drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | Link | Contatti
cerca in vai

Fincostassù

Alberto Severi
  .
Data di pubblicazione su web 21/01/2017  

Pubblichiamo il monologo di Alberto Severi messo in scena nel novembre 2016 al Teatro della Pergola con la regia di Lorenzo DeglInnocenti e l’interpretazione di Marco Zannoni, in occasione del cinquantesimo anniversario dell'alluvione di Firenze.

Personaggi

L’Arno

Raffaello detto Caronte

Clotilde

Carlo

Emma detta Sospiro

Omino della fermata del 33

Giovin Cacciatore

Signora della aradio

Maresciallo dei Carabinieri

Carabiniere Anfuso

Ruth signora americana

Pittore gaudente

Pretino

Scrittrice fané

sior Todaro primattore dello stabile di Venezia

professor Pierfilippo Cosi

Angela

Polvere il cenciaolo

L’alluvione viene narrata diacronicamente, uniformando lo scorrere unidirezionale del tempo allo scorrere del fiume, da una serie di personaggi che scorrono per l’appunto uno dentro l’altro entro un unico Personaggio Collettivo (l’Arno, o Firenze stessa). Dopo il Prologo affidato all’Arno stesso, si parte dall’apertura della diga di Levane, per molti una delle cause che provocò il disastro (ma oggi si tende a scagionarla...), raccontata “in diretta” da Raffaello, il gestore del bar adiacente alla diga; si prosegue col racconto dell’unico avvertimento dell’imminente esondazione dato agli orafi di Ponte Vecchio sul principiare della notte (Clotilde); poi la telefonata fatta al custode dell’acquedotto dal giornalista Nencini de “La Nazione”, che illustra i disastri già provocati dalla piena a monte di Firenze (Carlo); e ancora le prime tracimazioni in città, nel cuore della notte e sul far dell’alba, con l’inutile tentativo da parte dei gestori di un negozio di stoffe di mettere al riparo le proprie merci (Emma). A questo punto, i monologhi lasciano il posto ad un momento corale, nel quale una serie di personaggi racconta la “rottura delle acque” nelle prime ore diurne del quattro novembre, e poi la terribile giornata che segue, fino al defluire della piena: l’omino alla fermata del 33 mostra come in periferia i disagi apportati dalla piena non fossero ancora colti nella loro gravità effettiva; il Giovin cacciatore, alzatosi all’alba per una battuta di caccia, mostra la sorpresa nel trovare le campagne completamente allagate, la signora della “aradio” illustra tutta la sottovalutazione della catastrofe, sia sui media nazionali, sia nelle periferie cittadine, ancora al mattino del quattro novembre, mentre i due carabinieri sul lungarno assistono terrorizzati in diretta alla rottura degli argini, e il conseguente isolamento del centro storico si dà nel racconto boccaccesco del Pittore gaudente e della Signora americana, ma anche nell’aneddoto “etilico” dell’attore veneziano ospite della rassegna dei teatri Stabili; il Pretino di Curia è testimone annichilito dell’irrompere della marea di acqua e fango in piazza del Duomo, mentre la Scrittrice fané, dalla sua finestra-torre d’avorio, assiste quasi disincantata alla lotta di Ponte Vecchio contro la furia degli elementi, e testimonia poi il progressivo defluire della piena, e il “concerto” dei clacson delle auto in corto circuito; mentre l’esplosione delle caldaie è narrata di nuovo dai due carabinieri e dal pittore gaudente. Dopo questo momento clou corale, l’assestamento della situazione, pure sempre critica, è affidato alla vicenda del professore costretto a ospitare gli evasi dal carcere delle Murate, e altri due monologhi illustrano il “dopo alluvione”: quello di Angela, l’angelo del fango, e quello di Polvere, il cenciaiolo filosofo che tira le fila: una citazione, nel nome e nel personaggio, dei personaggi del “Grillo canterino” radiofonico, quasi a dire come la tragedia travolga una certa Firenzina vernacolare e bozzettistica, facendola tuttavia irriducibilmente “galleggiare” un’ultima volta sulle acque limacciose dell’Arno esondato.

Si noti come il senso del fluire da un personaggio all’altro venga suggerito dalla ripresa, in ogni monologo, e financo negli a solo della parte corale, del tema, delle parole o dell’immagine che chiudeva il monologo o la battuta precedente.  

1. L’Arno

Le luci oscillano su un palco ingombro di macerie, pozzanghere, mobili sfasciati, pneumatici, quadri rinascimentali ricoperti di chiazze scure, cornici dorate prive di tele, broccati sporchi di fango, manichini mutilati, bidoni di nafta rovesciati, libri alluvionati. Su un lato, uno scalino con su dei rotoli di stoffa e una pila di federe e lenzuola. Su un altro lato, il palo con una vecchia “fermata obbligatoria” dell’autobus 33. Un attaccapanni con un berretto da carabiniere, un collarino da prete, una pezzòla da testa, e, appeso per la tracolla, un fucile da caccia. Un tavolo col ripiano di fòrmica, e, sopra, un vecchio telefono fisso color nero. Una sedia sfondata. Una rete arrugginita, con un materasso sporco.

Seduto su una sedia scrostata dall’umidità, chino su una vecchia scrivania dall’aria disastrata – o forse: alluvionata –, nel bel mezzo di una vasta pozzanghera, si indovina la silhouette dell’Arno vestito con un frac impermeabile. Ai suoi piedi, un paio di stivaloni. In penombra, aziona un vecchio fonografo a manovella, parte la voce gracchiante e sabbiosa che canta: «Le gocce cadono, ma che fa se ci bagnamo un po’? Domani il sole ci potrà asciugar. Non si rovina il frac…chete. Le scarpe fan cic ciac…chete. Seguiam la strada del destin…».

Intanto su uno schermo si affollano immagini di nubi che si fanno e disfanno, a velocità accelerata, con effetto drammatico.

L’Arno alza la puntina di riproduzione del fonografo, la musica si interrompe.

Voce registrata fuori campo di Richard Burton che, nel famoso documentario di Franco Zeffirelli, dice: «…Quello che è accaduto in Italia e a Firenze mi riguarda profondamente…».

ARNO   (Variando toni e inflessioni, interpreta le voci, che saranno quelle dei personaggi evocati nella commedia o in alternativa anche queste voci potranno essere registrate fuori campo. Inizialmente è Emma) O babbo! O quanti giorni gli è, che piove, tremila? Pare una vita, e invece son soltanto tre… (sospira; ora è Carlo) E’ m’ha telefonato i’Pampaloni, Pampaloni Oreste, che sta in via Niccolò da Uzzano, e m’ha detto: “scappa bischero, che stanotte s’affoga!”. Però ridea, qui’ bbischero... (adesso è il Pittore gaudente) E’ ride! E’ ridano, loro! Ma icché tu ridi, strulla: questa gli è una tragedia nella tragedia, ecco icché ’ll’è! (Voce di Richard Burton: «...una cosa disumana, terribile, come la guerra…») (Clotilde) C’è un tronco gigantesco, Duilio, che sbatte contro la parete di’nnegozio, ora lo sfonda! (voce di Richard Burton: «Tutto è cominciato all’improvviso, senza un segnale, senza che fosse possibile sapere in tempo…») (Clotilde) Duilio! ’Unn’è sortanto un tronco, c’è appicciàta una Giulietta Sprinte. Una macchina! Occome gliavrà fatto? (Maresciallo dei Carabinieri) Icché tu vòi sbarrare, Anfuso, ’ll’è una marea di fango, ormai ’un vien più in qua nessuno, ’un tu llo vedi? (voce di Richard Burton: «Il fango copre tutto e riempie ogni cosa, un fango pesante e intriso di nafta…») (Bottegaio alluvionato) Alla nòva Pompei – Dalla mota a i’cconsumatore – Prezzi sott’acqua. (Voce di altro bottegaio) Chiuso per umido! Si riapre quando evapora! (Omino di Sanfrediano) Tanto San Frediano ’un mòre nemmeno coll’alluvione. Semmai, si spande! (voce di Richard Burton: «Adesso Firenze ha bisogno dell’aiuto di tutti, perché Firenze appartiene al mondo») (Polvere) Siiie, bellino lui! Co’ i’ ggirocollino nero, gli occhioni celesti… Va ’ia va’ ia briaco, noi e’ ci s’arrangia da soli, come sempre… (Angela) Chi vi cià portati? Chi vi cià mandati? ’Un lo so mica se poi, alla fine, vi si merita… (Bottegaio 1) Dalla mota a i’ consumatore… (Bottegaio 2) Si riapre quando evapora… (Omino di Sanfrediano) Semmai, si spande! (Angela) Quella nostra antica, tragica ironia di fiorentini… (Omino di Sandfrediano)... ’un mòre nemmeno coll’alluvione… (Angela) …che ll’è i’nnostro bene più prezioso, e, forse, i’nnostro limite. (voce di Richard Burton, in un loop ossessivo, ripete ad libitum: «...Quello che è accaduto in Italia e a Firenze mi riguarda profondamentemi riguarda profondamentemi riguarda profondamente» (sfuma) (Polvere, con amaro sarcasmo) Profondamente sì. Profondamente una sega… fin costassù…

Le luci lampeggiano. Ròtola lontano un lungo tuono.

Un lampo si accende sull’ARNO, e lo rivela come impaurito, e sorpreso. La musica tace. Le immagini sfumano.

ARNO   (riprésosi dalla sorpresa, si alza, con un libro aperto in una mano, viene sul proscenio, e recita con impeto un po’ comico, gesticolando ispirato con la mano libera, un brano delle “Croniche” del Villani) “Onde. Onde quel dì… Onde. Onde. Onde. Onde su onde. Onde quel dì, cominciò a piovere diversamente in Firenze ed intorno al paese e nell’Alpi e montagne… E così seguì, al continuo, quattro dì e quattro notti, crescendo la piova isformatamente e oltre al modo usato, che pareano aperte le cateratte del cielo… Per la detta piova il fiume d’Arno crebbe in tanta abbondanza d’acqua… che il giovedì a nona, a dì quattro di novembre, giunse sì grosso alla città di Firenze, ch’egli coperse tutto il piano di san Salvi e di Bisarno, fuori di suo corso…” (si interrompe, precisa) Quattro novembre del 1333. E quattro novembre 1966. (Riprende la declamazione) “Tutto il coperse e scorse d’acqua, e consumò ogni sementa fatta, abbattendo e divellendo gli alberi, e mettendosi innanzi e menandone ogni molino e gualchiere ch’erano in Arno, e ogni edificio e casa appresso all’Arno che fosse non forte, onde onde onde perirono molte genti…”. Bravo. (si batte il petto, con ironico orgoglio) Sì. Bravo, questo “fiumicel che nasce in Falterona, e cento miglia di corso nol sazia!” (afferra un altro libro dalle pagine gonfiate dall’alluvione: il testo del “Re Lear” di Shakespeare) “E voi, soffiate venti, e fatevi scoppiare le guance! Infuriate, soffiate! E voi, cateratte del cielo e uragani, grondate acqua finché non abbiate sommerso i nostri campanili, e affogato i galletti delle banderuole!” (chiude il libro di scatto) Arno non cresce se Sieve non mesce! Ma se la Sieve mesce, mesce mesce mesce… m’esce di fòri l’Arno. (Cita a memoria il Villani) “E si fece buio, in pieno giorno, su tutta la vallata”: il buio – oltre la Sieve! (Ride, poi si rivolge al pubblico).

Stolti. Qualcuno pensava di avermi addomesticato, dandomi un nome? Eccovi serviti, uomini. “Arno”, mi avete chiamato. Nasco, “fiumicel”, in Falterona. Sorgo. Sono una sorgente. E poi sono ruscello, torrente, fiume, foce, mare. Sono i miei affluenti. Sono la piova! Sono le nuvole che generano la piova. Ora. Poi. Prima. Contemporaneamente. E dunque ditemi. Chi sono? Ammesso e non concesso che io sia qualcuno o qualcosa… Perché voi, gli uomini… (sorride con ironico compatimento) bellini… voi uomini mettete un nome a un pezzo di realtà: di quella che a voi vi pare, la realtà, o che vi piomba addosso, vi travolge, vi alluviona, vi infanga… Lo recintate. E pensate di aver creato qualcosa di definito. Dato una volta per tutte. Arginato. L’Arno. Un nome, un’entità, un’identità. Che tale è solo nella vostra mente. Ma nella realtà non c’è, sappiatelo: e non sa d’esserci. Scolpite la sua personificazione su i’bbordo di una fontana. Ne fate un dio, magari: in immagine e somiglianza di uomo nerboruto. Un fantasma di pietra. L’Arno. Ma cos’è, l’Arno? Dov’è? Un fiumicel che nasce in Falterona. Quale fiumicel? Cos’è un fiume? Forse il suo alveo? Neppure. Il fiume è uscito dall’alveo, si dice: e quindi l’alveo non è il fiume. Non ci piove. Cioè, ci piove, eccome. E se ci piove, il fiume dà di fòri. L’Arno inonda Firenze, sia maledetto l’Arno. Sia maledetto il fiume: ciò che non c’è – e ciononostante cresce, travolge gli argini, fa danni. Ma allora cos’è, un fiume? Io, fiume, icché sono? Cos’è la verità? chiese Ponzio Pilato. E il Figlio dell’Uomo tacque. Acque. Acqua. Gocce d’acqua. Molecole d’acqua. Che cambiano, continuamente. Scorran via, via: milioni, miliardi, sempre diverse. Via, via! Non ci si bagna due volte, nello stesso fiume. Nell’Arno, poi, no di siùro: dopo la prima volta, tu mmòri avvelenato! Ma quel tale intendeva dire un’altra cosa, lo so: che lo stesso fiume non c’è, per far bagnare due volte lo stesso uomo. E questo è giusto. Bravo filosofo. Ma dico io: c’è mai lo stesso uomo che possa bagnarsi due volte in un fiume? O anche quell’uomo, nel suo apparente persistere, e consistere, gli è solo un alveo, che in fondo ’unn’ è lui, gli è uno scorrere infinito di sestessi, miliardi di sestessi, ai quali solo la memoria l’uno dell’altro, il successivo del precedente, conferisce una parvenza d’identità?… Nell’acqua, si sa, c’è una specie di memoria. Altro che “scritto sull’acqua”! Soltanto quello che è scritto sull’acqua, nell’acqua, ha qualche probabilità di persistere. Di consistere… Di esistere… La Biblioteca di Atlantide! …

La memoria.

