Pubblichiamo il monologo di Alberto Severi messo in scena nel novembre 2016 al Teatro della Pergola con la regia di Lorenzo DeglInnocenti e linterpretazione di Marco Zannoni, in occasione del cinquantesimo anniversario dell'alluvione di Firenze.
Personaggi
LArno
Raffaello
detto Caronte
Clotilde
Carlo
Emma
detta Sospiro
Omino
della fermata del 33
Giovin
Cacciatore
Signora
della aradio
Maresciallo
dei Carabinieri
Carabiniere
Anfuso
Ruth
signora americana
Pittore
gaudente
Pretino
Scrittrice
fané
sior
Todaro primattore dello stabile di Venezia
professor
Pierfilippo Cosi
Angela
Polvere
il cenciaolo
Lalluvione
viene narrata diacronicamente,
uniformando lo scorrere unidirezionale del tempo allo scorrere del fiume, da
una serie di personaggi che scorrono
per lappunto uno dentro laltro
entro un unico Personaggio Collettivo (lArno,
o Firenze stessa). Dopo il Prologo
affidato allArno stesso, si
parte dallapertura della diga di Levane, per molti una delle cause che provocò
il disastro (ma oggi si tende a scagionarla...), raccontata “in diretta” da Raffaello, il gestore del bar
adiacente alla diga; si prosegue col racconto dellunico avvertimento
dellimminente esondazione dato agli orafi di Ponte Vecchio sul principiare
della notte (Clotilde); poi la
telefonata fatta al custode dellacquedotto dal giornalista Nencini de “La
Nazione”, che illustra i disastri già provocati dalla piena a monte di Firenze
(Carlo); e ancora le prime
tracimazioni in città, nel cuore della notte e sul far dellalba, con linutile
tentativo da parte dei gestori di un negozio di stoffe di mettere al riparo le
proprie merci (Emma). A questo
punto, i monologhi lasciano il posto ad un momento corale, nel quale una serie di personaggi racconta la
“rottura delle acque” nelle prime ore diurne del quattro novembre, e poi la
terribile giornata che segue, fino al defluire della piena: lomino alla fermata del 33 mostra come
in periferia i disagi apportati dalla piena non fossero ancora colti nella loro
gravità effettiva; il Giovin cacciatore,
alzatosi allalba per una battuta di caccia, mostra la sorpresa nel trovare le
campagne completamente allagate, la signora
della “aradio” illustra tutta la sottovalutazione della catastrofe, sia
sui media nazionali, sia nelle periferie cittadine, ancora al mattino del quattro
novembre, mentre i due carabinieri sul
lungarno assistono terrorizzati in diretta alla rottura degli argini, e il
conseguente isolamento del centro storico si dà nel racconto boccaccesco del Pittore gaudente e della Signora americana, ma anche
nellaneddoto “etilico” dellattore veneziano ospite della rassegna dei teatri
Stabili; il Pretino di Curia è
testimone annichilito dellirrompere della marea di acqua e fango in piazza del
Duomo, mentre la Scrittrice fané,
dalla sua finestra-torre davorio, assiste quasi disincantata alla lotta di
Ponte Vecchio contro la furia degli elementi, e testimonia poi il progressivo
defluire della piena, e il “concerto” dei clacson delle auto in corto circuito;
mentre lesplosione delle caldaie è narrata di nuovo dai due carabinieri e dal
pittore gaudente. Dopo questo momento clou corale, lassestamento della
situazione, pure sempre critica, è affidato alla vicenda del professore costretto a ospitare gli
evasi dal carcere delle Murate, e altri due monologhi illustrano il “dopo
alluvione”: quello di Angela,
langelo del fango, e quello di Polvere,
il cenciaiolo filosofo che tira le fila: una citazione, nel nome e nel
personaggio, dei personaggi del “Grillo canterino” radiofonico, quasi a dire
come la tragedia travolga una certa Firenzina vernacolare e bozzettistica,
facendola tuttavia irriducibilmente “galleggiare” unultima volta sulle acque
limacciose dellArno esondato.
