Mirandolina
invecchiata o la sua audace antenata? Poco cambia, o forse tutto, nel
considerare Padrona Lugrezia embrione o risultato del percorso di emancipazione
della Locandiera. Le donne Gelose è
la prima “venezianissima commedia” che Carlo
Goldoni scrive nel 1752, mentre, appunto, si cimentava con il “plurilinguismo”
e il brio di La locandiera. Di fili
intrecciati se ne ritrovano a iosa e se è un piacere per il lettore sciorinare
le trecce, ancor più gradevole è per lo spettatore trovarsi di fronte a una
regia aperta, che coerentemente lascia spazio alle libere interpretazioni, alle
riflessioni.
Polifonica
la chiave di lettura di Giorgio Sangati,
regista made in Piccolo, che rende
riconoscibilissimi la firma e lo stile della scuola milanese (Ronconi docet). Attraverso uno
sforzo di originalità Sangati crea un allestimento al contempo plastico, aereo,
nero. Non si tratta di aggettivi casuali: la plasticità, la leggerezza e il
dato cromatico sembrano essere le tre caratteristiche principali della sua
cifra registica, in collaborazione ora con scenografo e costumista,
rispettivamente Marco Rossi (già
curatore delle scene per una versione ronconiana della pièce) e Gianluca Sbicca; ora con il curatore
delle luci, Claudio De Pace, e con
quello delle musiche, curiosamente anonimo, e, costantemente, con gli attori,
tutti allaltezza della situazione.
Un momento dello spettacolo © Attilio Marasco
La
polifonia dello spettacolo nasce dalla capacità di tenere in equilibrio le
diverse voci dei molteplici codici scenici. Luci di riflesso, qualche
passerella inclinata e una scenografia tendente al nero e allastratto, o
quanto meno al neutro. Aperture scorrevoli e oggetti cubici e componibili
rimandano a Venezia, città in bilico sullacqua, “borgo” dai mille anfratti che
permette un costante nascondino di personaggi e sensazioni. A partire dal buio
di una permanente sera o indugiando alla luce artificiale e cupa degli interni,
dove i personaggi esplodono in deliri di gelosia, si eccitano nel sogno di
vincite iperboliche, smaniano per attrazioni e istinti sessuali, la cromia
predominante è quella dei toni notturni: blu scuro, nero intenso. Sono
rarissimi i momenti in cui la luce si scalda e, con laiuto dei costumi, quelli
delle “donne gelose” in particolare, la scena si illumina.
La
poesia dei cromatismi, di Sangati-Sbicca più che di Goldoni, crea una differenza
tra personaggi colorati, dai sentimenti e dalle azioni comuni, superficiali,
privi di ragionamento profondo, e personaggi in bianco e nero che creano
fotocopie sbiadite di un tempo ormai perduto. Perduto, non migliore. Il bianco
e nero evidenzia e distacca Donna Lugrezia (una superba Sandra Toffolatti), il particolarissimo Arlecchino di Fausto Cabra (entrambi gli attori si
erano già cimentati in questo testo sotto la direzione di Ronconi, e il suo
magistero è evidente) e infine Siora Fabia (Federica Fabiani), muto e monumentale tarocco della prevaricazione,
sempre in maschera. Poetico-allegorico è ancora linserimento dei passaggi di
un gruppo di maschere dai toni pastello dellazzurro e del verde acqua marina,
unico cedimento alla visione pittoricamente nostalgica di una Venezia
settecentesca, evanescente.
Le
musiche, una colonna sonora fatta di melodie oniriche e rumori dacqua (la
prima sequenza si apre con uno scroscio di vera pioggia che viene giù da una
diagonale in graticcia), non sembrano assecondare lazione, anzi. Travalicando
il proscenio, il côtè sonoro infonde
in sala un senso di quiete e serenità, tradito dal rocambolesco succedersi di
dialoghi di estrema cattiveria, di profonda bassezza.
Un momento dello spettacolo
La
cattiveria, intesa proprio come intenzione, sembra strutturare
linterpretazione degli attori, tutti, dicevamo, estremamente preparati alla non
facile prova goldoniana in dialetto veneziano. Lo stile recitativo dellintera
compagnia testimonia linfluenza della formazione del regista. Il passo in più
della regia di Sangati accompagna questo Goldoni verso una Commedia dellarte
rivisitata, filtrata attraverso lo strutturalismo ronconiano – evidente in
certe coreografie degli interpreti disposti in schiera o comunque imbrigliati
in percorsi rettilinei (viene in mente Lehman
Trilogy) –, e in cortocircuito
rispetto al metodo mimico di matrice costiana, ma decostruito ed enfatizzato.
Si
prenda come esempio una delle scene iniziali in casa di Lugrezia-Toffolatti,
quando la vedova in abito lungo e nero, insieme allesuberante Boldo-Sergio Leone in verde scuro scelgono i
numeri da giocare al lotto. Lattrice plasma i numeri fortunati nellaria che diventa
materia e attraverso i suoi gesti, destrutturati e ideografici al contempo,
rende visibile al pubblico i numeri sognati. Così il numero ottantotto nella
cabala della vedova rimanda allorso, reso dallattrice attraverso una mimica grottesca
e bramiti muti. O, ancora, il numero otto, che viene letteralmente incorporato
attraverso movimenti sinuosi che fanno confluire lattenzione del compagno di
scena e dellintero pubblico sul fondoschiena dellattrice, che di colpo ci
appare bellissima. Ottimo risultato che solo una spregiudicata primadonna
riesce ancora ad ottenere a teatro con tanta grazia.
Un momento dello spettacolo © Attilio Marasco
Estremamente
influenzato da una mimica esibita è infine Arlecchino-Cabra. “Fotocopia”
volontaria degli storici Soleri e Bonavera, il giovanissimo attore è più
vicino al personaggio di un video game
che al classico stereotipo del servo sciocco, con una ricca gamma di suoni
onomatopeici e paralinguistici che completano una postura sempre destrutturata
tendente allo scivolamento e allinciampo. Notevolissima prova dattore, la
sua, che mostra grande duttilità. Ce ne dà prova quando, rientrando carico di
“sportelle” per il festeggiamento dellultimo atto, una capriola gliene fa
perdere una che finisce in platea. Cabra imbastisce una divertentissima
improvvisazione con il pubblico che si conclude in un applauso a scena aperta.
Tra
balzi, capriole e sotterfugi svelati ci si avvia rapidamente alla fine della
commedia e alla riabilitazione della protagonista, personaggio positivo, ma
fino a un certo punto, della corrosiva satira goldoniana sulla sua società e
sulla nostra, sugli istinti umani. Da vedova, infatti, Lugrezia pare essersi
liberata dai vincoli stringenti delle gelosie e delle dinamiche di coppia e,
forse proprio perché libera dai vagheggiamenti amorosi (che distraggono), può
concentrarsi sulla sua parte: quella della vedova, nascondendo senza troppa
ipocrisia commerci e usura sotto il manto nero della bontà. In definitiva tutti
i personaggi sono soli e temono tremendamente la solitudine; Lugrezia sola è e
sola rimane, nella convinzione, così attuale, che i soldi consolino lanimo.
Passando i anni, passa la bellezza,
Ma de tutto ghe xe, co ghe xe bezzi.
Una povera donna se desprezza;
Ma quando la ghe nha, se ghe fa i
vezzi.
Che i sia per interesse, o per amor,
Se accetta tutto, e se consola el
cuor.
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