Solo la memoria dà l’identità, solo l’identità dà la responsabilità. Ciò che non c’è, non ha colpa. Solo ciò che esiste, ha colpa. E forse solo ciò che ha colpa, esiste.

Inondo, dunque, sono. Nasco in Falterona, ed è una colpa: il mio peccato d’origine.

E parlo parlo parlo – come un fiume in piena.

Buio.

Rumore crosciante di pioggia.

Sullo schermo, immagini di terra intrisa d’acqua, rigagnoli, zolle, radici, gocce su foglie, cascatelle, pozzanghere, fango. Una diga.

2. Caronte

Penombra livida della sera di novembre. Un fosco riverbero. Aperta campagna del Valdarno superiore. Pioggia battente. L’attore interpreta adesso un uomo sui sessant’anni, robusto, ben piantato. È Raffaello Danti, il titolare dell’osteria-tabaccheria “Arno” di Levane, in provincia d’Arezzo. Sebbene riparato sotto una tettoia, tiene aperto un ombrello verde incerato, da contadino.

RAFFAELLO   Senti là come piove! Maremma cane… Uno scroscio continuo, diobòno, me lo sento ni’ ccapo fisso da tre giorni. (Sbotta) E te aimmeno, che tu ll’abbozzi, di chiaccherare, Cianferoni? Maremma cane! Pare ’tu ppìgoli! (Ne fa la parodia con voce nasale, petulante) Pipipì pipipì. Proprio qui all’orecchio!

(Spazientito) Eeeeeh… Lo so. E’ ciò paura anch’io, Mario, o icché tu ccredi? Più di tutti voartri mess’assieme, ciò paura. Maremma cane. Guarda te, e giùdia un poino te, indoll’è ubicata, diobòno, la mi’ osteria-tabaccheria!

Propio sotto la diga, l’è ubicata.

E appìcciàta all’osteria-tabaccheria, ciò ubicata, vero, anche la mi’ casa, co’ moglie e figlioli, e nipoti piccini annessi e connessi eccetra eccetra.

E’ un ti dico attro, Cianferoni. Lasciamo sta’ la sòcera, che quella se ’ll’affoga gliè tanto di guadagnato, gliè. L’è diecianni’ ce l’ho ubicata in casa. Un po’ d’acqua in bocca la ’un gli farebbe mica male, alla Teresa, aimmeno la si cheta una vorta tanto, anche lei. E una vorta pe’ttutte.

(Scuote la testa) Osteria-tabaccheria “Arno”, preciso. Perché, ’un ti garba? Occome ’ll’avevo a chiamare? Mississippi? Mz! Va ’ia va ’ia. Ommagari, osteria-tabaccheria “Gange”, si ’apisce. Osteria Gange. Brao Cianferoni. (Scuote la testa) Tu’sse’poco Gange!

(Si sporge per guardare il cielo, sporge il labbro inferiore, fa un gesto con la mano) 

Badalà come la viene! Pare pagato accòttimo, pare. E’ un l’abbozza mica, eh? Come si dice? Piove che dio la manda. (Riflette, rapido, e porta l’indice al naso)

E Dio… bada bene Cianferoni: Dio costassù, cià le su’ brave responsabilità, Mario, riòrdatene.

Sempre. Le responsabilità ultime l’arrivano sempre, fin costassù…

Da ’retta a Raffaello.

Ma te, lo sai te perché noi toscani si bestemmia così tanto, e di gusto? Pe’vvia che ci s’ha i’ ssenso della responsabilità. E spirito critico. Pe’ccodesto, le ’un possan esse’ considerate bestemmie. No. Le sono, come dire? … delle critiche un po’ aspre, via. Ma ‘ta attento: se anche Dio ci mette di’ ssuo, poi, noi, e ’ci si mette di’ nnostro, caro Cianferoni.

Presempio, a me, digià, codesta diga, la ’un mi sta mica bene a mmano.

Noe. Preciso. La m’è sempre sembrata un cazzotto ’n un occhio. Un ti pare? O ’un si stava un poino meglio quando la ’un c’era? Bah. Come l’atostrada di’sSole, laggiù ’n fondo. Co’ i’ ssu’ ponticino fatto a bbischero, come lo chiamano? I’ vviadotto. Sì. E i’vviapisolo. Ora s’intitola le vie a’ sette nani! Via Brontolo, via Dotto… Via Fanfani da i’ggoverno, piuttosto. Ppoh! Atostrada di’sSole! Ber mi’sole, davvero. Da quando gli han fatto l’atostrada, l’è sparito. Seondo me, veniva più volentieri colla Cassia. O colla via Aretina. Atostrada di’sSole. O bbravi! E diga! Riborda. Propio lì a ppicco, ubicata sulla  mi’osteria-tabaccheria. Noe. Mz! E ’un mi garba punto. La mi pare una spada di Patroclo. Occome diascolo si dice, ’un me ne rammento. Come si dice? Empedocle? Temistocle? Una spada di  Temistocle. Brao Cianferoni, si vede tu’ ha’ fatto le medie da’ preti.

Bada là. Gli è piena, la diga, la pare un catino riòlmo, icché gli aspettano ad aprilla? Che succeda anche qui come ni’ vVajionte?

Sì, lassù ’n’alta Italia, Cianferoni, t’ha’ capito, via.

Anche qui a Lèvane e’ ci sarà drento, maremma ’ane, du’ quintilioni d’ettolitri d’acqua…

Che schifo. Che schifo l’acqua, maremma ’ane. Ma icché l’aspettano? O ’un lo dice i’ nnome stesso? Lèvane! Basta la parola, come la purga. Lèvane. O llèvane un poina, no? di codest’acquaccia! àprile, codeste paratìe, icché t’aspetti, ènelle? Alle cinque, sì, gliè sonata la sirena, e n’hanno fatta escire un pisciolìo, ma tirati su le ciocce!

Intanto, seondo me, da’ retta a un bischero: bisognava che l’avessero di già aperta alle due. No alle cinque. Eppoi, ’ta all’unto! N’hanno fatta escire un’idea. Una perifrasi. E ’fo più acqua io a i’ llìcitte, Cianferoni, quando mi sento pigiare la prostata sulla vescica, di quant’acqua gli abbiano fatto esci’ loro dell’ènelle dalla diga! Eeeh! Ma l’ènelle, si sa, più ce n’è, d’acqua ni’ ccatino, e più e’ sono contenti, que’ bischeri. Ci devan fare l’energia idroelettrica, loro! (Scuote la testa) Poerannoi. E’ s’è fatto una bella chiappa, vai, a ffa’ la nazionalizzazione, da’ retta a un… Millecinquecento migliardi, gli s’è dato, alla Selte Valdarno e a tutti quegli attri ladroni ’he c’era prima! Eh! Io, palle, sull’energia che vien dall’acqua, e ’ciò sempre avuto de’ seri dubbi. Delle grosse perpressità! Macché acqua! Toh! I’vvino l’è poino meglio! Pe’ qquanto mi riguarda, io, l’energia, l’ho sempre pigliata da i’vvino. Chiedilo alla mi’ moglie. Non pe’ nnulla e’ mi’ figlioli e’ si chiamano: Ruffino, Putto, Gallonero e Vernaccia. Chissà perché, i’pprete ’un me l’ha voluti battezzare. Meglio, però! Così ’un me l’ha annacquati. Nonnò. A me l’acqua la ’un mi garba nè poo nè punto, Cianferoni. Da’ retta a un bischero. E’ lo so, lo so, vai, mi chiamano “Mani sudice”. E pe’ un oste, via: ’unn’è i’mmassimo, diciamolo. Speciarmente quando mi pòle capitare d’infilare i’ppollice nella ribollita. Pòle capitare. Pòle, no? Ma l’acqua la ’un mi garba punto. E costassù, Cianferoni, ce n’è uno spicinìo d’ettolitri. Se non l’ènelle, aimmeno i’ggenio civile potea pensacci lui, no, a ordinà d’aprire le paratìe? A me mi pare poo genio, e anche poo civile…

Tira su col naso, si sporge, guarda il cielo al di là della tettoia.

O quanto ’ll’è che piove, Cianferoni? Vabbe’ che glie’ novembre, anche se fa un cardo boia. “Piovoso”, lo chiamonno quand’e’ ci fu la Rivoluzione francese. Piovoso. L’ho letto sulla “Settimana Eminnistica”. Ora, Piovoso, va bene. Ma qui, da’ retta: c’è l’esagero...

Suono di sirena.

Aspetta, t’ha’ sentito?

No?! Allora tu sse’ sordo.

La sirena. L’ha sonato un’artra vorta! Cianferoni! L’aprano le paratìe. Cianferoni. Mario.

Sbarra gli occhi e resta a bocca aperta, inorridito. Quello che vede davanti a sé gli toglie il respiro, e la parola. Apre e chiude la bocca senza emettere suono, un paio di volte, poi, sconvolto dal terrore, balbetta.

Oddìo! Ma… Madonna su i’cciuco, Cianferoni, badalà che roba. ’Unn’è mica possibile!

Scuote la testa, incredulo, sempre con gli occhi sbarrati.

Gli è una muraglia! Gliè una montagna, ’unn’è possibile, Cianferoni, gli è un incubo! Senti te che rombo, Cianferoni! Gli è l’Apoalisse! No, no! Chè! Io corro ma a casa. Va’ te colle donne. Vai. Porta via le donne, e e’ figlioli. E anche ’cuniglioli, toh! se ti riesce!

No, io ’un posso veni’ via. No. Resto qui, colla mi’ casa, colla mi’ roba. E ’un la lascio, dio bòno, resto nella mi’osteria-tabaccheria, lì, indoll’è ubicata, tiro giù la saracinesca, Cianferoni, dietro ci trascino e’ mobili più pesanti, fo una specie di barriàta, t’ha’ inteso? Sargo su, a i’ ppiano di sopra, mi metto una coperta addosso, e aspetto, io, da me solo.

Perché e’ contadini, Cianferoni, e’ mi chiamano “Mani sudice”, ma giù in paese quelli più ’struiti, lo sai te come mi chiamano?

Sì. Sai una sega te, Mario, come mi chiamano...

Eppoi, chi mi sente più icché dico, oramai, con questo rombo d’acqua, questo bailamme, questo fracasso orrendo, tremendo, di quintilioni d’ettolitri d’acqua malidetta, accident’alle dighe, alla pioggia, a novembre, e all’Arno!

Badalà come la corre, l’arrìa fin sotto le finestre! Come la schiuma! L’argine e’ pare scoppiato. E gli alberi, madonna bòna! Bada te come sàrtan sull’onde, paian crocifissi tutti ritorti! Madonnina, gli è la fine di’mmondo! Eeeh, ’un c’è cristi, pallino, tutta quest’acqua, giù a Figlìne, a Incisa, la farà de’ danni da ’unn’immaginassi nemmeno. (quasi uscendo dal personaggio, e profetizzando il futuro) Poi vedrai diranno di no. Che l’apertura della diga la ’un c’entra nulla, che si volea sortanto i’ccapro espiatorio… Che le cause di’ ddisastro sono state ben altre, e l’apertura di Levane e La Penna l’ha arzato i’livello di’ffiume sortanto di po’i centimetri… (rientra nel personaggio e nel tempo fittizio) Ma se tanto mi dà tanto, lo sai icché ti dico, Mario? Stanotte, o domattina, quando tutta quest’acqua gli arrìa a Firenze, in quell’imbuto di case e di strade, dico: a Firenze, l’Arno strarìpa.

Com’è ver’Iddio. Straripa. Come l’è vero che mi chiamano Caronte, Cianferoni.

Sì.

Ma sa’ una sega te, poero strullo – chi ’ll’era Caronte…

Buio.

Rumore crosciante, assordante, che sfuma in un altro rumore più regolare, ma insistente, di pioggia battente, attutita dai muri spessi di una casa borghese.

3. Clotilde

Una donna di mezza età, distesa nel letto matrimoniale (è la vecchia rete, col materasso sporco). Luce soffusa della abat-jour sui comodini. Fuori della camera, nella notte, si ode il rumore attutito della pioggia crosciante.

CLOTILDE   Ovvìa. E ’un me lo riòrdo, Duilio. Oioi. Come tu ssei. (Stronfia) No, aspetta. O ’unn’era… qui’ vvecchio demonio… cogli occhi alla brace…? Sì, nella “Divina Commedia” di Dante… quello che… che traghetta e’ dannati da una sponda all’altra di’ccoso, lì, i’ffiume dell’Inferno, ’ome si chiama, via… Come alla Nave di Rovezzano…

E ccerto che nell’Inferno c’è un fiume, va’! Ci s’ha a Firenze, ce l’hanno perfino a Pont’a Ema, un fiume: piccino ma ce l’hanno: vòi te che ’un ce l’abbiano all’Inferno? Ti torna?

Si batte una pacca sul ginocchio.

Caronte.

Ecco come si chiamva. I’ ddemonio. Caronte, cogli occhi alla brace.

Ora però basta, con codesti indovinelli e parole incrociate, via, Duilino, da’ retta alla tu’ Clotilde, una volta tanto, ’ll’è guasi l’una di notte… Vabbe’ che domani gli è festa, ma a me codesta luce accesa la mi fa venire la micragna a i’ccervello, e poi i’ffatto tu faccia le parole incrociate alletto, te l’ho bell’e ddetto un miliardesimo di vòrte, e’ mi dà di morta ma di morta…

Squillo di telefono, il classico trillo “ruvido” e ansiogeno degli anni Sessanta.