Si
noti come il senso del fluire da un personaggio allaltro venga suggerito dalla
ripresa, in ogni monologo, e financo negli a solo della parte corale, del tema,
delle parole o dellimmagine che chiudeva il monologo o la battuta precedente.
1. LArno
Le
luci oscillano su un palco ingombro di macerie, pozzanghere, mobili sfasciati,
pneumatici, quadri rinascimentali ricoperti di chiazze scure, cornici dorate
prive di tele, broccati sporchi di fango, manichini mutilati, bidoni di nafta
rovesciati, libri alluvionati. Su un lato, uno scalino con su dei rotoli di
stoffa e una pila di federe e lenzuola. Su un altro lato, il palo con una
vecchia “fermata obbligatoria” dellautobus 33. Un attaccapanni con un berretto
da carabiniere, un collarino da prete, una pezzòla da testa, e, appeso per la
tracolla, un fucile da caccia. Un tavolo col ripiano di fòrmica, e, sopra, un
vecchio telefono fisso color nero. Una sedia sfondata. Una rete arrugginita,
con un materasso sporco.
Seduto
su una sedia scrostata dallumidità, chino su una vecchia scrivania dallaria
disastrata – o forse: alluvionata –, nel bel mezzo di una vasta pozzanghera, si
indovina la silhouette dellArno vestito con un frac
impermeabile. Ai suoi piedi, un paio di stivaloni. In penombra, aziona un
vecchio fonografo a manovella, parte la voce gracchiante e sabbiosa che canta: «Le
gocce cadono, ma che fa se ci bagnamo un po? Domani il sole ci potrà asciugar.
Non si rovina il frac…chete. Le scarpe fan cic ciac…chete. Seguiam la strada
del destin…».
Intanto
su uno schermo si affollano immagini di nubi che si fanno e disfanno, a
velocità accelerata, con effetto drammatico.
LArno alza la puntina di riproduzione
del fonografo, la musica si interrompe.
Voce registrata fuori campo di Richard Burton che, nel famoso
documentario di Franco Zeffirelli, dice: «…Quello che è accaduto in Italia e a Firenze mi riguarda profondamente…».
ARNO (Variando
toni e inflessioni, interpreta le voci, che saranno quelle dei personaggi
evocati nella commedia o in alternativa anche queste voci potranno essere
registrate fuori campo.
Inizialmente è Emma) O babbo! O quanti giorni gli è, che
piove, tremila? Pare una vita, e invece son soltanto tre… (sospira; ora è Carlo) E mha telefonato
iPampaloni, Pampaloni Oreste, che sta in via Niccolò da Uzzano, e mha detto:
“scappa bischero, che stanotte saffoga!”. Però ridea, qui bbischero... (adesso è il Pittore gaudente) E ride! E ridano, loro! Ma icché tu ridi, strulla: questa gli è una
tragedia nella tragedia, ecco icché llè! (Voce di Richard
Burton: «...una cosa disumana,
terribile, come la guerra…») (Clotilde) Cè un tronco gigantesco, Duilio, che sbatte
contro la parete dinnegozio, ora lo sfonda! (voce di Richard Burton: «Tutto
è cominciato allimprovviso, senza un segnale, senza che fosse possibile sapere
in tempo…») (Clotilde) Duilio! Unnè
sortanto un tronco, cè appicciàta una Giulietta Sprinte. Una macchina! Occome
gliavrà fatto? (Maresciallo
dei Carabinieri) Icché tu
vòi sbarrare, Anfuso, llè una marea di fango, ormai un vien più in qua
nessuno, un tu llo vedi? (voce
di Richard Burton: «Il fango copre
tutto e riempie ogni cosa, un fango pesante e intriso di nafta…») (Bottegaio alluvionato) Alla nòva Pompei – Dalla mota a icconsumatore
– Prezzi sottacqua. (Voce
di altro bottegaio) Chiuso
per umido! Si riapre quando evapora! (Omino di Sanfrediano) Tanto San Frediano un mòre nemmeno collalluvione. Semmai, si spande! (voce di Richard
Burton: «Adesso Firenze ha bisogno
dellaiuto di tutti, perché Firenze appartiene al mondo…») (Polvere) Siiie, bellino lui! Co i ggirocollino nero, gli occhioni celesti… Va
ia va ia briaco, noi e ci sarrangia da soli, come sempre… (Angela)
Chi vi cià portati?
