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Eduardo in casa Cupiello per Antonio Latella

di Anna Barsotti
  Natale in casa Cupiello
Data di pubblicazione su web 25/01/2017  

È un contemporaneo, ma pur sempre – nel profondo – tradizionale, presepe napoletano quello che Latella, al suo primo confronto con la drammaturgia della terra paterna e materna, trae dal testo tout court anzi tutto intero, davvero integrale, del padre odiato/amato per eccellenza, Eduardo De Filippo. Padre ingombrante da uccidere, addirittura fantasma da esorcizzare, secondo il teatro di ricerca più aggressivo della Neapolis anni Sessanta-Settanta, ma che oggi, dopo l’elaborazione del lutto, è riconosciuto come teatro vivente. E non a caso Latella ha scelto del repertorio il testo eduardiano più sperimentale, quel Natale in casa Cupiello frutto di un parto trigemino con una gravidanza durata anni e non mesi. Tre atti scritti (e rappresentati) in anni diversi come studi, anche se l’uso tradizionale delle riduzioni o degli ampliamenti dovette incidere sulla biografia a tappe dell’opera, in una successione stravagante: prima il secondo come atto unico (nel 1931), cui si aggiunge il primo (nel ’32-33), in ultimo il terzo, composto fra il 1934 e il ’43, alle soglie della seconda guerra mondiale; così da formare un corpus quasi tragico, che stravolge la natura farsesca e melo, al tempo stesso, dello spettacolo di partenza (con cui la famiglia-compagnia “I De Filippo” s’era affermata al cinema-teatro Kursaal).

Il nuovo organismo infatti comprende un prologo e un epilogo, mentre l’atto unico iniziale, divenuto secondo, conserva l’originario dinamismo grottesco, pur assumendo un indirizzo diverso nell’insieme. Si profila in questo Natale la centralità di un protagonista dissonante dal coro pieno dei familiari e dei vicini, degli altri, che parlano o mimano un altro linguaggio, che lo isola e da cui si isola, preda d’un maniaco ideale; personaggio che riemergerà con forza dal “Teatro di Eduardo” del secondo dopoguerra: in varie metamorfosi sceniche, in un rapporto ambiguo – distacco e partecipazione – con il suo autore e interprete primigenio. Come la reincarnazione di una maschera umana, anche se finirà con due fosse al posto delle guance, soffrendo in modi sempre più coscienti uno stesso dramma della solitudine, per la comunicazione sempre più difficile fra io e mondo.

Latella intravede l’ambiguità strutturale di quel rapporto fra attore-autore e personaggio, ma la risolve con il senno dei posteri, con una identificazione che riassume (come vedremo nel finale del “suo” spettacolo) la dinamica di rigetto e al tempo stesso di “spostamento” dell’eredità eduardiana, che d’altra parte il “Grande giuocoliero” stesso ha provocato nei confronti della tradizione, con il suo teatro. «Noi» – scrive il regista nelle note alla messinscena del dicembre 2014 – «ereditiamo proprio questo spostamento».[1] E lo mette lì, l’autore-personaggio, nel suo presepe a rischio di demolizione, eppure pertinacemente “ricominciato”: «Mo miettete a fa’ ’o Presebbio n’ata vota… » (I, p. 380);[2] l’ultima battuta del primo atto risuona come Leitmotiv fascinoso e fastidioso con l’ineffabile voce dell’ultimo Eduardo (registrata dall’edizione tv del 1977), dall’alto, sulla bagarre che connota, nel secondo atto, la rovinosa vigilia di Natale. D’altronde, come accennato all’inizio, identificazione e location potrebbero trarre spunto dalle bancarelle dei mercatini presepiali napoletani, dove, sin dal dicembre 1981, De Simone riconosce «tra Madonne, San Giuseppi, angeli e zampognari», poi anche personaggi storici e dell’attualità, la figurina di Eduardo con la camicia da notte di Luca Cupiello; entrato quindi nella mitologia popolare, di per sé oggi postmoderna, senza davvero dissacrare «il significato profondo del Natale, quell’angoscia di morte contrapposta alla Nascita divina, sospinta verso l’infanzia con lo struggimento di un bramato ritorno, nel segno emblematico di una grotta centrale, ventre materno donde nasce il Sole e in cui si rientra dopo la morte».[3] Solo che qui neppure la stella cometa che giganteggia sulle teste dei personaggi e delimita, calando e risalendo, il boccascena su cui sono schierati nell’atto iniziale – prima di spalle e poi girandosi frontalmente a simulare l’entrata –, neanche quella stella è un segno fausto, intessuta com’è di crisantemi gialli.