I’ ttelefono? T’ha sentito, Duilio? I’ ttelefono, siùro. A ssonare così, e ’un sarà mica i’ffrigorifero!  (Agitata) Oioi poerini! O icché sarà successo, Duilio? Va’ te a rispondere, che a me mi trema’ porpacci. (piccata) E’ porpacci, sì. A me, quando mi piglia le chèche, e ’ mi tremano ’ porpacci… Sarò padrona? Oioi. Tu lo sai, son sensitiva. Capace ’ll’è morta la tu’ mamma. Eh, tu vedrai, la mia no di siuro, ’ll’è mmorta sei anni fa. Vai, vai!

Fra sé, mentre il marito è andato a rispondere al telefono in un’altra stanza.

Poeradonna. Ti parea! Domani gli è i’ quattro di novembre, si potea sta’ tutti tranquillini, no? che gliè festa. Ma figùrati se quella la ’un ti fa i’ddispetto di morire propio stanotte. E senti là come la viene! ’Unne smette più. Mmmhh! Te l’immagini te che giornatina, domani… Tutti vestìti di nero, colle galosce, co’ questa pioggia! Mmmhh! Da mmungessi e’ ginocchi, guarda!

Al marito, che rientra in camera.

Allora, Duilio? O che faccia tu ffai? Tu ti devi fa’ ma coraggio. Ormai la ciaveva un’età, anche lei… La ’un sarà mica una “dipartita prematura”, a novantasett’anni, ’un l’avrà mica strozzata la balia nella culla, io ci metterei una firma grossa come l’insegna di’cCinzano’ c’è in piazza della Repubblica. E poi, guarda: piuttosto che vedella spengessi appoo appoo come una candelina, poeradonna… e, giorno dopo giorno, vedella anda’ via così… a ruba!

Si interrompe, vacillando; sbatte le palpebre due o tre volte.

Occome sarebb’ addire: “chètati e vèstiti”? E gli è ll’una di notte, Duilino, ’un so se mi spiego, senti te come piove, ormai poeradonna la ’unne scappa mica, e’ ci s’anderà domani, dalla bonanima della tu’…

Spiazzata. Vacilla di nuovo.

Ah, la ’unn’è morta – ancora? E allora chi gli era a i’ ttelefono?

Chie?

I’ cCesaroni?!?

La guardia giurata?

Si spaventa davvero.

Oioi mammina, ma allora… O poerini, gli hanno svaligiato la bottega!

Vabbene, mi cheto mi cheto. Ma mi vòi dire icché gli è successo?

L’Arno?

Gliè gonfio?

Ma m’importa assai, Duilino… Se gli è gonfio, poi si sgonfia.

Come sarebbe a dire, “staolta no”?

Va bene va bene, mi vesto. Ma icché si va a fare?

Icché?! A portà via la roba più preziosa?! Ma te tu…

E come, Duilio? E ’tummi pari strullo…

Va bene va bene, piglio le valigie. Così, vorrà dire si svaligia noi, i’nnegozio. (piccata) Ho detto pe’ffare una battuta, ’gnorante! Quante, due?

Icché?? Sei o sette? Ma te tu se’ tutto…

Va bene. Mi cheto.

Buio. Immagini frenetiche e suggestive sullo schermo. La donna indossa un impermeabile sulla veste da camera. Luce su di lei, che entra nell’abitacolo di un’automobile (la vecchia sedia sfondata).

Ovvìa, aimmeno vorrà dire si rinnova i’ mmilleccento nòvo. Mmh. Badalà ’ome la viene… Piove par d’essere sotto la ’ascata di’ Nniagara, in Affrica.

’Unn’è in Affrica, i’ nNiagara?

O qquesta?

In Amèria?!?

’Ie! O da quando?

Ma so assai, io, Duilio. Tu’ sse’ te, l’esperto di parole incrociate. A me mi parea un nome affriàno. Niagara. Buana. Tucùl. Bah. Comunque, ’un sarà in Affrica, però, sent’a mme: fa cardo. Troppo cardo, via! pe’nnovembre. Mm?! I casi son due. O sono ’n menopausa io, o ’ll’è un ciclone tropiàle lui. Giusto. Sempre di ciclo si tratta, t’ha’ ragione…

Ma…! Ma icché succede, Duilio? Ma tu ll’ha’ visto, ’un si vede nulla?

Icché?

(Lo imita, in parodia) “Se ’un si vede nulla, come fo a ave’ visto?”

’Un lo fare lo spiritoso, Duilio, t’ha’ capito benissimo. E’ tergicristalli pare ’un ce la fàccin più a buttalla dalle parti, l’acqua. Madonnina santa. Par d’essere dentro a un sottomarino. Ora sta’ avvedere passa di là da i’ ffinestrino un branco di tonni. Ma ché tucci vedi, Duilio, o tuvva’ alla ceca?

Tuvva’ alla ceca.

E’ mi pareva, infatti. Benino, va! Si sta lustri. Meno male ’un c’è guasi nessuno pelle strade, sennò si facea a boccette. Ci credo. ’Un sono mica bischeri come nnoi, a anda’ aggiro ’n una notte come questa. O quelli icché sono? Che tu hai visto, Duilio? Da’ tombini escano fòri degli spruzzi alti sei metri, come in qui ’ pparco ameriàno. I geiser-s. L’è ameriàno. Coll’esse in fondo. Geiser-s. O poerini, che roba! De’ getti d’acqua di fogna l’ arrivano a’ primi piani… Senti te che puzzo. A me, mi pa’ di sognare, eh….

Ecco, férmati all’angolo, sì, lì all’angolo di’pponte, bravo.

O ’unn’è i’cCesaroni, codesto costaggiù? Sie, va ’! Gli è zuppo come un savoiardo, poeromo.

Scendo, scendo...

Madonna, Duilio! Bada là! Ocché tu ’ll’ha visto l’Arno, come ’ll’è! Gli è più alto di’llungarno, e fa raso alla spalletta! O se gli arriva all’arcata di’ pponte! O poerini! Staorta ce lo butta giù, colle botteghe e tutto! O Duilio!

No, te “oduìlio un par di zeri” tullo dici alla tu’mamma! E’ sono agitata, sì, sono! Ma icché vogliano, que’ giovinastri, co’ quelle cinquecento ferme all’imbocco di Por Santa Maria! Cianno gli abbaglianti accesi, e’ paiano de’ gattacci accoacciàti! Icché gli urlano! Dèan esse’ comunisti, sai, io ciò paura. Cesaroni, la ciaiuti lei, la tiri fòri la pistola! Aiuto! E’ ci corran dietro! L’ha sentito icché gli urlano? “Forza, forza, che gliè la ’orta bòna, fra dieci menuti crolla tutto, gli è meglio vulli diate a noialtri, tutti codesti gioielli!”

Urla contro i “giovinastri”.

Cattivi, vu’ ssiete! Ciattroni!

Duilio! Duilio, indo’ tu sei! Ah, ecco, gli è bell’e costassù alla porta di’nnegozio, guarda. Stasera e’ fila via ’ pare unto. S’è dimentiato anche dell’artrosi. Mh! Tanto ’un ce l’ha mica. Fa pe’ffassi compatire…

Apri, Duilio, icché t’aspetti, di fa’ lla muffa, sotto quest’acquata? Come, ’un s’apre? E ’si sarà arrugginita la serratura, si sarà. Sbrigati, che c’è anche que’ giovanottacci mi vengan dietro… Noe, bischero, e ’un mi pare d’esse’ tornata giovane. Vòle fare i ’ssempàtio, lui! … Ovvìa, finalmente. Entra dentro, son tutta bagnata… O llascia stare ’ doppi sensi! Strullo.

I rumori diventano all’improvviso attutiti, ma sale come un brontolìo di fondo, e il tintinnare di fragili oggetti che vibrano. La donna è entrata nella bottega. Sbarra gli occhi, impaurita.

O Duilio.

O Duilio, tullo senti? Icché ’ll’è? I’ ttremoto? I’ ppavimento e’ trema tutto. C’è i’ ffiume gonfio propio sotto i’ ppiancìto. Allora, l’è un fiumemoto!

Che esiste? I’ffiumemoto, dico...

Rumori sordi, ma violenti. Trasalisce.

O poerini! O icché son codesti stonfi? Come: “gli alberi”? Ocché tu se’ grullo? Che c’è gli alberi ni’ mezz’a i’ ffiume, ora? Oioi, Madonna, Duilio… T’ha’ ragione! Fòri dalla finestra, gli è passato un albero. Messo pe’ i’llungo, si ’apisce, mica pe’ ddritto. Tu ffa’ de’ discorsi, anche te… Oioi. Sbrighiamoci, pena poco, o s’affoga tutti quanti. Piglia le robe più preziose, gli ori, le pariur co’ rubini, i’ddiademino quello a spolvero, colle perline… Sbrighiamoci, Duilio, tutto ’un si pòle pigliare, via. No, ’un si pòle, ’un si pòle. Mi piange i’ ccòre, ma ’un si pòle, tutto. (Le luci si spengono) Ecco. Ora gli è anche saltata l’elettricità! Pe’ ffortuna su i’pponte c’è tutte quell’altre luci, icché le sono? (Sbircia) Ah, devan essere e’ fari delle macchine di quell’altri gioiellieri. T’ha visto? C’è la Mimmi, Baldino e la su’ moglie… Tutti quelli della Società Gioiellieri Canottieri: Neri, Vieri, Geri, Ranieri… l’Altroieri. I’ gGiangi colla Noemi. Sì, vengo, vengo… (Un forte rumore, la donna perde l’equilibrio) Madonna, t’ha’ sentito che botto. Trema tutto! (Sbircia alla finestra) C’è un tronco gigantesco, Duilio, che sbatte contro la parete di’nnegozio, ora lo sfonda! Duilio! ’Unn’è sortanto un tronco, c’è appicciàta una Giulietta Sprinte. Una macchina! Occome gliavrà fatto?

Andiamo via, Duilio! ’Un voglio morire affogata, spiacciàta da un albero, e messa sotto da una Giulietta Sprinte tutt’in una vòrta! I’ ttroppo stroppia! Anc’a rraccontallo, da vvedovo, ’un ti ci crederebbe mia nessuno! Dice incastrato sotto i’pponte c’è un càmio! Ti rendi ’onto? Un càmio! Pena poco! T’ha’ sentito e ’carabinieri: andate via, gli han detto, chi resta lo fa a propio rischio e perìolo, a propio rischio e perìolo…

O maresciallo… brigadiere, tenente, insomma icché vu ssiete… Ma perché ’ un vunn’ andate a avvertire tutta quell’altra gente, nelle case, perché ’un vunn’ andate a dare l’allarme coll’altoparlante, aggiro pella città? Qui fra due o tre ore a i’ mmassimo, e’ si finisce tutti sott’acqua, o ’un lo vedete? E quegli altri dorman tutti tranquilli, come se nulla fosse. O ccome sarebbe a dire che ’un vu’cciavete avuto l’ordine? Qui va sott’acqua Firenze, che ordine vu’ ddovete aspettare? Soltanto noi, vu’ avete avvertito?! A ppensacci bene, via, siamo giusti: ’un ci si sarà mica soltanto noi orafi, a Firenze… no?

Io e i’mmi’marito, presempio, e’ ci s’ha anche tanti clienti

Vero, Duilio?

Eh, se ’un c’era i’cCesaroni, che lavora la notte…

Arraffa gli ultimi gioielli. Scappa via. Buio.

4. Carlo

Luce di neon, spettrale. L’attore adesso interpreta un uomo sui cinquant’anni. Seduto su una sedia a gambe divaricate, davanti a una scrivania dimessa, col piano di fòrmica, quasi un banco di scuola; parla al telefono, un po’ in affanno.

CARLO   Perché a me di laora’ la notte, e’ mi garberebbe anche, che l’ha’ inteso, dotto’ Nencini? La lo scriva. ’Unn’è mia normale, lo so. Ma io son fatto ’osì. Ormai son cinqu’anni, cinqu’anni! che son passao sorvegliante dell’impianti dell’Acquedotto all’Anconella. Davvero! Gli è un laoro di responsabilità, davvero. E i’tturno di notte e’ mi capita spesso. Allora lo sa icché fo? E’ mi porto un tèrmosse di ’affè, che mi resta guasi cardo. Un po’ di pane ’olla finocchiona. Una birra splughen, perché come dice i’rRamalli, che l’ha sposato una di Stoccarda, “tedesca gliè è più bbòna, c’è poo da ffa’”… (Ride, nervosamente) E ppoi e ’ mi porto anche una ventina di sigarette, pe’ i’vvizio. Nazionali co’ i’ ffiltro. O sennò le Muratti, comprate a stecche a Careggi, sa? da’ greci, di ’ontrabbando. Questo però, la ’un lo scriva su i’ggiornale, eh? Anche se de’ greci di via da Tolentino lo sanno tutti, a Firenze. Ci va perfino i’mmaresciallo Rapetti della finanza, sa? quello co’ i’ppizzetto saleppepe, ’unn’è mia nor… Piuttosto, che ’ll’ ha scritto bene, i’ mmi’ nome, vero? Maggiorelli Carlo. Co’ ddue gi. E ’ci tengo. Io sto su a Pozzolatico sulla ’ollina. Sì. Scendo all’otto di sera, colla Sita. Anzi, all’otto devo esse’ di già qui all’Acquedotto. Da Pozzolatico sulla collina parto alle sette, sette e un quarto. (Sorride, il suo sguardo si perde nel ricordo) D’estate, a quell’ora gli è ancora chiaro. Mi garba. Vedo i’ ttramonto sulle colline. Le nuvole strasciàte, che e’ mi paian fatte di panna e fragola. E l’arancia di’ ssole, che la va giù, dietr’ a i’mMontalbano. Madonnina santa! Ma che sarà poo bello, i’ssole che tramonta? Occome l’avrà fatto a inventallo, domineddio? Dopo mezzo seolo che lo vedo, so’nNencini, e ’un mi ci sono ancora avvezzo. Sì, gli è vero. Dentro di me, sono un po’ poeta. Lo so, ’un son mia normale. E invece d’inverno, quando parto da Pozzolatico sulla collina, gli è di già buio da un pezzo. Mentre scendo colla Sita, vedo tutte le lucine di Firenze che brillano, nella vallata, e mi piglia uno struggimento a i’ ccòre…

(Si rabbuia, e si fa ansioso) Oggi, però, gli era di già buio alle tre di’ppomeriggio. E lo sa icché? Bravo. ’Unn’è mia normale – una ’osa di’ ggenere. No. Mai visto un cielo così buio e nero, a quell’ora. E mai visto pioere così tanto e così forte. Son’ arrivato qui a Villamagna, all’Acquedotto, pe’ffare i’tturno di notte, e mi girava anche un bel po’ gli zibidei, scusi i’ttermine “zibidei”, perché laorare la notte va bene, ma propio pella vigilia della festa delle forze armate, via! Gli è un ber giramento di scatole, diciamo (pe’un dire: zibidei). Anche voi costì alla Nazione, vedo, stanotte, vu’llavorate, poeri cristi… Ho visto in piazza Beccaria vu’ avete messo su un bello stabilimento nòvo, tutto moderno. Bravi. Certo, ra’azzi, (ride nervosamente) gli è mai possibile che pe’ i’quattro novembre e’ piova sempre? Poh! Gliè la festa più bagnata ’ci s’abbia ’n Italia. Tutti que’ triolòri mézzi… mettano una trischtezza, ra’azzi… E gli atoblindi lustri di pioggia…!? Mahonna ra’azzi..! Sarà che si festeggia la vittoria. E noi italiani si vince così di rado, che quand’ e’ si vince cambia i’ttempo, e si mett’a ppioere. Eh?