Chi vi cià mandati? Un lo so mica se poi, alla fine, vi si merita… (Bottegaio 1) Dalla mota a i consumatore… (Bottegaio 2) Si riapre quando evapora… (Omino di Sanfrediano) Semmai, si spande! (Angela) Quella nostra antica, tragica ironia di
fiorentini… (Omino di Sandfrediano)... un mòre nemmeno collalluvione… (Angela) …che llè innostro bene più prezioso, e,
forse, innostro limite. (voce
di Richard Burton, in un loop ossessivo, ripete ad libitum: «...Quello che è accaduto in Italia e a Firenze mi riguarda profondamente… mi riguarda profondamente… mi riguarda profondamente…»
(sfuma) (Polvere, con amaro sarcasmo) Profondamente sì. Profondamente una sega… fin costassù…
Le
luci lampeggiano. Ròtola lontano un lungo tuono.
Un lampo si accende
sullARNO, e lo rivela come
impaurito, e sorpreso. La musica tace. Le immagini sfumano.
ARNO (riprésosi dalla sorpresa, si alza, con un libro aperto in una mano,
viene sul proscenio, e recita con impeto un po comico, gesticolando ispirato
con la mano libera, un brano delle “Croniche” del Villani) “Onde. Onde quel dì… Onde.
Onde. Onde. Onde su onde. Onde quel dì, cominciò a piovere diversamente in
Firenze ed intorno al paese e nellAlpi e montagne… E così seguì, al continuo,
quattro dì e quattro notti, crescendo la piova isformatamente e oltre al modo usato, che pareano aperte le
cateratte del cielo… Per la detta piova il fiume dArno crebbe in tanta abbondanza dacqua… che il
giovedì a nona, a dì quattro di novembre, giunse sì grosso alla città di
Firenze, chegli coperse tutto il piano di san Salvi e di Bisarno, fuori di suo
corso…” (si interrompe, precisa)
Quattro novembre del 1333. E quattro novembre 1966. (Riprende la declamazione) “Tutto
il coperse e scorse dacqua, e consumò ogni sementa fatta, abbattendo e divellendo
gli alberi, e mettendosi innanzi e menandone ogni molino e gualchiere cherano
in Arno, e ogni edificio e casa appresso allArno che fosse non forte, onde
onde onde perirono molte genti…”. Bravo. (si batte il petto, con ironico orgoglio)
Sì. Bravo, questo “fiumicel che nasce in Falterona, e cento miglia di corso nol
sazia!” (afferra un altro libro
dalle pagine gonfiate dallalluvione: il testo del “Re Lear” di Shakespeare)
“E voi, soffiate venti, e fatevi scoppiare le guance! Infuriate, soffiate! E
voi, cateratte del cielo e uragani,
grondate acqua finché non abbiate sommerso i nostri campanili, e affogato i
galletti delle banderuole!” (chiude
il libro di scatto) Arno non cresce se Sieve non mesce! Ma se la
Sieve mesce, mesce mesce mesce… mesce di fòri lArno. (Cita a memoria il Villani) “E si fece buio, in pieno
giorno, su tutta la vallata”: il buio – oltre la Sieve! (Ride, poi si rivolge al pubblico).
Stolti.