Atto I: Concetta (Monica Piseddu), 
Luca Cupiello (Francesco Manetti) 
© Brunella Giolivo

Eppure Latella legge bene questa specie di testo organico che è il Natale, così come vi enuclea le tappe di un percorso epico che è di per sé una via crucis,[4] del protagonista votato fino alla morte alla costruzione, materiale e metaforica, di un illusorio presepe famigliare (e sociale), che è la sua mania e il suo rifugio; ma che non potrà essere salvifico, per lui, che nella dimensione del sogno ad occhi aperti – continuamente interrotto, fin dall’inizio, dalla sfiducia della moglie, dalla distruzione concretamente operata dall’isteria della figlia, e soprattutto dal reiterato rifiuto del figlio – o nella dimensione, infine, di un delirio che prelude alla morte. Non a caso mutano da un atto all’altro, nello spettacolo del regista nato (per caso) a Castellammare di Stabia,[5] i modi della rappresentazione.

I primi due atti sono accorpati in modo da isolare il terzo, l’epilogo; eppure ciascuno di quei due riflette la diversa struttura drammaturgica che li aveva condotti in un primo tempo a un unico spettacolo. Espositivo il primo, della situazione della famiglia Cupiello, con i suoi intrinseci e disgreganti conflitti, che il non più capo si rifiuta di vedere (ecco gli occhiali); da cui la staticità performativa con i personaggi allineati in proscenio che recitano non solo le battute ma anche le didascalie, secondo un tratto distintivo, più che brechtiano, proprio di Latella, da Bestia da stile (2004) a Un tram che si chiama desiderio (2012). Eppure già deducibile dalla scena delle prove del meta-teatrale Uomo e galantuomo eduardiano.

Dinamico il secondo atto, per lo sviluppo di quei conflitti, con il presepe ormai “priparato” la sera della vigilia di Natale, bersaglio dell’ironia dell’intruso, amico del figlio e amante della figlia, la cui traumatica “riunione” da parte dell’ignaro protagonista porterà alla sfida da sceneggiata fra lui e Nicolino, il marito. Dinamismo e ingredienti comico-melodrammatici – che richiamano ai primi generi attraversati dall’attore-autore (sceneggiata, farsa, varietà) – portati al parossismo da Latella e dalla sua compagnia, in una atmosfera circense, dove campeggia però l’invenzione del carro funebre dalle pareti a vetro, in cui si rifugia non a caso sovente il protagonista (Francesco Manetti), ma che è trascinato faticosamente dalla moglie Concetta (Monica Piseddu), novella madre coraggio. Dell’epilogo, che “riprende” come in un’opera musicale i Leitmotive precedenti ma se ne distacca – «tre giorni dopo quella disastrosa Vigilia di Natale» (did., III, p. 401) –, parlerò, come si deve, in fondo. Mi preme per ora approfondire l’aspetto scenico e drammaturgico (anche per l’apporto di Linda Dalisi) dei primi due atti.