(Incupito) E ’nsomma, appena arrivato da Pozzolatico sulla collina, gliò visto che di là dall’albereta i’ffiume gli era guasi apparo, raso raso, passava lesto esagerato, parea un fiume da Oggi le comiche di Ridolini, e nella ’orrente portàa tronchi, rami secchi, bidoni, assi di legno, perfino una bestia morta. E’ mi son detto: “Carlo: ’unn’è mia normale!” Ciò cinquantadu’ anni, e un fiume così brutto giuro ’un l’ho ma’ visto. Mai. Lo sapeva, dotto’ Nencini, che dopo la mezzanotte, a Villamagna e Gavinana, c’era di già delle cantine e de’ seminterrati allagati, lo sapea? M’ha telefonato i’pPampaloni, Pampaloni Oreste, che sta in via Niccolò da Uzzano, e m’ha detto: “scappa bischero, che stanotte s’affoga!”. Però ridea, qui’ bbischero. ’Unn’è mia normale, anche lui. Però gliè brao, eh? Poo dopo, gliè arriato ’n Acquedotto, co’ un’artra diecina d’operai. All’una, s’è cominciato a staccare e’ motori. E mezz’ora fa, poco prima la mi telefonasse lei dalla Nazione, gliero così preoccupato pell’Arno, che ho telefonato io, in piena notte, alla mi’ sorella Ada, che la sta a Incisa. Gli era sveglia anche lei, tutta concitata, e la m’ha detto: «Carlo, per me stai tranquillo, che si sta su i’ppoggio. Prima che l’acqua l’arrivi qui, e’ si vede passare la barca di Noè colle giraffe e gli ippopotami. Siùro. Ma giù, Carlo, giù gliè l’Apoalisse! Verso Figline c’è du’metri d’acqua. Nelle ’ampagne e’ contadini sono scappati su’ tetti, c’è beschie morte, mucche, peore dappertutto, ’unn’è mia normale! Se tutta quest’acqua l’arrìa a fFirenze, tu tti devi preoccupare ma’ pe’ tte, scappa a casa, bischero! Vai su a Pozzolatico sulla collina dalla tu’moglie!».

(Riflette, torcendosi le mani, lo sguardo fugge frenetico, come quello di un animale braccato)

A Pozzolatico. La dice bene, l’Ada…

(Sbotta, agitato)

Ma io come gli ho a ffare? Eh? La mi dica lei, dotto’ nNencini.

Prima di tutto, io e ’un credo che se ci fosse periolo vero pe’ una città di mezzo milione d’abitanti, e ’un ciavrebbero avvertito pe’ttempo.

No?

Lei, che la scrive su’ giornali, icché la dice? ’Un sarebbe mia normale…

No.

Eppoi, quand’anche l’arriasse l’alluvione, quand’anche l’arriasse… e io ciò paura che la stia arriando pe’ddavvero… quand’anche l’arriasse… (quasi gridando, con le lacrime agli occhi) e ’un posso mia lascia’ l’impianti ’ncustoditi! Noe! ’Un sarebbbe mia… Cioè. Ciò un incarico di responsabilità, io! Domani ’un s’aesse a ddire… Vero!

(Si placa)

Piuttosto, moio qui. A i’mmi’ posto di laoro. Mangiare, ho di già bell’e mangiato… (i’ ppanino colla finocchiona, bravo.). Ho bevuto la splughen. Tedesca. Ho preso anche i’ccaffe’, guasi cardo. E ora mi fumo una sigaretta. Di quelle de’ greci.

Se deo morire, e ’ moio satollo.

(Ha un triste sorriso nervoso, intriso di presagi)

Capace, poi, fra un paio di giorni, passato tutto, mi ritroano ’n un cunicolo pieno di fango, e dicano: bravo, Maggiorelli, lo vedi? l’è stato un eroe, i’pprimo eroe dell’alluvione di Firenze.

Capace la mi scrive propio lei, un articolo su i’ggiornale.

Mah.

Ora però la mi scusi. Devo finire di tira’ su una protezione all’impianto di’ccoso, là. I’ccoso pe’ ccosare, sì! E’ mi ci ’òle più tempo a spiegallo che a fallo. ’Un posso più restare, a i’ttelefono, co’ llei, e mi dispiace. Anche perché stasera… ’un lo so. Ciavrei una gran voglia d’unne smettere più, di chiaccherare con quarcuno.

Bonanotte, sor Nencini...

Ah, sor Nencini!

Scusi tanto. Ma che ll’ha scritto bene, i’ mi’nome, vero?

Ci tengo.

Maggiorelli Carlo.

Maggiorelli,

Con due gi.

Riattacca. Buio. Cresce il rumore delle macchine, mischiato al crosciare della pioggia, fino al frastuono…

5. Sospiro

La luce obliqua di una torcia elettrica illumina una giovane donna, sui trent’anni, che tiene in mano, con fatica, una pesante pila di lenzuola e federe di cuscino. E’ Emma Lanzini, dei Lanzini commercianti di stoffe, tessuti e corredi. Bruttina, gia un po’ rassegnata allo zitellaggio, è soprannominata “Sospiro”, per la tendenza a sospirare e rammaricarsi spesso, però in fondo è determinata e virile, e si sente l’erede designata dell’impresa. In piena notte è accorsa nel negozio in piazza Duomo insieme al padre, per mettere in salvo dal sempre più probabile allagamento le stoffe più preziose, spostandole al piano di sopra. Attutito, ma presente, il crosciare insistente della pioggia.

EMMA   (sospira) E ’sono l’iniziali ricamate di Giorgiana Gerini, no? O’n’lo vedi, qui, babbo? Due gi. Doppia gi. La marchesa Gerini, babbo, via, ’un te ne rammenti? Quella brutta, antepatica, ’mbecille. Vecchiotta. Un po’ gobba. Senza denti. Sciancata. La si sposa i’ vventisei, su a san Miniato.

Occome, chi la piglia? La cià una paccata di migliardi, se gliero un òmo la pigliao ma io. (Sospira) Vabbe’, che come dici te, i’ ttu’ figliolo maschio son io. Egidio gliè bòno sortanto a sonare i’vviolino a i’cComunale, e rìzzati. Nemmeno fra’ primi violini. Fra’ seondi. Mm! E ringrazia Iddio che e’ terzi ’un ci sono, sennò l’era finito fra’ terzi, colla voglia di laorare si ritrova. Così difatti stanotte lui gliè ’n turnè a i’ cCairo, tutto di profilo all’egiziana – e a fassi i’ppaniere ni’ nnegozio, co’ rrispetto parlando, in piena notte, e co’ i’rrischio d’un alluvione fra capo e collo, chi c’è? L’Emmina, si ’apisce. L’omo di casa. La zitellona. Soprannominata “Sospiro”, poi ’un si sa nemmeno bene i’ pperché…

Sospira a lungo.

Comunque, babbo, ’un c’è cristi: ‘ll’è roba bòna, anche questa, bisogna portalla via su in tutti ’modi. Lo so che le vetrine le son di già piene della roba ’ci s’è portato su dagli scaffali. Vorrà dire che questa la si mette sugli scalini che portano a i’pprimo piano, no? E anche tutti que’ rotoli di cachemire che s’è comprato a Londra orellanno. Sarà sempre meglio che lascialli negli scantinati, no? Laggiù vanno a mollo siùri, qui sugli scalini no.

Penso – di no.

O quanto ancora glià a ssalire, l’acqua? (Sospira) No, babbo. Qui, scusa tanto ma te tu sbagli. Pe’ ssalire, la sale. Magari no come in via Quintino Sella, dalla zia Giovanna. Qui in centro, ’un doverebbe arrivare così in alto. ’Un credo. Magari poi anche la zia l’ha esagerato, vero, a sali’ su i’ttetto co’ ttutta la famiglia. Gli è sempre stata un’esagerata. Sennò la ’un ciavrebbe avuto tre mariti e otto figlioli. Più due aborti. Esagerata! Ma la su’ casa l’è a un piano solo, che ’un te ne rammenti? E e’ pompieri li volevano fa’ sgomberare. Pe’ sicurezza. Così, lei e Renatino gli han preferito pigliare baracca e burattini, coperte, incerati e ombrelli, e sali’ su i’ttetto, con tutta la prole a i’sseguito. Te l’immagini, bellini? Mi pa’ di vedelli, guarda. Mh. Sembreranno Mary Poppins e lo spazzacamino ni’ffirme di Walt Disney. (Canticchia) Cam caminì, cam caminì…! (Sospira) Poera gente. Io, guarda, li piglierei anche da noi, in via Masaccio. Ma otto figlioli indoe’ si mettano? Via! ’Un ci s’ha mica l’Istituto dell’Innocenti.

Uno, quando mette a i’mmondo tutti que’ figlioli, doverebbe anche fare un attimo mente locale, e pensare a come sistemalli poi negli scaffali. Pe’ usare una metafora. (Sospira)

Comunque, l’ha fatto bene a telefonacci. Anche se veni’ svegliati da uno squillo alle quattro di notte c’è da pigliare un coccolone. Difatti, a te, t’ho dovuto fare i’mmassaggio cardiaco, vero.

Ma che t’ha’ visto, in via Cerretani? Gliè un po’ più basso di qui, e c’è di già venti centimetri d’acqua! Da indove si sta noi, ’un ci si potea davvero immaginare una roba di’ggenere…

Tieni bene la pila, babbino, sennò ’un ci vedo un prospero. Eh, la luce l’è andata via, tu llo sai: co’ i’ttemporale, la lo fa… (Sospira)

Se ppenso che ieri sera son’ andata a i’fFiamma, tutta tranquillina, coll’Elisabetta, a vedere I combattenti della notte! ’Un si potea certo immaginare…

Lo guarda stupita.

Come: “come ’ll’è?”

O babbino, ocché ti pare i’mmomento di fare l’Anicagis?

Scuote la testa. Sospira.

Comunque, bellino. Ho pianto tanto. Come un vitello. Iersera, ero indecisa fra: (enumera sulle dita) qui’ffilme lì che poi s’è visto. Che notte, ragazzi! a i’mMetropolitan. E Le piacevoli notti a i’fFulgor. Tre titoli che, a aello saputo, e ’mi sarebbero sembrati, come dire? profetici. E anche un po’ portatori di merda, a di’ la verità…

Va bene va bene, babbo: ’un parlo male. D’attronde, se sono l’omo di casa, potrò dire anche quarche parolaccia, no? (di getto) Cazzo fica culo merda. (Sospira, accatasta i rotoli di stoffa) Zitto. T’ha’ sentito? Quella guardia notturna glià detto che l’Arno gliè uscito di già ’n Oltrarno, a Gavinana… Però, laggiù, i’tterreno l’è ppiù basso, no?… Capace che qui, in piazza Dòmo, più che allagare gli scantinati, ’un fa… Cheddici, babbo?

Eh?

Ti pare?

Mah.

Speriamo.

Il croscio della pioggia si intensifica. La donna guarda verso il soffito. Sospira.

Certo. Senti te come la viene… O quanti giorni gli è, che piove, tremila? Pare una vita, e invece son soltanto tre… (Sospira) Seondo me, gliè colpa delli scozzesi, sai? Accident’a lloro, alle su’ sottane a quadri, e alle su’ ’ornamuse. Massì, babbo: gli scozzesi, quelli di’ggemellaggio co’ Edimburgo. E’ son tre giorni che sònano le zampogne pelle strade, briachi, a sfracellare ’ogliomberi a mezza Firenze, e son tre giorni che s’è messo a piòere a quelloddìo. Bah! La sarà anche una coincidenza, ma a me la mi puzza. Co’ rispetto parlando, vero… (Sospira)

Speriamo ’un si faccia i’ggemellaggio anche colla Nuova Orleàns! Sennò capace ci piombano in piazza Signoria pe’ tre settimane seicento negri co’ i’bbanjo, e vien giù i’ddiluvio universale.

(Canticchia) Old main river…E’ passa i’ ffiumeee…

Continua a mugolare il motivo, mentre ammucchia le pile di stoffe. La canzone è soverchiata dal crosciare della pioggia. Buio. Dies Irae di Verdi.