Qualcuno pensava di avermi addomesticato, dandomi un nome? Eccovi serviti,
uomini. “Arno”, mi avete chiamato. Nasco, “fiumicel”, in Falterona. Sorgo. Sono
una sorgente. E poi sono ruscello, torrente, fiume, foce, mare. Sono i miei
affluenti. Sono la piova! Sono le nuvole che generano
la piova. Ora. Poi. Prima. Contemporaneamente. E dunque ditemi. Chi sono?
Ammesso e non concesso che io
sia qualcuno
o qualcosa… Perché voi, gli uomini… (sorride
con ironico compatimento) bellini… voi uomini mettete un nome
a un pezzo di realtà: di quella che a voi vi pare, la realtà, o che vi piomba
addosso, vi travolge, vi alluviona, vi infanga… Lo recintate. E pensate di aver
creato qualcosa di definito. Dato una volta per tutte. Arginato. LArno. Un
nome, unentità, unidentità. Che tale è solo nella vostra mente. Ma nella
realtà non cè, sappiatelo: e non sa desserci. Scolpite la sua
personificazione su ibbordo di una fontana. Ne fate un dio, magari: in
immagine e somiglianza di uomo nerboruto. Un fantasma di pietra. LArno. Ma
cosè, lArno? Dovè? Un fiumicel che nasce in Falterona. Quale fiumicel? Cosè
un fiume? Forse il suo alveo? Neppure. Il fiume è uscito dallalveo, si dice: e
quindi lalveo non è il fiume. Non ci piove. Cioè, ci piove, eccome. E se ci
piove, il fiume dà di fòri. LArno inonda Firenze, sia maledetto lArno. Sia
maledetto il fiume: ciò che non cè – e ciononostante cresce, travolge gli
argini, fa danni. Ma allora cosè, un fiume? Io, fiume, icché sono? Cosè la
verità? chiese Ponzio Pilato. E il Figlio dellUomo tacque. Acque. Acqua. Gocce
dacqua. Molecole dacqua. Che cambiano, continuamente. Scorran via, via:
milioni, miliardi, sempre diverse. Via, via! Non ci si bagna due volte,
nello stesso fiume. NellArno, poi, no di siùro: dopo la prima volta, tu mmòri
avvelenato! Ma quel tale intendeva dire unaltra cosa, lo so: che lo stesso fiume
non cè, per far bagnare due volte lo stesso uomo. E questo è giusto. Bravo
filosofo. Ma dico io: cè mai lo stesso uomo che possa bagnarsi due volte in un
fiume? O anche quelluomo, nel suo apparente persistere, e consistere, gli è
solo un alveo, che in fondo unn è lui, gli è uno scorrere infinito di
sestessi, miliardi di sestessi, ai quali solo la memoria luno dellaltro, il
successivo del precedente, conferisce una parvenza didentità?… Nellacqua, si
sa, cè una specie di memoria. Altro che “scritto sullacqua”! Soltanto quello
che è scritto sullacqua, nellacqua, ha qualche probabilità di persistere. Di
consistere… Di esistere… La Biblioteca di Atlantide! …
La memoria.
Solo la memoria dà
lidentità, solo lidentità dà la responsabilità. Ciò che non cè, non ha
colpa. Solo ciò che esiste, ha colpa. E forse solo ciò che ha colpa, esiste.
Inondo, dunque, sono. Nasco
in Falterona, ed è una colpa: il mio peccato dorigine.
E parlo parlo parlo – come un
fiume in piena.
Buio.
Rumore crosciante di
pioggia.
Sullo schermo,
immagini di terra intrisa dacqua, rigagnoli, zolle, radici, gocce su foglie,
cascatelle, pozzanghere, fango. Una diga.
2. Caronte
Penombra livida della
sera di novembre. Un fosco riverbero. Aperta campagna del Valdarno superiore.
Pioggia battente. Lattore interpreta adesso un uomo sui sessantanni, robusto,
ben piantato. È Raffaello Danti, il titolare dellosteria-tabaccheria “Arno” di
Levane, in provincia dArezzo. Sebbene riparato sotto una tettoia, tiene aperto
un ombrello verde incerato, da contadino.