Dalla schiera di personaggi a lutto, che via via si levano la mascherina per mostrare il volto dei personaggi/attori, spicca al centro Luca/Manetti, anche per la giacca bianca, ma sul pigiama,  richiamando l’abito di Guglielmo Speranza di Gli esami non finiscono mai al suo funerale; in questo prologo Lucariello diventa eroe non tragico[6] ma anche l’Autore, teso con la mano destra tremante (una proiezione dell’ultimo Eduardo?) a scrivere sulla quarta parete trasparente, che lo separa dal pubblico, la propria storia. Sotto l’enorme stella cometa i personaggi, come già detto, recitano tutto il primo atto didascalie comprese, facendone apprezzare il nitore e la bellezza, il dettato scenico – quando dice “mimano” gli attori parlano davvero con una mimica discreta –, ma secondo un procedimento narrativo che distingue perlopiù comparse, comprimari dal protagonista. Mentre i famigliari di casa Cupiello, il dispettoso Tommasino (enigmatico Lino Musella), il vittimistico zio Pasqualino (agitato Michelangelo Dalisi), poi Ninuccia (nervosa Valentina Vacca) e Nicolino (arrogante Francesco Villano) si auto-presentano declinando la didascalia dalla terza alla prima persona – con procedimento drammaturgico simile a quello dell’Orlando furioso di Sanguineti/Ronconi –, movimenti e gesti, pensieri di Luca, contenuti nelle didascalie che lo riguardano, sono esposti dal coro quasi tragico di tutti gli altri, che comprende figure di femminielli o trans napoletani, un cieco con la scimmia da organetto (di vivianea memoria). Se il rapporto battuta (in dialetto)-didascalia (in italiano) mette in rilievo l’aspetto sperimentale che distinguerà la lingua teatrale eduardiana nella Cantata dei giorni dispari per la mescolanza “eretica” (Meldolesi) dei due registri, la scelta di far dire e rimarcare col corpo gli accenti (grave o acuto) si trasforma in una puntigliosa valorizzazione della lengua napoletana, solo apparentemente straniante. Come se la dislessia del regista[7] ispirasse inoltre un’ossessiva rilettura del testo, attraverso la materializzazione attorica dei suoi segni (con un po’ di ironia nei confronti dei napoletani doc).


Atto II: la carrozza. Da sinistra: Vittorio Elia (Giuseppe Lanino), Luca Cupiello (Francesco Manetti), Concetta (Monica Piseddu)
© Brunella Giolivo

Pochi movimenti e interrelazioni agite in questo prologo, che nella sua semplicità oratoriale sembra nato dalla e dopo la scena finale dei Sei personaggi pirandelliani, anche perché il contenitore scenico fisso è il palco vuoto del teatro, con carrucole ai lati e graticcio a vista, come l’entrata per gli attori sul fondo (che fungerà da uscita per un personaggio). Nella staticità dell’insieme colpiscono, dunque, le botte che l’esasperata Concetta dà materialmente al marito per scuoterlo dalla fissazione del presepe, e che rischiano effettivamente di fare cadere a terra il fragile e traballante Luca, già scosso dalla tosse. La Concetta di Monica Piseddu è d’altra parte la più espressiva mimicamente, per quanto i suoi gesti del volto siano più “discreti” che “mobili”; rari e scanditi: occhi fissi sul pubblico o trasformati in deittici (quando si rivolge a un altro personaggio), labbra serrate che si schiudono appena e ad arco tragico (nei momenti di insofferente amarezza o di pena). Chiusa e dolente, questa mater è connotata da un’introversione che la distingue da quella di Pupella Maggio (non s’apre al grido neppure quando sviene); il corpo esile nella camicia e pantaloni neri, la braccia pendenti lungo i fianchi, ne evidenziano, con effetto di “primo piano”, il volto tragico, lo sguardo perso nel vuoto, il mento proteso in avanti.

Non a caso a lei è affidata la corvée di tirare il carretto famigliare, nel secondo atto dello  spettacolo, materializzato simbolicamente dal carro funebre (non solo Brecht, anche icona del funeralino di L’oro di Napoli) per le pareti vitree e trasparenti su cui continua ostinatamente a scrivere il protagonista, quando vi si rifugia, mentre attorno impazza il dinamismo circense. Gli altri personaggi portano e si tirano addosso grandi pupazzi di peluche, un po’ ripugnanti, d’animali che da un lato rappresentano il tripudio di generi alimentari che, improvvisamente, nelle didascalie di quest’atto, campeggiano sulla credenza d’una sala da pranzo debitamente allestita per il cenone – tacchini, maiali, il capitone; dall’altro sono pròtesi dei personaggi stessi, il maiale è accorpato al ricco genero Nicolino, Francesco Villani, fin dal primo atto impellicciato. Dall’altro ancora richiamano quegli animali che nei presepi accompagnano le figurine, cammelli e cavalli. L’invenzione del carro da Madre Courage mediterranea – che talvolta si trasforma, dentro e fuori, sopra e sotto in palchetto, teatrino nel teatro vuoto – dirige nei suoi spostamenti le geometrie coreografiche degli attori con pupazzi, solo apparentemente ma efficacemente caotiche.