6. Si rompono le acque (Corale).

Sullo schermo, immagini d’epoca. In bianco e nero. L’Arno tracima dalle spallette dei Lungarni, sui ponti. Voce di Richard Burton: «il modo terribile in cui tutto è perduto ormai lo sapete…»

Sul palco, sotto una “fermata obbligatoria” dell’autobus, in periferia, un omino con una coppola impermeabile calcata in testa, i dentoni sporgenti, gli occhiali spessi, si agita nervoso, quasi sconvolto. Ha un clamoroso difetto di pronuncia: in pratica dice le “esse” quasi come se fosse una “effe”.

OMINO DELLA FERMATA DEL 33   Mah. E ’un paffa. A rregola… E ’ fon le fette e venti. Lo dice l’orologio “Revùe”. Là, fu i’ppalo. I’mmio da polfo, e’ potrebbe anche fbagliare. Gliè vecchio. Ma i’rRevùe ’unne fbaglia mai. Gliè bòno. Fvizzero. I’ rRevùe. Marca bòna. Mah. E ’un paffa. I’ ttrentatré, e’ dovea paffare alle fètte e dieci. L’è le fètte e venti paffate. Loro, le fon paffatte. Ma i’ttrentatrè… e ’un paffa. O icché farà fucceffo… Mah! Dovea paffare dieci menuti fa. E invece… ’Un paffa… A rregola… E ’ piove, lo fo. Ma doveffe fermaffi gli atobuffi pe’ du’gocce d’acqua, e fi ftarebbe frefchi… E ’ un paffa… E ’ un paffa…

Toglie coppola e occhiali, imbraccia un fucile.

GIOVIN CACCIATORE   (sbruffone, macho) A i ’ppasso? Ppuh! Giammai. Cacciare a i’ppasso rintanati ni’ccapànno gliè da vigliacchi, vero babbo? Come dice i’ pproverbio? Chi caccia di passo gliè becco e gradasso. A noi la servaggina e ’ci garba ma d’andalla a stanare quando gliè bella riposata appena escita dalla tana. L’uccelli stanchi e ’un ci garbano. (Ride) E ’un garbano nemmeno alle nostre spose, vero babbo? Ah, ah, ah! Gliè un doppiosenso. Uccello stanco sposina in bianco. Vabbe’ che la tua, di sposa, la sarebbe la mi’mamma, ora che ci penso mi fa un po’ effetto… (si riscuote) A che ora ci siamo destati, stamane? Eh? Alle quattro e mezzo, no? Buio come ’nculo a Satana. Pioveva pioveva pioveva. Ma c’importa un beccaccino a noi, vero babbo? Chi ’un caccia colla piova niente quaglia: mangia l’ova! Ci s’è vestiti, s’è preso e’ fucili, le ’artucce, s’è montati sulla Giulia e s’è venuti in campagna…

In campagna, sì…

In campagna.

Improvvisamente smontato, lascia cadere le braccia lungo i fianchi, assume un’aria sbigottita.

Peccato però… che la campagna… la ’un c’era più.

La ’un c’è – più.

No. Ora c’è un lago.

O questa?

Ocché ci toccherà mia di cacciare l’anatre? No, perché a me ’un mi garbano punto. Nemmeno a te, vero babbo?

(Sempre più basito, allarga le braccia)

Un lago.

Moah!

Senti un po’, babbo…

A pensàcci bene… e’ laghi, di solito… ’unn’è che vengano fòri così, da un giorno all’altro.

Dico. O babbo…

Ma ssenti un poìno.

Ma ’unn’avrà mia dato di fòri l’Arno?

Getta il fucile, assume un atteggiamento femminile, un po’ acido.

SIGNORA DELLA ARADIO   Macchettudìci, Amintore. Tu se’ ma te, che tu dà di fòri! La loandina della Nazione la pòle dire icché gli pare, anche questa bischerata che “l’Arno straripa a Firenze”, ma tullo sai e’ giornalisti come sono… Pe’ una pisciata di gatto, scrivano c’è l’alluvione. Dio ci scampi e liberi. Capace gli è escito un po’ d’acqua a Gavinana, gli ha allagato qualche scantinato, tullo sai lo fa guasi tutti gli inverni, laggiù e’ son più bassi di’ffiume. Mm. Peggio pe’lloro. L’aveano a stare a San Gervasio come noi, e ’un gli s’allagava propio nulla. Bischeri. Ho appena sentito la aradio, e di Arni esciti fòri dall’argini ’unn’ha detto propio nulla nessuno. Sì, l’ha detto, la aradio, che “prosegue l’ondata di maltempo sull’Italia centrale”, e che in Toscana “si registrano degli allagamenti”, gli è uscito qualche torrente nelle ’ampagne, ma ’nzomma, via, nulla di trascendentale, d’attronde di novembre e’ sarebbe straordinario se non piovesse, eppoi le notizie più importanti ll’erano che oggi… bah! e ’ gliè la Festa delle Forze Armate…

Parte – mentre l’attore getta la pezzola e indossa un berretto da carabiniere, e sullo schermo scorrono altre immagini di Arno che tracima, mixate a immagini di riviste e parate militari, Aldo Moro, Giuseppe Saragat – la voce registrata, magniloquente e “ufficiale” dello speaker del giornale radio: «Oggi, quattro novembre, si celebra con manifestazioni in tutta Italia la ricorrenza della Vittoria, e la Festa delle Forze Armate. A Roma, all’altare della patria, il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat ha deposto una corona d’alloro sulla tomba del milite ignoto. Nel suo discorso di saluto il presidente del Consiglio Aldo Moro ha ribadito…». La voce sfuma soverchiata dal rombo assordante delle acque in piena.

MARESCIALLO DEI CARABINIERI   (grida, cercando di superare il frastuono) Moro! O morino, Anfuso, madonna su i’cciuco, scappa, diobòno, lascia perdere i’ccàmionne, costì, testa a nnapoletano! O ’un tullo ’edi ’un c’è più nulla da ffare! Icché tu vòi sbarrare, ll’è una marea di fango, ormai ’un vien più in qua nessuno, lo vedi? Scappa, Napoli!

CARABINIERE ANFUSO   (concitato) Maresciallo, scappass’ anca vuje. Maronna mia! Sta cchiù fangh’e’mmerda che acqua, marescia’!

MARESCIALLO DEI CARABINIERI   Badalà che roba, tiratevi addietro, verso i’bBattaglione, guaglio’! Fermatele piuttosto là, le macchine che cercano d’andare avanti, que’ bischeracci! L’è venuto di sopra alle spallette, ’sto natodancane! Qui ll’è tutt’un lago! ’Un c’è guasi più lungarni! Voglio propio vedere indo’ l’anderanno ora, a battere le battone! (Ansimante) Che ora ll’è, Anfuso? Ni’ bbailamme, mi son scordato l’orologio.

CARABINIERE ANFUSO   Pur’io, marescia’! Ci sta quello sul palo, laggiù, che segna le sette e ventisei.

MARESCIALLO DEI CARABINIERI   (con una smorfia amara di ironia) Sempre preciso, te, morino! Ma sse’ siùro d’esse’ napoletano, o se ’ svizzero? Sì? Le sette e ventisei! No venticinque. Ventisei. Le sette e vventisei! Bella festa delle forze armate, sì.

CARABINIERE ANFUSO   E io che m’ero pure lucidato gli stivali! Se l’avrei saputo, chieni e’mmerda li lasciassi…

MARESCIALLO DEI CARABINIERI   (fra sé, pensoso) Le sette e ventisei… Di’ quattro novembre sessantasei. Sai icché? Giòcali a i’llotto, Anfuso, codesti numeri.

Getta il berretto militare.

RUTH, SIGNORA AMERICANA   Look down, darling! The clock has stopped! Ah, ah, ah!

PITTORE GAUDENTE   Toh! Davvero. Staorta l’ha ragione la Rutte, Lello. Bada là. Ormai gli è cinque menuti che l’orologio su via delle Terme segna le sette e ventisei. Vabbe’ che gli è d’una marca la fa cacare: “Revùe”. Ma a me, però, a questo punto mi sa che tutti gli orologi elettrici della città e’ si sien fermati quando l’Arno l’è arrivato a allagare la centrale. T’ ha’ nteso che laòro? (Si passa una mano sui capelli, preoccupato) Maremma cignala. E ora? Sì, dico: e ora dimmi te come stracinci si fa a riporta’ queste du’ sgarganate ’n albergo! Eh? Se que’ beccaccioni de’ su ’mariti le cercano, qui finisce a Casamicciola.

RUTH, SIGNORA AMERICANA   (ride di gusto) Ah ah ah ah aha! Kassamycchioulai.

PITTORE GAUDENTE   (all’amico) E’ ride! E’ ridano, loro! Ma icché tu ridi, strulla: questa gli è una  tragedia nella tragedia, ecco icché ll’è. Rutte, amore mio… di già tu cciai un nome imbarazzante, vero: Ruth. Nemmeno di ’ognome tu facessi “Prosit”.

RUTH, SIGNORA AMERICANA   Prozyt? Ah ah ah aha ah!

PITTORE GAUDENTE   E ’c’è poino da ridere, strullacciona! Piuttosto, cerca anche te di fa’ ggirare l’uniha rotellina tu cciai in codesta bella testolina bionda da microcefala sassone. Pe’ strada c’è guasi du’metri d’acqua, lo vedi costaggiù? E ’un si pòle escire senza gommone… e io e Lello ’un vi si pòle riaccompagnare pe’ tempo in albergo, te e la Jessica… Do you undertsand, porcellona?

RUTH, SIGNORA AMERICANA   Pourkellouna? Beautiful! Pictoresquo.

PITTORE GAUDENTE   Pittoresquo un par di zeri! I ’ttu marito ’un ti vede arrivare, ti cerca co’ una motosilurante a stellestrisce, primaoppoi ti trova qui da me ni’ mmi’ ateliè-scannatoio a i’ quarto piano di via delle Terme, piglia una mitragliatrice atòmia dell’esercito ameriano e mi spappola i’ppisello, do you understand, Pittoresquo?

RUTH, SIGNORA AMERICANA   Ah ah ah ah ah! Pysellou!

PITTORE GAUDENTE   (scorato, all’amico) Lello, riòrdami di riordàrtelo. Mapiù mapoi imbroccare mogli di ufficiali ameriani di’ cCampo d’Erba. Camp Darby! Vabbe’ le son bòne. Vabbe’ le son maiale. Ma, primo: le ’un capiscano una beneamata sega. Seondo: e’ si vede ’ lassù a i’pPadrone e ’ un gli andava bene a mano che du’ pittori squattrinati e comunisti ’ome nnoi faccin becchi du’ ufficiali di’gglorioso esercito delli Stati Uniti d’Ameria. O ’un tu llo ’edi? Pe’ppunicci, glià mandato addirittura un attro diluvio universale! Eccheccazzo.

(fa portavoce con la mano, rivolto al cielo) Esagerato, Costassù!

E se si trombava du’ sòre quacchere di’ mMichigan, allora, icché tu ci mandavi? E’ Quattro Cavalieri dell’Apoalisse?

Indossa un collarino da prete.

PRETINO   (con fare querulo ed effemminato) S’è fatto troppi peccati, Eminenza. E ’un dico Lei, ci mancherebbe… Ma tutti noattri, a Firenze. Questa gli è una città di peccatori, Eminenza. Io pe’ pprimo, eh? Certi peccati… (arrossisce veementemente) Grossi, sì. Parecchio ma parecchio grossi. Nonnò. E ’unn’esagero, no. Lei la lo sa meglio di me, Eminenza: Domineddio e ’un fa mai nulla a casaccio. Mai. Nemmeno Eva. Se l’ha fatta, un motivo ci sarà stato. Mi sfugge, mi rimane oscuro, ma ci sarà… E codesta roba ’ si vede qui sotto, fin sulla sacra soglia dell’Arcivescovado, gli è una cosa da fa’ vvenire e’ bordoni, co’ rispetto parlando. Una piaga biblica! Mi vien da piangere, posso? Grazie. (Piangendo) Guardi là, Eminenza: gli è propio una marea marrone, che schifo, tutt’attorno a i’dDòmo, e a i’bbel san Giovanni! Loro così bianchi, e lei, la marea dico, così marrone! E ’ sembra… vabbe’. Lasciamo stare icché la sembra. Eppoi come la corre veloce, l’anderà a cent’all’ora. Vrum! Che ll’ha veduto, Eminenza? E’ c’ è un tronco d’albero, laggiù, enorme, lungo e nodoso, mmmhh! che gli è la terza volta che gira intorno a i’bbel San Giovanni! Finisce butta giù le porte di’pParadiso! Nommacché. Lo so, che son fantasioso. ’Un succederà mai. Ma e’ sarebbe artamente simbolico, no?! Una parabola, propio.

(Fa un gridolino, giunge le mani) Ossignore! Eminenza, la guardi là quella macchina! Quell’ottocentocinquanta beige, nòva nòva! L’ha sfondato i’nnegozio, come un proiettile!

(Grida, terrorizzato) Nooo!

(Con le lacrime agli occhi) La mi scusi, Eminenza. Ma ’ll’è una cosa orribile, propio. No, ’unn’è che mi paia simbolico, anche codesto. Gli è che quella, Eminenza, quell’ottocentocinquanta beige, gli era nòva nòva. Non solo. Ma soprattutto… soprattutto, Eminenza: e’ gli era la mia, macchina!

Si toglie il collarino. Cominciano a suonare, tutti insieme, i clacson delle automobili: un lungo lamento straziante e sinistro.