RAFFAELLO Senti là come piove! Maremma cane… Uno scroscio continuo,
diobòno, me lo sento ni ccapo fisso da tre giorni. (Sbotta) E te aimmeno, che tu llabbozzi, di chiaccherare,
Cianferoni? Maremma cane! Pare tu ppìgoli! (Ne fa la parodia con voce nasale, petulante) Pipipì
pipipì. Proprio qui allorecchio!
(Spazientito) Eeeeeh… Lo so. E ciò paura anchio, Mario, o icché tu
ccredi? Più di tutti voartri messassieme, ciò paura. Maremma cane. Guarda te,
e giùdia un poino te, indollè ubicata, diobòno, la mi osteria-tabaccheria!
Propio sotto la diga, lè ubicata.
E appìcciàta
allosteria-tabaccheria, ciò ubicata, vero, anche la mi casa, co moglie e figlioli, e nipoti
piccini annessi e connessi eccetra eccetra.
E un ti dico attro,
Cianferoni. Lasciamo sta la sòcera, che quella se llaffoga gliè tanto di guadagnato,
gliè. Lè diecianni ce lho ubicata in casa. Un po dacqua in bocca la un gli farebbe mica
male, alla Teresa, aimmeno la si cheta una vorta tanto, anche lei. E una vorta
pettutte.
(Scuote la testa) Osteria-tabaccheria “Arno”, preciso. Perché, un ti garba?
Occome llavevo a chiamare? Mississippi? Mz! Va ia va ia. Ommagari,
osteria-tabaccheria “Gange”, si apisce. Osteria Gange. Brao Cianferoni. (Scuote la testa) Tussepoco Gange!
(Si sporge per guardare il cielo, sporge il labbro inferiore, fa un
gesto con la mano)
Badalà come la viene! Pare
pagato accòttimo, pare. E un labbozza mica, eh? Come si dice? Piove che dio
la manda. (Riflette, rapido, e
porta lindice al naso)
E Dio… bada bene Cianferoni:
Dio costassù, cià le su brave responsabilità, Mario, riòrdatene.
Sempre. Le responsabilità
ultime larrivano sempre, fin costassù…
Da retta a Raffaello.
Ma te, lo sai te perché noi
toscani si bestemmia così tanto, e di gusto? Pevvia che ci sha i ssenso
della responsabilità. E spirito critico. Peccodesto, le un possan esse
considerate bestemmie. No. Le sono, come dire? … delle critiche un po aspre,
via. Ma ‘ta attento: se anche Dio ci mette di ssuo, poi, noi, e ci si mette
di nnostro, caro Cianferoni.
Presempio, a me, digià,
codesta diga, la un mi sta mica bene a mmano.
Noe. Preciso. La mè sempre
sembrata un cazzotto n un occhio. Un ti pare? O un si stava un poino meglio
quando la un cera? Bah. Come latostrada disSole, laggiù n fondo. Co i
ssu ponticino fatto a bbischero, come lo chiamano? I vviadotto. Sì. E
ivviapisolo. Ora sintitola le vie a sette nani! Via Brontolo, via Dotto… Via
Fanfani da iggoverno, piuttosto. Ppoh! Atostrada disSole! Ber misole,
davvero. Da quando gli han fatto latostrada, lè sparito. Seondo me, veniva
più volentieri colla Cassia. O colla via Aretina. Atostrada disSole. O bbravi! E diga! Riborda. Propio lì a ppicco,
ubicata
sulla miosteria-tabaccheria. Noe. Mz! E un mi
garba punto. La mi pare una spada di Patroclo. Occome diascolo si dice, un me
ne rammento. Come si dice? Empedocle? Temistocle? Una spada di Temistocle. Brao Cianferoni, si vede tu ha
fatto le medie da preti.
Bada là. Gli è piena, la
diga, la pare un catino riòlmo, icché gli aspettano ad aprilla? Che succeda
anche qui come ni vVajionte?
Sì, lassù nalta Italia,
Cianferoni, tha capito, via.