Due scene si distinguono in questo caos orrendo, quella comica della lettera rituale di Tommasino alla madre e quella da sceneggiata della sfida fra Nicolino e Vittorio (l’amante della moglie, l’intruso) incoscientemente “riuniti” da Luca in quella “santa” vigilia. La prima, vero e proprio sketch da avanspettacolo (se si guarda alle origini dell’atto), si svolge in proscenio con i tre, Tommasino/Masella, Luca/Manetti e Pasqualino/Dalisi, messi in primo piano anche dalla luce (livida), il figlio e nipote sulla sinistra e lo zio sulla destra, il padre e fratello debitamente al centro, mentre fatica a mediare il conflitto fra gli altri due per una missiva natalizia che si trasforma buffamente ma anche crudelmente in una «nota della salute» ostinatamente tesa a penalizzare l’altro mariuolo da Nennillo stesso derubato. La seconda scena s’allarga a tutto il palco, dando spazio all’azione sadica di palleggiamento dell’oggetto femminile, Ninuccia, fra i due rivali (richiamando l’Otello di Nekrošius), che reitera e moltiplica da parte dell’uno e dell’altro quel bacio scandaloso degli amanti (nel testo), rubato e sorpreso, fino a culminare in uno stupro maritale contro le pareti del carro funebre. D’altra parte muta anche l’atmosfera con cui si chiude l’atto: alla tragicomica cantata dei tre buffi, improvvisati Re Magi (ancora Tommasino, Luca e Pasquale, che non sanno) attorno a una «allucinata», perché consapevole, Concetta, si sostituisce l’azione o non azione a due, la moglie debitamente stravolta e il marito incosciente che le canta la Pastorale, da solo, senza alcun effetto neppure di grottesco.

Per l’epilogo – dopo l’intervallo che marca la distanza temporale e la differenza del terzo atto – si propone il quadro di un presepe vivente, con Luca/Manetti, mezzo nudo come il Gesù Bambino «grande grande» della visionaria didascalia finale, adagiato su un’enorme mangiatoia, e l’annuncio affidato al portiere/angelo Leandro Amato che, con virtuosismo ammirevole, recita l’incipit dell’atto: didascalie e battute dei diversi personaggi, addirittura quelle di Concetta citando la “voce” di Pupella Maggio. L’incipit è addetto, nel testo, alla resa di una “crisi di cordoglio” meridionale e mediterranea, con le “distrazioni” rituali delegate al vagabondaggio dell’immancabile tazzina di caffè, che sfugge ripetutamente e comicamente a uno dei casigliani. Ma, appunto, questa sequenza (re)citata dall’angelo portiere (che vola dal fondo al proscenio munito di grosse ali) è come messa in sordina rispetto alla raffigurazione iconografica e poi, come vedremo, musicale dell’atto nel suo complesso.

L’azione si consuma attorno al letto-bara, qui mangiatoia, dell’eroe non tragico incapace di passare il limite fra illusione e realtà, e perciò colpito dall’emiparesi che lo inchioda a quel giaciglio divenuto scenograficamente centrale, dove l’attore, a differenza di Eduardo, nel sonno-delirio si muove inquieto e scomodo. Al levarsi del sipario, però, colpisce noi spettatori il cordoglio pittorico affidato a personaggi tutti, maschi e femmine, in neri costumi da donna sette-ottocenteschi (con tanto di paniers sottogonna svelati quando si spogliano), mentre d’altra parte l’illuminazione fa capo a luttuose atmosfere da Velázquez a Caravaggio. Acquistano rilievo, per la scelta di “riassumere” narrativamente (senza tagli) l’incipit, le scene agite del medico, che però canta da contraltista (è Maurizio Rippa, levatosi la benda del cantante cieco) l’aria rossiniana La calunnia è un venticello, in sintonia coi costumi; quindi il monologo del «fatto dei fagiuoli» del protagonista che qui perde un po’ dell’humour beffardo e sornione che lo connotava per la phonè, quasi un grammelot, di Eduardo.

