È difficile, e forse incongruo, tentare una correlazione tra costanti
drammaturgiche e ambientazione geografica nel teatro di Verdi: certo è, però, che solo le sue opere “spagnole” presentano
degli epiloghi così spiazzanti. Se quello di Ernani appare tanto irragionevole quanto necessario, se Il trovatore – con il suo fulmineo
scambio di battute conclusive – può vantare il più conciso dei finali, e se
spetta alla Forza del destino la
palma per lepilogo più catartico, Don
Carlo reca invece con sé la chiusa più sconcertante. Impossibile trattenere
un senso di sgomento davanti a questo imprevedibilissimo finale, che –
sovvertendo il dramma di Schiller –
non si conclude con la consegna del protagonista negli artigli della Santa
Inquisizione, ma affida lantieroico Infante di Spagna al regno dei morti
attraverso il fantasma dellavo Carlo V.
Dunque corre lobbligo di dire che se un Don
Carlo, al calar del sipario, non trasmette né angoscia né sbigottimento, lo
spettacolo (al di là dogni altro possibile pregio) non ha centrato il
bersaglio.
Daltronde, negli anni Trenta del secolo scorso, iniziò a circolare in
Germania una versione alternativa dellopera in cui Franz Werfel – allinterno di un suo lavoro di traduzione e
revisione esteso anche ad altri libretti verdiani – sostituiva questo
metafisico coup de théâtre con un più
prevedibile epilogo dove lInfante si pugnala davanti alla tomba del nonno
Imperatore. Il gusto tedesco, si sa, preferisce un realismo didascalico alla
dimensione fantastica e allusiva: e a tale propensione estetica sinforma pure Peter Stein (il suo spettacolo approda
ora alla Scala dopo le recite salisburghesi di quattro anni fa), che volendo
delucidare rischia dimpoverire e, stemperando il cuore oscuro di questo
melodramma, in qualche modo lanestetizza.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia e Rudy Amisano Detto questo, la regia di Stein segue un percorso preciso e non è quel
florilegio di ovvietà che la critica musicale italiana – oggi impegnata in una
sistematica opera di rottamazione dei Grandi Vecchi del teatro – ha voluto
scorgere. Piuttosto, è la messinscena dun ex innovatore che, giunto alletà
dei bilanci, preferisce privilegiare la chiarezza del racconto e la fedeltà al
testo rispetto a più spiccate prese di posizione registica; e che in
questottica, con soppesato accademismo, dipana il suo Don Carlo per progressioni scalari piuttosto che per contrasti,
illustrando una serie di ritratti di famiglia – un figlio, un padre, una
matrigna, un amico, una falsa amica – che lasciano laffresco storico sullo
sfondo. O in cui, quanto meno, la dialettica tra versante “privato” e
“politico” della vicenda resta affidata alla dicotomia tra scene (di Ferdinand Wögerbauer) duna
stilizzazione ai confini del minimalismo e costumi (di Anna Maria Heinreich) splendidi per sontuosità e rifinitura.