SCRITTRICE FANÉ   (con aria snob, e annoiata) E ’ sono e ’clàccheson dell’atovetture, Concettina. La stia tranquillina. Eh! La vòle che glielo spieghi io, icché ll’è successo? Semplicissimo, nulla di che. L’acqua l’ha raggiunto e ’circuiti elettrici, dell’atovetture, e l’ha mandati in corto. Si fidi, ciò un amico elettrauto. Diciamo “amico”, giù…

Ora, finché ’un si scarica le batterie, bisognerà facci l’orecchio. Lo so, dà noia. Ma io sto peggio di lei, cosa crede: ciò perfino l’emicrania muscolotensiva, la si figuri…

D’attronde… le cose le possano sempre anda’ peggio, si riòrdi, cara. Pensi un po’ se oggi ’un fosse stata giornata festiva. Ci si sarebbe trovati tutti in atovettura, raggiunti dall’onda di piena, pelle strade di’ccentro. (Con un fremito d’esaltazione estetica) Si sarebbe affogati, o bruciati, in una sorta di folle regata, sbatacchiati di qua e di là, nell’atovetture, pe’ strade vecchie di settecent’anni. Ci sarebbe stato migliaia di morti. (Giunge le mani, sospira) Allora sì, che come scrittrice, se fossi sopravvissuta, avrei potuto scrivere… (socchiude gli occhi, esaltandosi)… una grande, grande tragedia! Ma che vvòle: qui a Firenze, oramai, si fa tutto a i’rrisparmio, da secoli. Ll’è una cittadina provinciale, angusta, bottegaia. Piccinina. Oggi capace ’con qualche diecina di morti la ci si cava. Dia retta a me. Lei la deve affrontare questa catastrofe in fondo li-mi-ta-ta, mi spiego? limitata, collo stoicismo e coll’arcaica rassegnazione tipici di voialtri meridionali. La deve stare tranquillina, e preparare la colazione come a i’ssolito. ’Un c’è né gasse né elettricità? Ottimo. Bòn per lei: oggi la ’un cià da cucinare. Basta un po’ di finocchi in pinzimonio – quelli a Firenze ’un ci si fanno mancare mai, e’ finocchi dico – , e magari du’ fette di prosciutto cotto. Anche quattro: tanto se i’ffrigorifero e’ un funziona, l’anderebbero ammale. E ’un si mòre di fame, no. E ’un si mòre, nemmeno stavolta. Vedrà che da stasera l’acqua la si ritira, e tutto torna come prima. Voialtri analfabeti vu’ siete così emotivi, vu’ vi preoccupate per un nonnnulla, e invece ’un c’è propio di ché, guardi, Concettina. Peccato i’ ttelefono ’un funziona, sennò gli dicevo di chiamare giù in Calabria pe’ tranquillizzare ’parenti. Sì. E’ vero: a Firenze c’è una piena spaventosa, i’ffiume l’ha invaso la città, e noi si sta propio di casa davanti a Ponte Vecchio, che dice fra un poino crolla. Ma, vivaddio! Manteniamo i’ssangue freddo! Prima di tutto, si sta a i’ssesto piano d’un palazzo moderno, rifatto dopo la guerra. Che ll’è così brutto, così brutto, ma così… racchio, propio, che di siùro ’un lo rade a i’ssuolo nemmen le bombatomiche. La mala erba la ’un mòre mai, icché la crede? E poi, guardi: io dico che i’pPonte Vecchio ’un viene giù nemmeno stavolta. Guardi là dalla finestra: la furia dell’acque, e ’ tronchi, e anche qui’ccamion rimasto incastrato, l’hanno sventrato e’ negozi a monte, e l’hanno riempito i’pponte di buchi ’paiano bocche urlanti – dio bonino, bella questa similitudine! Bisogna me la segni!… Ma propio pe’ questo, lo vede, Concetta? l’acqua la passa da’ que’buchi, la pressione la si riduce, e vedrà che alla fine i’vvecchio Schiena Diritta e ’un viene giù nemmeno stavolta.

(Sospira, rassettandosi la gonna in grembo) Panta rei, Concetta, lei mi insegna. Tutto scorre. Tutto passa.

OMINO DELLA FERMATA DEL 33   No! E’ un paffa. O perché e’ un paffa?

CARABINIERE ANFUSO   Marescia’, che so’ sti’ botti? Pare Fuorigrotta…

MARESCIALLO DEI CARABINIERI   E ’son caldaie che le scoppiano, Anfuso. O sennò bidoni di materiale infiammabile, che son cascati in acqua, e glianno incontrato la nafta. Un incontro esplosivo!

PITTORE GAUDENTE   No! Rutte, acciderba a te! ’Un lo buttare i’ffiammiferino giù dalla finestra! E nemmeno la cicca, diobònino. E’ si va tutti affòo! Te l’ho di già detto. Se’ dura, eh? O ’un tu lo vedi’ pe’strada c’è più nàffeta che acqua? Pefforza. Vedrai l’acqua ll’è entrata ne’ depositi de’ riscardamenti centralizzati, e l’ha portato tutta la nàffeta di fòri. Sai benino! Bei’ ttroiaio! ’Un bastava la melma! E la merda!

RUTH, SIGNORA AMERICANA   Ahah ah ah aha! Mèrdai! Cacca! Shit!

PRETINO   Oioi, che puzza di escrementi, Eminenza, con rispetto parlando.

Sior Todaro, primattore dello Stabile di Venezia (con voce impastata da dopo-sbornia) Co’ rispeto parlando, fiòi, mi ghe vo a far un fia’ d’aqua a la tualè… Esta… como se ciama? … Esta famosa Rassegna de’ Teatri Stabili de’ Fiorensa, vo’ a dirghela intera, a mi me sembrarìa un fiatìn… una monada. Ecco, goò deto. Vede’ vù: aiersera, a mirar el nostro Goldoni fatto su a la maniera del Bertolt Brecht, non gh’era un can, ostia de dio! Va ben ch’el piove da tre zorni, ziocàn, pare el giudissio finale… Ma poi finisse che un cristian se deprime, e par tirarse su el morale el beve. E strabeve… E ’l zorno appresso, xè rinciucchido, svapora’, e g’ha la zucca vuota ’ pare un pallon de mongolfiera! Mah! Fame un po’ vardar ti se stamane volerìa uscir fòra un fia’ de sole, ziocàn! Sta locanda, non discuto, xè bela, xè antiga, e xè anco vezin el teatro, ma ’sti brocadi a la finestra, ciò, son pesanti come el demonio che se li porti. Oooh! (Fa il gesto di tirare le tende; con ironia) Toh! Al gh’è una notissia, fiòi: piove. (Guarda in basso, e trasalisce) Ma casso! Fioi! Digo! Xè aqua dapertutto! Non gh’è più strada, ma canai! Ma…! (Si dà una sonora manata sulla fronte) Boia d’un can! Sta a veder ti che iersera gh’ero cossì ’mbriago, ch’el me g’han riportàa a Venessia, e mi, mona, non me ne son gnanca aveduto!

Signora della aradio   Te Amintore ’un tu te ne eri accorto perché tu ciai l’occhi foderati di mortadella, e ’un tu vedresti l’acqua ’n Arno. Pellappunto. Ma io lo dicevo che qualcosa e ’un quadrava. Bah! E difatti, t’ha’ visto? C’è l’alluvione. Toh. L’ha detto anche la aradio. Lo dicevo io. C’era i’ ggiornalista della Rai affacciato dalla sede Rai di piazza Santa Maria Maggiore che commentava in diretta lo spicinìo che c’è in centro. Certo, e’ tirava a farla più piccina dicché la ’unn’ è: “ll’è tutto sotto ’ontrollo”, diceva, “s’è bell’e attivata la macchina dello Stato”… Sì, larillallero! Ma te tu lo sai come sono e ’ giornalisti. D’un’ alluvione, ne fanno una pisciata di gatto! Dio ci scampi e liberi. Meno male, va, che noi si sta a san Gervasio. Qui l’acqua la ’un ciarriva nemmeno se dà di fòri tutto i’mMediterraneo. Toh! Certo, e ’nostri disagi ci s’avranno: unn’arriva più acqua da’ rubinetti. ’Un c’è luce, ’un c’è gas, e ’un passa più nemmeno l’atobussi…

(indossa la coppola)

Omino della fermata del 33   E’ un paffa. No. E ’un paffa. O icché farà fucceffo? Ora fe pe du’ gocce d’acqua e ’un paffa più nemmeno l’atobuffi… A rregola!

(getta la coppola, imbraccia il fucile)

Giovin cacciatore   (con aria distrutta) Passa passa, babbo. Passami i’vvino. E ’ciò bisogno di tirammi un po’ su. Ora ho capito. ’Un son mica grullo. Gli è tutto alluvionato, attro che lago. Anche la casa della Catterina, laggiù, ni’ mezzo a’ campi. (Tetro) Anzi: ni’ mmezzo a i’ llago. (Piagnucola) Poera Catterina. Che fine ll’avrà fatto? Poera figliola, la ’un sapea notare di siùro. Di grazia, la sapeva baciare ’olla lingua, dice la si sentiva soffocare… Come chi ll’è la Catterina, babbo? O ’un tu llo sai? L’òmo ll’è cacciatore… vero, babbo? E mia sortanto di starne e beccaccini…

Getta il fucile, inforca fini occhiali da vista cerchiati d’oro; assume un atteggiamento ispirato e rilegge un manoscritto, mentre dal cielo cala il rumore di un elicottero in volo.

Scrittrice fané   “Come un sauro preistorico cacciato da trogloditi, l’enorme tronco d’albero dalle ghermenti, rapaci braccia ischeletrite tornò più e più volte a levare il muso di mostro, sospinto dall’immane massa d’acqua e di fango, di là dalla barriera del ponte e delle sue botteghe… L’urlo assordante del fiume soverchiava tutto, ogni altra cosa pareva irrealmente avvenire in silenzio, lampioni divelti che per un po’ sembravano resistere alle onde, mobili squartati che fuoriuscivano dagli appartamenti violati dei piani bassi, cascate d’acqua gialla che scivolavano grondanti dalle finestre lungo i muri, acqua fangosa, striata di nafta in arabeschi degni d’un quadro espressionista, dipinto da Munch, o da Van Gogh… Ma col passar del giorno, il muso della bestia preistorica, si levò via via più basso, meno protervo e aggressivo. Mentre il cielo di piombo imbruniva sulla città annichilita, l’immondo gonfiore della piena impercettibilmente decrebbe. Il ponte aveva vinto la sua muta, ostinata battaglia…” (Irritata, scuote la testa, e appallottola il manoscritto) Mio dio, che troiaio… Ocché bischerate mi vien da scrivere? Moah! Sarà l’umido! (Chiama) Concettina! Concettina! Ovvìa. Nulla, unn’è nulla. La ’un si spaventi sempre, occhessarà mai? Son l’elicotteri. Arrivano a salvacci con l’elicotteri. Ma a noi icché ce ne importa? Che ce ne importa a noi d’esse’ salvati, a Firenze? Chi cià bisogno, qui, d’esse’salvato, Concettina? Icché ci sarebbe, poi poi, da salvare? Piuttosto, la mi porti di’vvino bianco, di quello bòno, portoghese. I’ tTio Pepe, brava. Lo scèrri. E la mi faccia i’ppiacere: senza ’omplimenti, se ne versi un poino anche per lei, che gli fa bòno.

Toglie gli occhiali, assume l’atteggiamento guascone del pittore.

Pittore gaudente   Evvualà. Vino bollito ’ollo zucchero, mie belle maialone ameriane, aspirina dentro, e vai! Per rinvigorissi, e rendessi atto alla pugna! (le guarda eccitato, ma anche un po’ spaventato) Duplice pugna! ’Io lai! Qui fa notte, fra poo. Lello e ’un ritorna più dalla su’ spedizione su’ tetti, sonasega io se l’ha poi troato de’ soccorsi, o se ll’è cascato di sotto e ll’è affogato ni’mmerdaio. E io son rimasto qui co’ tutteddue voialtre maialone. Ruth, e Curegg. No, come ti ’hiami, te? Jessica. Jessica, i’ rriscardamento e ’un funziona. No. Bisognerà arrangiassi co’i’ vvecchio sistema… dell’attrito! (Malizioso, muove l’inguine avanti e indietro) Che mi spiego?

Tanto, se oggi o domani mi beccano, que’ becchi de’vostri mariti, fatta una più o una meno, cambia poo. Sentili lassù! Arriano ’ogli elicotteri! (Canticchia l’inno americano) Tattaràtta tattà…! Senti te che giramento di pale, che gli hanno! Ma m’importa una sega. Come ’disse i’gGucci di via Tornabòni: venderò cara la mia pelle! Ovvai! Una a destra e una a sinistra ni’llettone. La sapete la famosa frase di Pier Capponi? “Se voi sonerete le vostre trombe, noi tromberemo le vostre carrampane!”.

Ruth, signora americana   Carrampanei! Ah ah ah aha!

Rumore di elicotteri in volo. Esplosioni di bidoni di carburo in mezzo alla nafta.

Buio.

7. Il professore e gli evasi

Luce soffusa di un appartamento. È il soggiorno, nell’attico decoroso, ma senza lusso, del professor Pierfilippo Cosi, docente alla scuola media Carducci. Il professore è un uomo mite, sui sessanta, vicino alla pensione. Conversa amabilmente, ma un po’ nervoso e impaurito, con gli ospiti inattesi.

