato Aquaro
Un momento dello spettacolo 
© Donato Aquaro

La scabra scenografia consiste in un parallelepipedo di elementi metallici, scatola o gabbia, praticabile al piano superiore come abitazione, all’interno come cella di prigione e dove il palcoscenico vuoto rappresenta l’esterno immaginario. I personaggi appaiono in costumi primonovecenteschi, russi o addirittura bolscevichi. Se ne stacca Dora, che porta un mantello nero con cappuccio; cintura, sciarpa e guanti rossi, quasi simboliche allusione alla morte e al sangue. Non da donna fatale, ma in travestimento da “attrice”, adeguato alle circostanze, poiché l’attentato avviene davanti a un teatro. Come Granduchessa, riapparirà velata di nero, connotata dagli indizi religiosi d’un gran “sacrocuore” illuminato e da un “crocifisso”. Del resto, anche Kaliayev porta il segno della fede cristiana originaria nella croce di legno appesa al collo. Sottolineature così marcate, non necessarie, suscitano perplessità.

La rappresentazione – nell’indubbio impegno e nella dedizione degli attori a incarnare ruoli schematici, di esile, sfuggente sottotesto – varia per tensione di confronti fra destini personali (nei “duetti”, ad esempio di Dora con Kaliayev o di Dora con Stepan) e dialoghi in contrapposizione di ideologie e/o sentimenti. Sentimenti che sono espressi soprattutto da Dora, una Sarah Pesca di vigorosa sensibilità, retta dall’unica dolorosa certezza di identificarsi nel sacrificio dell’eroe. Quando il bisogno di tenerezza in lei sgorga più naturale, offre un momento vibrante e rattenuto fino al pudore. Non altrettanto sicura e forte la prestazione di Gianmaria Martini, un Kaliayev spesso attonito, sgomento e come svuotato, quando potrebbe (dovrebbe, per la dichiarata gioia di vivere) esaltarsi nella tensione ideale che pure lo sostiene fino alla morte.


Un momento dello spettacolo ©Donato Aquaro
Un momento dello spettacolo 
© Donato Aquaro

Anche il supporto emotivo della musica, scelta dal gusto del regista, ammette qualche scompenso ritmico nel rapporto con l’illuminazione: quando, ad esempio, avviene l’incontro fra i due protagonisti (sono in gioco amore e morte, spiegazioni e scelte vitali) le luci restano fisse e monocrome e il sentimento femminile si contrae e si smorza, senza corrispondere allo stato affettivo della donna. Interessante lo scarto figurativo e vocale assunto dalla Granduchessa (la stessa Sarah Pesca), mediatrice ambigua d’una grazia che allude alla religione per promettere la salvezza dalla pena. Una tentazione mossa a passi di danza, con voce in falsetto allettante, vera mistificazione del potere, forse proiezione dell’incubo del prigioniero. Distinta per rigore ed effetto persuasivo, la recitazione di Luca Mammoli, nell’umanità ad una sola dimensione di Stepan e soprattutto nel sarcasmo suadente di Skuratov, poliziotto in veste quasi talare, che insinua una speranza di grazia da pagarsi però col tradimento. Graziano Sirressi ha il ruolo di Annenkov, un capo dalla linea programmatica inflessibile e paziente. Alessio Zirulia mostra il giovane, generoso neofita Voinov, che confessa la paura e rinuncia all’impresa.

Certi momenti passibili di giustificare analogie con il terrorismo degli “anni di piombo”, sono smentiti, riassorbiti dall’intimistico rovello esistenziale (peraltro camusiano), come quando Kaliayev stempera i profondi furori di rivolta assoluta in prostrazione, s’inginocchia e nel confessare forse un residuo di fede cristiana, confida nella nonviolenza. Uno spettacolo discutibile, quindi importante, nella sensibilità attuale: così lontana sia dalla creazione del 1949 (regia di Paul Oettly, con Maria Casarès e Serge Reggiani), sia dall’edizione italiana diretta da Giorgio Strehler nel 1950. 




I giusti
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