Poco interessata a governare le scene di massa (che però nel Don Carlo hanno un peso decisivo) e
attenta invece al gioco delle controscene, con qualche caduta di credibilità
(le movenze dei cori femminili, la dinamica delluccisione di Rodrigo…) ma
anche con slittamenti umoristici forse intenzionali (quella piazza da circo che
qui sono i giardini della regina sottolinea il farsesco involontario del qui pro quo tra Eboli e Carlo), la regia
ha trovato funzionale corrispettivo nella bacchetta di Myung-Whun Chung: se Verdi, parlando della première parigina dellopera, lamentava «unesecuzione senza sangue
ed agghiacciata», il maestro coreano trasforma in scelta calcolata quanto al
compositore pareva un limite. Ne sortisce uninterpretazione musicale che non
rinuncia a un algido nitore anche nei momenti più tetri e misteriosi (i corni
nel chiostro di San Giusto, ad esempio), perennemente avvolta in un pulviscolo
grigio e freddo (aver ripristinato latto di Fontainebleau giova a tale chiave
di lettura), permeata da un senso del disfacimento privo di tentazioni
decadenti e orientato al lirismo contemplativo. Sotto questo profilo la stella
polare di Chung – più ancora del Don
Carlo di Karajan, che si
caratterizzava per unesasperata voluttà della fine – sembrerebbe
linterpretazione di Giulini.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia e Rudy Amisano Se dallorchestra e dal coro della Scala il direttore ha tratto ottimo
partito, con i solisti cè stato qualche scollamento: pure gli elementi più
validi non sono sembrati al meglio, chi per improrogabili ragioni anagrafiche
(il Filippo II del sessantottenne Ferruccio
Furlanetto), chi per unadesione
solo parziale al proprio ruolo, come nel caso delle due protagoniste femminili.
Per solidità tecnica Krassimira
Stoyanova è uno dei soprani più affidabili dellattuale panorama
internazionale, laddove Ekaterina
Semenchuk può vantare uno strumento mezzosopranile tra i più doviziosi di
oggi: la prima racchiude Elisabetta di Valois in una dimensione di riserbo malinconico
e rassegnata compostezza (anche la corposità dellottava inferiore contribuisce
a questo tipo di ritratto), senza districare sino in fondo limmane groviglio
psicologico del personaggio; mentre la seconda aggredisce la principessa di
Eboli sul piano interpretativo, ma appare guardinga nei grandi involi canori
(il melisma delle cadenze della Canzone del velo andrebbe affrontato con
maggior insolenza, né azzarda, nella recita di cui si dà conto, lascesa al Do
in O don fatale).
Con la sua voce di oggi, inevitabilmente in disordine (ma pure in anni
migliori non esente da intubamenti e angolosità), Furlanetto domina invece
dallinizio alla fine la parte di Filippo, grazie alla lunghissima
frequentazione del ruolo e a un mestiere di sopraffina scaltrezza. La ferocia
del politico e larroganza del potente hanno il sopravvento sulle macerazioni
delluomo, certo per scelta obbligata – lemissione non può più contare su
morbidezze e mezzevoci – ma anche per precisa opzione interpretativa: questo re
di Spagna con cui è impossibile essere empatici, e che tuttavia
simpone grazie a un declamato sempre risonante e ben scolpito, resta
unincarnazione molto pregnante. E non induce a ottimismi sul futuro sentire il
quasi settantenne Furlanetto sovrastare, per timbro e volume, il poco più che
trentenne Simone Piazzola: baritono talvolta ai limiti
dellinudibile, oltre che fraseggiatore misurato ma generico nel circoscrivere
Rodrigo al cliché dellamico generoso, glissando
sui suoi schilleriani utopismi.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia e Rudy Amisano Altro veterano, Eric Halfvarson
è a sua volta uno specialista del ruolo del Grande Inquisitore: ma in modo
troppo scopertamente altisonante per essere davvero temibile. E anche lidea –
in sé ottima – di affidare i numerosi personaggi minori a elementi
dellAccademia di perfezionamento della Scala non raggiunge i risultati
sperati, perché si tratta di giovani ancora acerbi per quei ruoli brevi, sì, ma
di taglia tuttaltro che comprimariale: solo il tenore Azer Zada riesce a imporsi, nellimprobo canto “scoperto” dellAraldo
reale.
Resta – ovviamente – Don Carlo, affidato a Francesco Meli. Il quale canta Verdi nel modo in cui ci ha
abituati: gradevolmente epidermico, abilmente sottodimensionato. Prendere o
lasciare. E siccome (almeno a giudicare dagli applausi) il pubblico prende,
forse avrà ragione lui…
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Don Carlo
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L'allestimento di Peter Stein visto al Teatro alla Scala il 17 gennaio 2017
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