Prof. Pierfilippo Cosi   (si siede sulla sedia, come se fosse una poltrona, intreccia le mani sulle ginocchia, sospira, un po’ in imbarazzo) Ovvìa. Eccoci qui. (Pausa imbarazzata) E in – somma… Mah! (Dopo un’altra pausa, e avendo girato di nuovo lo sguardo sorridente, ma un po’ teso, sugli ospiti, si rivolge alla moglie) Adele, senti qui se e’ signori evasi, gradiscano un po’ di ’antuccini di Prato, co’ i’vvinsanto. (Ad uno degli ospiti) Gli è bòno, sa? lo fa i’ffattore su alla Rufina… (Rispondendo ad un altro ospite) No, mi dispiace. Rumme ’un ci se n’ha. Sa io, e’ superalcolici, coll’ulcera ’ mi ritrovo… Se v’accontenate, ci s’ha forse un nocino de’ frati di Montesenario… Sì… Vabbe’... io offrire ve l’ho offerto. Poi… Va bene i’vvinsanto, allora… Ovvai, giù. (Sollecita la moglie a versare il vino) Adelina…? Eh! Animo! (Pausa imbarazzata, gira attorno lo sguardo, un po’ nervoso) E ’nsomma, via: voi e’ vu’ saresti evasi dalle Murate, va’. Ha’ capito, benino… No, no. Ma figuratevi, signor… Come ha detto che si chiama? Giuseppe… O’Infamone? Capisco. (Gli tende la mano) Cosi Pierfilippo, piacere. No, no. Nessun disturbo. Piuttosto, perdonate i’ddisordine, ma sapete, sono momenti un po’ partiolari.

Ma prego: forse se vu’ vi stringete un poino, vu’cc’entrate anche tutt’e ssei, su i’ccanapè.

Rumore di un vaso che si rompe; il Professore si affretta a tranquillizzare il maldestro responsabile del piccolo disastro.

No, no! ’Un si preoccupi, ll’era vecchio. Risaliva... a quando, Adele? ’Un piangere, Adelina… A i’mmilleottocentotrenta, figuratevi un po’. (Con la voce strozzata dal pianto) Un’eredità di famiglia. Manifattura di Doccia. Un oggetto di squisita fattura, vero, delizios… Ma vecchio, ripeto, vecchio, sorpassato. E ’nsomma pazienza. Vorrà dire si riomprerà nòvo a’ magazzini di’ qQuarantotto, una volta passata l’alluvione.

Perché la passerà no?

Certo, a voi v’ha detto anche bene, no? ragazzi. Permettete ’ vi chiami ragazzi, ormai io ciò un’età, son guasi in pensione.

Sì. L’insegnante. Di scòla media, qua dietro, alla Carducci. Italiano, storia e latino. Sì.

Lei, invece, signor Oinfamone, di cosa si occupa, precisamente?

Rapine a mano armata, capisco. É un settore che butta bene, sì?

In espansione. Capisco.

Ma l’ha risentito, della congiuntura? Eh, sa...: codesto gli è un po’ un problema generale, della nostra economia, ancora un po’ fragile. (alla moglie, piccato) Come i’ vvaso della manifattura di Doccia, preciso, Adelina, ’un ti ci fare la testa, ora: oramai... (all’evaso) Però vedrà che ci si ripiglia. Ma si figuri. Io, pepparte mia, le fo tutti l’auspici… Magari, ecco, se la potesse evitare di… visitare, diciamo, la Cassa di Risparmio di Firenze, sì, la filiale di piazza Beccaria, indove ciò un piccolissimo deposito. A mio nome, sì. Professor Cosi Pierfilippo. Ma son du’ lire, eh? Piccoli risparmi d’un vecchio insegnante. La ringrazio, molto obbligato. Ma si figuri.

(Tentenna la testa sorridendo inebetito; sospira, imbarazzato)

Con tutto ciò…

(Pausa; si rianima)

Dicevo: s’era sentito… sa, le voci corrano, di finestra in finestra… insomma s’era sentito dire che ieri mattina, proprio ni’mmomento peggiore dell’alluvione, mentre vi trasferivano a i’tterzo piano, mi corregga se sbaglio, c’era stata, sì insomma, una specie di rivolta… di rivoltina, ni’ccarcere, senza offesa… S’era anche sentito delli spari fin da qua, da via Manzoni. Dico bene? Eppoi, mi dica: come ’ll’è andata a finire? Vu’ siete saliti su i’ttetto, no? Anche perché giustamente di fare la fine di’ttopo in gabbia, e ’un vi garbava né poo né ppunto… Vu avete ragione. E si dice anche che un gruppo di voi sia scappato a nuoto, e l’abbia anche svaligiato un’armeria (deglutisce, preoccupato)… e ora giri pella città armato di tutto punto… Ma, a quanto m’avete detto poo fa, e ’un vu’ siete voialtri, no? (tranquillizzato) No, lo vedo: pe’ esse bagnati vu’ siete bagnati anche voi, anche se ’un vi siete tuffati, però lo vedo bene che la ’unn’è acqua motosa. A passare su’ tetti, co’questa pioggia, e ’ci si bagna ’ome pulcini, me lo figuro. Poera gente. Quando vu’ vi siete presentati all’abbaino, a bussare a i’vvetro, tutti mèzzi sotto i’ddiluvio, come si faceva a ‘unn’aprivvi… Siamo òmini, diamine. Eppoi, sa, gli ho detto all’Adele, sarà meglio asseondalli, ’un ciavessero a sfondare la porta…

Noooo! Ma icché la dice “poo raccomandabili”! Ma assolutamente no. Ma quali ceffi! Ma quali facce da galeotto! Guardi, signor Oinfamone, a mio modo di vedere, codesto sfregio che gli va dalla tempia alla bazza, posso dirlo? gli dona! Ebbene sì. Gli dà un’aria interessante, vissuta! Vero Adele? Adele, ’unne svenire, diobòno, anche te! E anc’a llei, costaggiù… i’nnaso rotto! Si fa presto a dire nasorotto. Ma c’è nasorotto e nasorotto. I’ssuo, lo sa chi mi riorda? Mielàngelo Bonarroti. Lo scultore. Preciso, vero Adele? Lo ’onoscete di siùro anche voi, ll’è su’ biglietti da diecimila. Uh, t’ha’ sentito, Adele, icché gli ha detto, i’ssignore? “Appena farò un buon colpo, signora, mi riorderò di lei!” Troppo bòno, davvero. ’Un si disturbi…

Ma vu’ avete fatto benissimo! Ma davvero. Nessun disturbo. Anzi, vu’llo sapete ora icché si fa? Vi si dà dell’indumenti asciutti, sennò vu’ pigliate un accidente, poeri figlioli. Certo, io son mingherlino, ’un lo so se la mi’roba vi torna bene, con codeste spalle vu’cciavete, ma ’nsomma, ora si vede… Icché vu’penseresti di fare? Vu’ aspettate che spiova, e poi vi rimettete in marcia su’ tetti, o vu’ andate via subito? No no no. No no no. Aspettare s’aspetterà. Prima o poi, e’ gli smetterà di piovere, no? E voi, pe’ccarità: vu vi potete trattenere quanto vu’ volete, davvero, senza complimenti, quanto vu’ avete bisogno, davvero, fate come vu’ fossi a casa vostra…

No, grazie, io ’un fumo, e nemmeno la mi’moglie. Eppoi codeste, le son troppo forti. Ma fate conto s’abbia accettato. Davvero, s’apprezza i’ppensiero. Vero, Adele?

Come, siete voi che vu’apprezzate?

Ovvìa, un òmo grande e grosso come lei, un rapinatore di banche… O signor Oinfamone!

“Commosso” icché!? Ma indove? No. Icché c’entra… Mi fa piacere sentiglielo dire. Sa, io mi picco di trattare chicchessia da òmo, co’ umanità. Eppoi, in una situazione come questa…

(Li guarda, paterno)

Mi dispiace soltanto che voi, poeri figlioli, ’un vu’ ci fossi più abituati.

Eppoi, a guardare bene, siamo noi, vero Adele? che si deve ringraziare voi. Ringraziare, sì: ringraziare. Uno dice: delinguenti, criminali – con rispetto parlando. Carcerati, ergastolani… Ci si dimentica che prima, prima di tutto, dico, tutti – e’ siamo òmini.

Forse, e’ ci voleva l’alluvione, pe’ fàccelo riordare…

Buio. Musica. Immagini di libri, montagne di libri alluvionati alla Biblioteca Nazionale Centrale. Pagine ingrossate, infangate, incrostate. Vecchie foto degli angeli del fango, giovani studenti che si passano i libri di mano in mano… Voce di Richard Burton: «Sono centinaia e centinaia i giovani e giovanissimi che dal momento del disastro ha deciso senza un momento di esitazione di venire a salvare la gente, i libri, le opere d’arte...».

8. Angela

È una ragazza sui ventidue-ventritré anni, i capelli raccolti, le maniche rimboccate. Tiene in mano una piccola pila di libri infangati. Illuminata da un occhio di bue, a pioggia.

Angela   (legge su un vecchio libro alluvionato) “Phlebas il Fenicio, da quindici giorni morto,  dimenticò il grido dei gabbiani, e il fondo gorgo del mare, e il profitto e la perdita. Una corrente sottomarina gli spolpò le ossa in sussurri. Come affiorava e affondava, passò attraverso gli stadi della maturità e della giovinezza, procedendo nel vortice… Gentile o Giudeo, o tu che giri la ruota e guardi sopravvento, considera Phlebas, che un tempo fu bello e alto come te…”.

Chiude li libro, guarda davanti a sé con occhi innamorati.

Bello, eh? Ti garba, amore? Thomas Stearn Eliot. La Terra desolata. (Fa una smorfia amara) E se ’unn’è una terra desolata questa, ora come ora… Caro Nazìm…

Una terra desolata. Devastata. Umiliata, da questa tragedia. Perché oltre a i’ddanno, c’è l’umiliazione. ’Un ti pare? Una città così bella, e preziosa, e altera. (Guarda verso il cielo) La vòi distruggere? La devi punire, d’ave’ dissipato ’ su’ talenti? Falla saltà per aria, bruciare in un fòco purifiatore…

E invece, guarda qua! Travolta –  dalla merda. E quella riga nera di nafta, fin costassù, che ll’era rimasta su’muri, e chissà pe’ quanto la ci rimarrà…

Chissà pe’quanto…

Sai, Nazìm… Quando l’Arno s’è ritirato, la domenica, i’ssei di novembre, sono escita di casa, e mi sembrava di vivere in un incubo strano e senza senso. Sulle pile de’ ponti, c’era que’ grovigli schifosi d’alberi e d’immondizia… E ’ Lanzini, sai, quelli di’nnegozio di stoffe in piazza Dòmo, escivano, tutti sospirosi, da i’ssottopasso di piazza Stazione, indove la corrente gliaveva trasportato le su’ stoffe pregiate, tutte piene di fango. Avean provato a salvalle lavorando tutta la notte, ma poi l’era arrivata la piena, e gliel’aveva sputtanate tutte…

Un incubo assurdo, e un po’ ridìolo.

In piazza Santa Croce, c’era una colonna d’atomobili impilate una sull’altra: n’ho contate sei. Altre quattro, ll’erano entrate in un negozio, due sopra e due sotto.

Assurdo. Te l’ho detto: una città ridicolizzata, nella tragedia. Sventrata, nella farsa.

Pensa che durante la notte dell’alluvione, mentr’ e’ moriva bambini e e’vecchi paralitici, c’è anche chi ll’ è potuto mòrire pe’ ave’ voluto fare all’amore co’ due’ donne assieme, come qui’ ppittore dongiovanni di via delle Terme, che ’un gli ha retto i’ccòre allo sforzo.

Farsa e tragedia. Fango dappertutto. Carogne d’animali. So che alle ’Ascine gli hanno distrutto co’ i’llanciafiamme le carcasse de’cavalli affogati nelle stalle. Quelli meno pregiati. E ’ purosangue no, quelli l’avevano messi in salvo pe’ tempo. Poi si dice bene che Iddio fa piovere su i’ggiusto e sull’ingiusto. Ma l’ingiusto spesso e volentieri cià l’ombrello, e i’ggiusto affoga. Come qui’ ppoero operaio dell’acquedotto, che pe’ unn’ave’lasciato i’ssu’ posto di lavoro, l’hanno ritrovato a faccia in giù, in un cunicolo pieno di fango.

Fango. Fango dappertutto. Soltanto borgo san Jacopo, da lontano, la mi pareva tutta lustra e pulita, come lavata di fresco. Poi, andando avanti, mi sono accorta che ll’era fango alto mezzo metro, ci s’entrava dentro fino a mezza gamba.

Fango, fango, fango.

Eppure, ni’mmezzo a i’ffango, sono spuntati que’ fiori, che ti dicevo.

Subito, intanto, i’pprimo: quella nostra antica, tragica ironia di fiorentini, che ll’è i’nnostro bene più prezioso, e, forse, i’nnostro limite.

“Alla nòva Pompei – Dalla mota a i’cconsumatore – Prezzi sott’acqua”. Così c’era scritto, già due giorni dopo, su i’ccartello d’un negozio alluvionato. E e’ fiorentini cantavano, sull’aria dei vecchi stornelli: “Fior d’acqua viva, a i’mmare ’un ti ci porto quest’agosto, l’è inutile a Viareggio cercar posto, e’ c’è più acqua in casa che alla riva…”.

Tu ridi, Nazìm? Ma c’è da ridere e da piangere, sai?

Lo sai icché gli ha detto un artigiano di piazza di’cCestello a i’dduca d’Aosta, che ll’era arrivato a portare de’ viveri co’ i’ su’ gippone? “Basta, grazie sor duca, e’ s’è bell’ aùto. Tanto San Frediano ’un mòre nemmeno coll’alluvione. Semmai, si spande!”.

E un vecchino di’mmercato di sant’Ambrogio, che dopo l’alluvione e ’un trovava più i’ ssu’ vecchio furgoncino che gli serviva pe’ sbarcare i’llunario vendendo verdure e patate, e gliel’aveva  portato via la piena, l’è stato visto alzare l’occhi e e ’pugni rinsecchiti a i’ccielo, e apostrofare i’pPadreterno: “Io ’un so più icché ditti!”.

Poi c’è ll’eroi silenziosi. Come qui’ssignore benvestito, signorile, con baffi e pizzetto, che pe’ una settimana ll’è venuto tutti i giorni a casa di mi’zio: tirava fòri da una sacca una tuta, un paio di gambali e una pala, e cominciava a spalare i’ffango, tutti i giorni, la mattina dalle nove all’una, e poi tornava ni’ppomeriggio, dalle tre alle sei. “Io ciò avuto fortuna – ci disse – ’unn’ho avuto danni, ma mi pare giusto dare una mano a chi l’è rimasto alluvionato”. ’Un sembrava nemmen vero.