Anche qui a Lèvane e ci sarà
drento, maremma ane, du quintilioni dettolitri dacqua…
Che schifo. Che schifo
lacqua, maremma ane. Ma icché laspettano? O un lo dice i nnome stesso?
Lèvane! Basta la parola, come la purga. Lèvane. O llèvane un poina, no? di
codestacquaccia! àprile, codeste paratìe, icché taspetti, ènelle? Alle
cinque, sì, gliè sonata la sirena, e nhanno fatta escire un pisciolìo, ma
tirati su le ciocce!
Intanto, seondo me, da retta
a un bischero: bisognava che lavessero di già aperta alle due. No alle cinque.
Eppoi, ta allunto! Nhanno fatta escire unidea. Una perifrasi. E fo più
acqua io a i llìcitte, Cianferoni, quando mi sento pigiare la prostata sulla
vescica, di quantacqua gli abbiano fatto esci loro dellènelle dalla diga!
Eeeh! Ma lènelle, si sa, più ce nè, dacqua ni ccatino, e più e sono
contenti, que bischeri. Ci devan fare lenergia idroelettrica, loro! (Scuote la testa) Poerannoi. E sè fatto una bella chiappa, vai, a ffa la
nazionalizzazione, da retta a un… Millecinquecento migliardi, gli sè dato,
alla Selte Valdarno e a tutti quegli attri ladroni he cera prima! Eh! Io,
palle, sullenergia che vien dallacqua, e ciò sempre avuto de seri dubbi.
Delle grosse perpressità! Macché acqua! Toh! Ivvino lè poino meglio! Pe
qquanto mi riguarda, io, lenergia, lho sempre pigliata da ivvino. Chiedilo
alla mi moglie. Non pe nnulla e mi figlioli e si chiamano: Ruffino, Putto,
Gallonero e Vernaccia. Chissà perché, ipprete un me lha voluti battezzare.
Meglio, però! Così un me lha annacquati. Nonnò. A me lacqua la un mi garba
nè poo nè punto, Cianferoni. Da retta a un bischero. E lo so, lo so, vai, mi
chiamano “Mani sudice”. E pe un oste, via: unnè immassimo, diciamolo.
Speciarmente quando mi pòle capitare dinfilare ippollice nella ribollita.
Pòle capitare. Pòle, no? Ma lacqua la un mi garba punto. E costassù,
Cianferoni, ce nè uno spicinìo dettolitri. Se non lènelle, aimmeno iggenio
civile potea pensacci lui, no, a ordinà daprire le paratìe? A me mi pare poo
genio, e anche poo civile…
Tira su col naso, si
sporge, guarda il cielo al di là della tettoia.
O quanto llè che piove,
Cianferoni? Vabbe che glie novembre, anche se fa un cardo boia. “Piovoso”, lo
chiamonno quande ci fu la Rivoluzione francese. Piovoso. Lho letto sulla
“Settimana Eminnistica”. Ora, Piovoso, va bene. Ma qui, da retta: cè
lesagero...
Suono di sirena.
Aspetta, tha sentito?
No?! Allora tu sse sordo.
La sirena. Lha sonato
unartra vorta! Cianferoni! Laprano le paratìe. Cianferoni. Mario.
Sbarra gli occhi e resta
a bocca aperta, inorridito. Quello che vede davanti a sé gli toglie il respiro,
e la parola. Apre e chiude la bocca senza emettere suono, un paio di volte,
poi, sconvolto dal terrore, balbetta.
Oddìo! Ma… Madonna su
icciuco, Cianferoni, badalà che roba. Unnè mica possibile!
Scuote la testa,
incredulo, sempre con gli occhi sbarrati.
Gli è una muraglia! Gliè una
montagna, unnè possibile, Cianferoni, gli è un incubo! Senti te che rombo,
Cianferoni! Gli è lApoalisse! No, no! Chè! Io corro ma a casa. Va te colle
donne. Vai. Porta via le donne, e e figlioli. E anche cuniglioli, toh! se ti riesce!