Del resto la recitazione di Manetti/Luca si differenzia fin dall’inizio da quella inimitabile – e perciò giustamente non imitata – di Eduardo/Luca; rovesciando anzi, nel primo atto, la lentezza ansimante per i fiati interrotti del primo in una fretta del parlare ansiosa, che s’inceppa lo stesso sulla «difficile parola» («ci riuniamo» per le feste «ricordevoli») ma senza sfiorare, come faceva quello, il silenzio… C’è una specie di horror vacui nei discorsi del Luca di Manetti, che si riflette nel gesto ossessivo (nei primi due atti) di scrivere; d’altra parte, egli trasforma nell’ultimo atto il gesto con cui Eduardo-pupo, immobilizzato negli arti inferiori, faceva ballare il braccio destro, morto, con il sinistro, in quello con cui muove ripetutamente lo stesso braccio della scimmia di peluche che il cantante cieco, divenuto dottore, gli ha adagiato addosso, sortendo con mezzi diversi un simile effetto fanciullesco nel personaggio come per una inconsapevole amarezza (ricordiamo che, per Eduardo, l’umorismo è la parte amara della risata).


Atto II: la carrozza. Al centro da sinistra: Tommasino (Lino Musella), Pasqualino (Michelangelo Dalisi), Luca Cupiello (Francesco Manetti)
© Brunella Giolivo

Ma è la resa del quadro d’insieme, piuttosto che del protagonista, a dominare gli effetti (come già detto) iconografico-musicali dell’epilogo per Latella. Da un lato i riferimenti luministici e compositivi a Caravaggio, con scene che sembrano citare la Crocifissione di San Pietro e la stessa Deposizione, con la testa della Madonna – qui Concetta della Piseddu in soggolo e bende bianchi sotto il velo nero – che emerge in alto e da dietro quella del cristologico Lucariello, adombrando anche una sacra Pietà. Dall’altro, ma in una contaminazione cara a questo regista, l’opera buffa ispirata sia dall’incongrua battuta testuale (nella moglie Luca riconosce «Don Basilio») sia dalla scena grottesca in cui il pater fuori ruolo e fuori di testa riunirà le mani di Ninuccia e di Vittorio Elia (Giuseppe Lanino, anche lui a un certo punto cantante) nella “tremenda” convinzione che quest’ultimo sia il Nicolino ossessivamente invocato. La cui interpretazione da parte di Francesco Villano, quando sopraggiunge in quel punto davvero cruciale, si distingue radicalmente, per la furia vendicativa che lo muove, da quella in fondo pietosa dell’originario Pietro Carloni (e dello stesso Luigi Uzzo dell’edizione tv del 1977).

Veniamo dunque al finale, che nel testo è di per sé, come tutti i finali eduardiani, aperto all’ambiguità; per quel «sì» che Nennillo regala finalmente al padre, dopo i molti dinieghi che hanno contrappuntato la richiesta Leitmotiv, «Te piace ’o presebbio?», con meccanismo comico da diavolo a molla, negli atti precedenti. Un sì in extremis che, a seconda di come viene pronunciato, può significare riconoscimento del valore d’una tradizione (paterna) oppure pietoso contentino a quel padre che sta morendo. La soluzione escogitata da Latella per il suo Tommasino, un impassibile Lino Musella posto ai piedi della mangiatoia, frontalmente al pubblico e con il volto bene in vista, che ora sembra impietrito, rilancia quell’ambiguità, aggiungendo un’azione. Dice «sì» quasi atono, ma poi lentamente si muove verso il capo del padre e lo soffoca con un cuscino. Gesto che è stato interpretato dai critici in una doppia maniera: pietosa eutanasia oppure brutale messa a tacere[8] per sempre di un’autorità paterna minata ma lo stesso pretesa. Il senso resta quindi aperto, come i molti segni che (abbiamo visto) affollano, a volte troppo, simbolicamente ed espressionisticamente questo spettacolo. Tanto più che il personaggio continua quell’azione, cospargendo di foglie da biada il corpo esanime nella mangiatoia, così preparando l’entrata a sorpresa – eppure prefigurata nella didascalia che illustra l’ultima visione presepiale del protagonista – di «un vero asinello e una mucca vera, ma piccoli piccoli» (III, p. 412).