O quell’attro disgraziato, i ‘fFibbi, poeromo, che l’attraersò tutta la città a piedi pe’ andare a spalare da i’ffango i’nnegozio della su’figliola, in Gavinana, lavorò quattordiciore di fila, e poi morì, schiantato dalla fatica, e da i’ccrepacòre…

Hanno chiamato noi, angeli di’ffango, Nazìm, ma codesti costì, icché sono?

E e’ frati di Santa Croce, che qui, a poche diecine di metri, stanno a crivellare la melma da tre mesi per ricercare ogni minima tesserina di pittura di’cCristo di Cimabue, loro icché sono?

Sullo schermo, appare all’improvviso l’immagine del Cristo devastato. Musica: “Lacrimosa” dal “Requiem” di Mozart. Dopo un po’, la musica sfuma, l’immagine scompare…

Nazìm. Io, pe’quanto mi riguarda, lo sai, partivo avvantaggiata. Mi chiamo Angela Delfungo. E’ mi ci voleva poo a diventare “angela del fango”. Eppoi, son di Firenze. Mi tocca.

Ma voi, arrivati dall’Armenia, dall’America, dall’Inghilterra, dalla Francia. Da mezzo mondo. Chi vi cià portati? Chi vi cià mandati? ’Un lo so mica se poi, alla fine, vi si merita.

(Ride, cacciando la commozione) Certo, mi vien sempre un po’ da ridere quando ripenso a i’mmodo strullarello ’ tu ciai avuto di presentatti. Ti riordi? “Che tu ll’hai mai conosciuto un armeno? No? Allora piacere, sono i’pprimo armeno della tu’vita...”.

Bischero.

Armeno.

Sì, armèno: arméno ci sei te, Nazìm. Amore, angelo mio. Te. Io. I’ffango. E ni’ ffango, da pulire da i’ffango, da salvare da i’ffango, da seicentomila tonnellate di fango… un milione e mezzo di volumi e riviste della Biblioteca Nazionale Centrale. Millequattrocento opere d’arte, di Paolo Uccello e di’gGhiberti, di’ bBotticelli e di Cimabue.  Seimila botteghe artigiane.  Cinquantacinque edicole. Macchinari dell’industrie. Case di quattromila senzatetto. Cinquemila atomobili. Gioattoli di bambini. Pezzetti di còre. Brandelli di memoria, infangata.

L’è un laoròne, d’accordo. Ma, armeno io e te, Nazìm, giovane armèno, angiolo infangato, ci s’ha tutta la vita davanti, pe’pportallo a fine.

Tutta la vita.

Per ritornare da costaggiù, indove siamo finiti, fin costassù. A riveder le stelle.

Buio. Immagini di distruzione e di recupero. Poi luce, solare.

9. Polvere (Fincostassù)

In mezzo al palcoscenico, un vecchio polveroso, che tira, dalle quinte, un barroccio pieno di cenci multicolori. In testa, un cappello a larghe falde, sformato.

Voce di Richard Burton: «Quello che è accaduto a Firenze va al di là di ogni immaginazione, ma quello che rivelano le cifre è ancora più grave e va oltre le previsioni più ansiose…».

Polvere   (grida, arrochito) Dalle stalle alle stelle! Da i’ ffango dell’alluvione alle vetrine lustre di’vvostro salotto bono! Soprammobili ganzi, posacenere artistici, coprilampade rococò, fermacarte calzascarpe scolapaste segnalibri cavatappi asciugamani sturalavandini portavasi sbucciapatate spremilimoni appuntalapis passpartout chicchirillò… roba bona alluvionata ma quasi quasi come nòva a prezzi stracciati! Avanti popolo alla ribotta: l’è alluvionata ma la ’unn’è rotta!

(al pubblico, con voce un po’ afona) Ecco, vedete. A me, invece, da campare e ’ m’è rimasto pòo. Ni’ quarantasei, mi riòrdo, gliero ancora gioane, gli aveo più o meno cinquant’anni. Oh: a cinquant’anni, s’è gioani, pòi discorsi. Vent’anni fa. Sta’ano ricostruendo ’ ponti, dopo la guerra. I’ ffiume gliera ancora un amico, si pòle dire, i’ssabato ci si faceva i’bbagno: in casa, e ’un c’era né doccia né vasca. Giusto l’acqua della cannella. Ma s’era puliti eguale. Più puliti d’ora, anzi. Dentro, di siùro. Ma anche fòri. I’ mmi’ figliolo più giovane, Alberto, ll’era di que’ ragazzi che si tuffavano dalla spalletta di fronte all’antiquario Bellini, e gli ameriàni gli buttavano le monetine. Sempre ganzi, loro. Gli ameriàni. Comunque, meglio quando buttano le monete di quando buttano le bombe.

Voce di Richard Burton: «Ora in America e in Inghilterra è stato formato un Comitato per salvare gli italiani colpiti dall’alluvione e per far sì che la commozione non restasse solo commozione…».

Allora, pella poera gente – aimmeno quelli che stavano verso la ’ampagna, dopo l’Indiano alle ’Ascine – le piene dell’Arno gli erano guasi una benedizione. Cheddici… Que’ poeracci e’ si vedean passa’ davanti alla finestra di ’asa, trascinati da i’ffiume, tronchi e rami d’alberi, palate di legna da ardere, e ’un gli parea i’vvero d’arraffalla a i’vvolo, gràtisse, pe’ usalla ni’ccamino. Ma ll’era un’attra Toscana, mi rendo ’onto, e un’attra Firenze, che la ’un c’è più. Seimìla botteghe d’artigiani e piccoli ’ommercianti, su diecimila, le sono andate sott’acqua, nell’alluvione: chi si rialza più?

Io son rimasto l’urtimo cenciaolo, defraudato dalla piena, come Tuffetto gli è rimasto l’urtimo renaiolo, e ora s’è attrezzato, draga i’ffiume sotto Ponte Vecchio, alla ricerca dell’oggetti d’oro che la piena gli ha portato via dalle bacheche dell’orefici… E dalla spalletta, la Clotilde Beltrami, l’orafa, la gli urla: “ladro! rèndimi le mi ’ose d’oro!” (Ride catarroso) “L’è un dì, che ’un tu cce l’ha’più le tu ’ose, befana!”, gli ribatte Tuffetto, da i’ffiume, “e d’oro, poi!” (Ride, ancora).

D’attronde, dice che de’ gioielli son stati ritroati a bocca d’Arno, ni’pparco di san Rossore…

(Si impettisce) Anch’io, Sebastiano Trallori, detto Bastiano, detto Pòrvere, urtimo rigattiere e cenciaolo, cenciaolo filosofo, anch’io, bah! che gli aeo a fare? E’ mi sono attrezzato. Compro e rivendo sottocosto roba alluvionata, radio, televisori, vestiti… ormai l’è doventata un nòvo genere merceologico a sé stante.

Ma soprattutto… soprattutto… e’ fo la “guida dell’alluvione”. Sì, la guida pe’ turisti in cerca d’emozioni partiolari. Un po’ torbide, si ’apisce, visto i’ggenere.

Toh, macché! Conosco tutti gli aneddoti, tutte le storie più patetiche o divertenti.

Come quella… di quella poera famiglia dell’Osmannoro, babbo, mamma e figliolina di tre anni, che cercavano di salvassi dalla piena aggrappati a un’asse. Poi la bambina la ’un ce la fece, la mollò la presa. I’bbabbo, disperato, l’andò sott’acqua pe’ ripiglialla, ma bevve nàffeta e mota, e pe’ppoco un morì anche lui di nausea, e gli dovette rinunciare.

I’ccadaverino lo ripescònno dopo quaranta giorni, in una bella giornata di sole di dicembre, e e’ genitori ll’erano ancora ’n ospidale: i’ bbabbo ’olla broncopormonite, la mamma sull’orlo della follia.

(Caccia indietro la commozione)

Codesta, pe’piangere.

E pe’ ridere, invece… la barzelletta dell’omìno bigotto, che stava in una casa a i’pprimo piano di via de’Macci.

La piena la sale, e lui prega: “Signore Gesù, sàrvami dall’alluvione”; passa un barcone pieno di pompieri, e gli dicano: “vien giù, ti si porta via noi”; e lui: “Noe! Prego i’sSignore e lui mi sarverà, perché gliè bòno”. L’acqua d’Arno la sale ancora, l’arriva propio sotto la finestra. Passa un altro gommone, e gli dicano: “Vien via, bischero, tu affoghi.” E lui: “Noddavvero, stùpiti ’un vu’ssiete attro: o ’n lo vedete sto pregando i’sSignore? Che Lui di siùro viene a salvammi”. La piena la sale ancora, e gli arriva sottosotto la bazza. Lui trema tutto di paura, cià un culino strinto ‘un gli c’entrerebbe uno spillo, ma ’un s’arrende, e sèguita a pregare. Passa un urtimo barcone di pompieri, gli si ferma davanti, e quelli sopra cercano di tiraccelo dentro, ma lui duro. “Ocché vi leate dalle palle?! Sto pregando Dio, e lui mi salverà di siùro.” Quelli van via: “Fai icché ti pare, bischero, peggio pe’ te”. L’acqua la sale ancora un attro po’, e l’omino l’affoga. Va in Paradiso un po’ incazzato, si presenta ammusoduro a i’pPadreterno, e gli fa: “O allora? Occome sarebbe a dire? ’Un c’è più religione! Ma come! Ti son sempre stato devoto, ho pregato e ripregato ’ tu mi salvassi dall’alluvione, e te ’un tu m’ ha ascoltato e tumm’ha fatto morire?!”.

“O bischero – gli fa i’pPpadreterno – ma che svagelli? Occome ’un t’ho ascoltato? Tre barconi, t’ho mandato a salvatti, mica uno! Tre!”.

(Sospira) Eh, pe’ bischeri ’un c’è paradiso…

A Firenze, siam fatti così. Si ride e si piange, tutt’insieme… E alle piene dell’Arno, ci s’è fatto ormai l’abitudine…

Indica lo schermo, dove appare la fotografia di un muro, a un cantone del centro storico.

Che vu’ le vedete, lassù, su quella casa, le lapidi murate che segnano l’altezza raggiunta da i’ffiume nelle piene più grosse? L’acqua, e’ pare impossibile, ma ll’è arrivata fin lassù. Anzi: fin costassù. Che magari “costassù” ’un sarà dittutto giusto, forse, in italiano. Ma sòna più fiorentino. Perché tutto questo, diciamocelo, gliè tipiamente fiorentino.

Viene sul proscenio, parla al pubblico, guardando negli occhi più di uno spettatore; l’attore toglie il cappello a larghe falde, ed “esce” dal personaggio, parlando in prima persona, in italiano privo di inflessioni vernacolari.

In seicento anni, il fiume è straripato cinquantaquattro volte. Ogni ventiquattro anni, c’è una piena media, ogni ventisei una grande, ogni cento, una straordinaria.

Insomma, fino al Duemilasessanta si dovrebbe stare tranquilli, magari con una pienuzza per gradire attorno al 1990.

Difatti, c’è stata.

Ma aspetta. A guardare bene, le piene più grosse, nel 1333, 1844 e 1966, quelle negli anni col numero doppio finale – buffo, no? –, si sono avute nello stesso periodo dell’anno, negli stessi giorni addirittura, ai primi di novembre. C’è chi li chiama: i giorni di Satana. Giorni strani, magici, con la festa dei Morti e quella dei Santi. La notte di Valpurga. La notte che gli ameriani svuotano le zucche e ci fanno le teste di morto. E dunque, sarà destino? E dunque l’unica sarebbe davvero “spostare Firenze”, come diceva il sindaco Bargellini, il “Sindaco dell’Alluvione”? Firenze, che, per come è messa, a fare da imbuto, da collo di bottiglia all’acqua che arriva dagli affluenti del Pratomagno e della Valdisieve, pare destinata a  fare tappo, e a venire alluvionata?

O magari, invece, levando le pescaie ormai inutili, abbassando le platee dei ponti, facendo bacini che servano non soltanto a produrre energia, ma a calmierare la portata delle piene, e costruendo scolmatori, casse d’espansione e rimboschendo le montagne, sgombrando le golene dalla cementificazione selvaggia, e razionalizzando le competenze, a Satana gli si potrebbe anche andare allegramente ni’bbòcciolo, e l’alluvioni future potrebbero essere scongiurate?

Guarda gli spettatori, poi scuote la testa, rimette il cappello e rientra nel personaggio.

Mah! Chi pòle dillo?

D’attronde, gli è pur vero che io, Pòrvere, son sortanto un cenciaolo di san Frediano, una macchietta di’ Grillo canterino, bòno pe’ ffare quattro risate alla vecchia maniera, e inadeguato alle orazioni civili… e quando dico codeste ’ose mi danno di’ ffilosofo, e di’ccritiòne.

Sta di fatto che certe vorte, però, vorrei potenne parlare perbenino co’ quarche arto papavero, co’ caporioni che comanda, in Italia: i’ppresidente della Repubblica, i’ccapo di’ggoverno, e menistri, i’ vVaticano, la Fìatte… e sentire un poino loro, icché mi risponderebbero.

(Sorride, e scuote la testa)

Ma poi mi dico: sie, brao bischero.

E come s’a’rebbe a ffare a arri’acci – fin costassù?

(Riprende a gridare, con voce arrochita)

Donne venite donne! Dalle stelle alle stalle! Dalle vetrine lustre di’ vvostro salotto bono… a i’ ffango dell’alluvione! Soprammobili ganzi, posacenere artistici, coprilampade rococò, passpartout chicchirillò fin costassù… Nell’Arno d’argento, ciaffogo, e son contento…

Musica: “Sull’Arno d’argento”. Le luci sfumano al

Buio.






 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013