Uno dei registi italiani che più spesso ha raccontato
crisi interiori inespresse e contesti familiari drammatici – toccandone i
vertici nel suo lungometraggio desordio, I
pugni in tasca (1965) – è
tornato nelle sale con una vicenda incentrata sulla tragedia personale vissuta
nellinfanzia dal giornalista e scrittore Massimo
Gramellini, al centro del romanzo autobiografico Fai bei sogni, pubblicato nel
2012.
Presentato in anteprima al Festival di Cannes, lultimo
film di Marco Bellocchio narra il dramma interiore che ha
accompagnato la vita di Gramellini dal momento della tragica perdita della
madre avvenuta quando aveva appena nove anni. Il regista sceglie una struttura
non lineare, dove il presente – presumibilmente coevo o immediatamente
precedente alla stesura del romanzo – si intreccia con episodi del passato: dal
periodo vicino alla misteriosa morte alletà adulta, passando attraverso la
difficile fase delladolescenza.
Le prime sequenze, collocate nella fase precedente al
decesso, delineano il rapporto speciale tra la donna e il figlio, là dove ai
sereni momenti di gioco e di complicità si alternano frequenti silenzi e cupe
assenze da parte della madre, la quale sembra fare i conti con un senso di
angoscia interiore legato non soltanto alla grave malattia con cui sta
combattendo.
Un momento del film © Simone Martinetto
La tragedia avviene allalba di un giorno dinverno, quando Massimo viene svegliato improvvisamente da un terribile urlo del padre seguito da uno strano viavai di familiari ed estranei nella propria casa. Non credendo alla bugia della madre colta da un malore e portata in ospedale, Massimo riceve solo alcuni giorni dopo la notizia della sua morte dal prete del paese (Roberto Herlitzka). Lelaborazione del lutto assume nel corso degli anni forme diverse.
Inizialmente, il forte dolore e la mancanza determinano la non accettazione
della perdita e la tendenza ad atteggiamenti cupi e introversi, accompagnati da
una compensazione della carenza affettiva con lelezione delloscura figura di
Belfagor a proprio nume tutelare immaginario. Una scelta che rappresenta un
tentativo inconscio di mantenere ancora un legame mentale con la madre mediante
il pauroso personaggio della nota serie televisiva francese del 1965 –
trasmessa dalla RAI negli anni successivi (Belphégor ou Le fantôme du Louvre)
– che Massimo guardava spesso in sua compagnia. Allo stesso tempo, instaurare
un dialogo segreto con questa figura “mitologica”, identificata come una sorta
di alleato invisibile, sembra riuscire in qualche modo a sublimare il vuoto,
oltre che la paura del mistero.
In seguito a una lunga fase di rimozione del lutto, sarà poi il Massimo
adulto (interpretato da Valerio Mastandrea) a farvi i conti, al rientro
dalla guerra in Bosnia. È in tale contesto di morte e distruzione, infatti, che
luomo sembra rivivere il proprio dramma quando si trova di fronte un bimbo
quasi inconsapevole della violenta uccisione della madre sulla soglia di casa:
da questo momento sente su di sé tutto il peso del dolore e dellangoscia che
per anni aveva cercato di nascondere, pronto ad affrontare la verità, grazie
anche alla vicinanza di colei che diventerà la sua compagna, Elisa (Bérénice
Bejo).
Un momento del film © Simone Martinetto Il regista piacentino realizza il proprio “affresco” cinematografico facendo ampio uso di ellissi, articolate da un montaggio che procede per episodi significativi, dove il succedersi degli eventi sembra essere scandito da echi visivi e memoriali. Il cast riflette la ricerca di drammaticità che contraddistingue la lettura del presente e dei rapporti interpersonali tipica del cinema di Bellocchio: oltre a Mastandrea, limmancabile Roberto Herlitzka, attore feticcio del regista (si pensi solo a Buongiorno, notte, 2003, in cui è un magistrale Aldo Moro). Da segnalare, inoltre, la presenza dellattrice francese Bérénice Bejo, le cui capacità recitative erano già state messe in risalto con The Artist di Michel Hazanavicius, che le ha valso lOscar come Miglior Attrice Protagonista. Bellocchio riesce ancora una volta a rappresentare efficacemente le
inquietudini umane. Privilegiando la prospettiva del piccolo Massimo, il
regista mette in evidenza lo scarto emozionale tra la sua percezione visiva
della realtà e quella veicolata dalla televisione, che proprio negli anni
Sessanta e Settanta costituiva il principale mezzo di comunicazione. La forza
delle immagini filmiche si manifesta soprattutto nella rappresentazione del
turbamento interiore del bambino, che assume una consistenza visiva attraverso
linquietante volto di Belfagor: unevocazione simbolica che Bellocchio fa
“apparire” in più occasioni agli occhi degli spettatori.
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