Non so la ragione per cui quei piccoli bue e asinello in carne e ossa, introdotti nello spettacolo del 2014/2015, siano stati sostituiti in questo del 2016 da due bambini biancovestiti che recano alla mangiatoia due corrispondenti, piccoli pupazzi. Il motivo potrebbe consistere banalmente in difficoltà di ordine tecnico incontrate (magari da parte di animalisti); certo l’effetto era più potente, una sorta di letteralizzazione[9] materiale del sogno o dell’utopia del protagonista. Corpi veri degli umili animali, in contrasto con la falsità dei cosiddetti umani e dei loro abnormi pupazzi (pupi). D’altra parte i bambini con i loro piccoli pupazzi votivi introducono un filo di speranza, per tutto lo spettacolo negata, cosicché parricidio o eutanasia rimandino alla fine a quello “spostamento” nei confronti dell’eredità di Eduardo, che è pur sempre un trampolino di lancio, e che consente, come diceva lui della tradizione, di saltare più in alto che se si saltasse da terra. Questo regista, anche attore, partenopeo per le origini famigliari, ma vissuto e operante al nord e all’estero, dissemina la sua messinscena di segnali europei, offrendo del testo un’interpretazione “estrema” e coerente con la propria storia artistica, ma al tempo stesso ci conferma come l’inventiva e la tenuta drammaturgica eduardiane siano talmente forti da resistere ad ogni soluzione rappresentativa.



[1] A. LATELLA, Note di regia, nel libretto di sala del debutto dello spettacolo il 3 dicembre 2014 al Teatro Argentina di Roma. Io ho assistito alla ripresa, al Teatro Manzoni di Pistoia, l’11 dicembre 2016: Natale in casa Cupiello di Eduardo De Filippo per la regia di Latella, drammaturga del progetto Linda Dalisi, con Francesco Manetti (Luca), Monica Piseddu (Concetta), Lino Musella (Tommasino), Valentina Acca (Ninuccia), Francesco Villano (Nicolino), Michelangelo Dalisi (Pasquale), Leandro Amato (portiere/angelo), Guseppe Lanino (Vittorio Elia), Maurizio Rippa (cantante cieco/dottore), Annibale Pavone, Emilio Vacca, Alessandro Borgia; scene di Simone Mannino e Simona D’Amico, costumi di Fabio Sonnino, musiche di Franco Visioli, luci di Simone De Angelis, produzione Teatro di Roma - Teatro Nazionale.

[2] Tutte le citazioni sono tratte da E. DE FILIPPO, Natale in casa Cupiello, in Cantata dei giorni pari, a cura e con Introduzione di A. BARSOTTI, Torino, Einaudi, 2005, pp. 357-412.

[3] R. DE SIMONE, Novena ed egloga per Eduardo, scritto che funge da prefazione all’edizione Einaudi del 2000 di Natale in casa Cupiello di E. DE FILIPPO. 

[4] Rimando in proposito alla mia Nota storico-critica al testo di Natale in casa Cupiello, in DE FILIPPO, Cantata dei giorni pari, cit., pp. 327-356. La definizione dell’epicità dell’opera, confermata dalle parole del regista, è già nel mio Eduardo drammaturgo fra mondo del teatro e teatro del mondo, Roma, Bulzoni, 1988 (poi 1995).

[5] I genitori erano emigrati in Svizzera, ma la madre, di Torre del Greco (come il padre di San Bartolomeo in Galdo), prese il treno per farlo nascere in Campania; cfr. La misura dell’errore. Vita e teatro di Antonio Latella, a cura di E. TIRELLI, Bologna-Napoli, Caracò, 2016 (con intervista), p. 7.

[6] Per la definizione di «eroe non tragico», da me attribuita al protagonista eduardiano, cfr. W. BENJAMIN, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, trad. it. di E. FILIPPINI, Torino, Einaudi, 1966, pp. 129-130.

[7] Cfr. ancora LATELLA in La misura dell’errore, cit., p. 12.

[8] Per fare due esempi: G. CAPITTA, Tra Pasolini e Brecht te piace ’o presepe, in «il manifesto», 6 dicembre 2014 (parricidio); F. MOSCHINI, Rilettura rigorosa del “Natale”, in «il Tirreno», 11 dicembre 2016 (eutanasia).

[9] Cfr. T. TODOROV, La letteratura fantastica (1970), Milano, Garzanti, 1977.




Natale in casa Cupiello
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L'allestimento di Latella al Teatro Manzoni di Pistoia
© Brunella Giolivo


 
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