No, io un posso veni via.
No. Resto qui, colla mi casa, colla mi roba. E un la lascio, dio bòno, resto
nella miosteria-tabaccheria, lì, indollè ubicata, tiro giù la saracinesca, Cianferoni, dietro ci trascino e
mobili più pesanti, fo una specie di barriàta, tha inteso? Sargo su, a i
ppiano di sopra, mi metto una coperta addosso, e aspetto, io, da me solo.
Perché e contadini,
Cianferoni, e mi chiamano “Mani sudice”, ma giù in paese quelli più struiti,
lo sai te come mi chiamano?
Sì. Sai una sega te, Mario,
come mi chiamano...
Eppoi, chi mi sente più icché
dico, oramai, con questo rombo dacqua, questo bailamme, questo fracasso
orrendo, tremendo, di quintilioni dettolitri dacqua malidetta, accidentalle
dighe, alla pioggia, a novembre, e allArno!
Badalà come la corre, larrìa
fin sotto le finestre! Come la schiuma! Largine e pare scoppiato. E gli
alberi, madonna bòna! Bada te come sàrtan sullonde, paian crocifissi tutti
ritorti! Madonnina, gli è la fine dimmondo! Eeeh, un cè cristi, pallino,
tutta questacqua, giù a Figlìne, a Incisa, la farà de danni da
unnimmaginassi nemmeno. (quasi
uscendo dal personaggio, e profetizzando il futuro) Poi vedrai
diranno di no. Che lapertura della diga la un centra nulla, che si volea
sortanto iccapro espiatorio… Che le cause di ddisastro sono state ben altre,
e lapertura di Levane e La Penna lha arzato ilivello diffiume sortanto di
poi centimetri… (rientra
nel personaggio e nel tempo fittizio) Ma se tanto mi dà
tanto, lo sai icché ti dico, Mario? Stanotte, o domattina, quando tutta
questacqua gli arrìa a Firenze, in quellimbuto di case e di strade, dico: a
Firenze, lArno strarìpa.
Comè verIddio. Straripa.
Come lè vero che mi chiamano Caronte, Cianferoni.
Sì.
Ma sa una sega te, poero
strullo – chi llera Caronte…
Buio.
Rumore crosciante,
assordante, che sfuma in un altro rumore più regolare, ma insistente, di
pioggia battente, attutita dai muri spessi di una casa borghese.
3. Clotilde
Una donna di mezza
età, distesa nel letto matrimoniale (è la vecchia rete, col materasso sporco).
Luce soffusa della abat-jour sui comodini. Fuori della camera, nella notte, si
ode il rumore attutito della pioggia crosciante.
CLOTILDE Ovvìa. E un me lo riòrdo, Duilio. Oioi. Come tu ssei. (Stronfia) No, aspetta. O unnera… qui vvecchio demonio… cogli occhi alla brace…? Sì, nella “Divina
Commedia” di Dante… quello che… che traghetta e dannati da una sponda
allaltra diccoso, lì, iffiume dellInferno, ome si chiama, via… Come alla
Nave di Rovezzano…
E ccerto che nellInferno cè
un fiume, va! Ci sha a Firenze, ce lhanno perfino a Ponta Ema, un fiume:
piccino ma ce lhanno: vòi te che un ce labbiano allInferno? Ti torna?
Si batte una pacca sul
ginocchio.
Caronte.
Ecco come si chiamva. I
ddemonio. Caronte, cogli occhi alla brace.
Ora però basta, con codesti
indovinelli e parole incrociate, via, Duilino, da retta alla tu Clotilde, una
volta tanto, llè guasi luna di notte… Vabbe che domani gli è festa, ma a me
codesta luce accesa la mi fa venire la micragna a iccervello, e poi iffatto tu faccia le parole incrociate
alletto, te lho belle ddetto un miliardesimo di vòrte, e mi dà di morta ma
di morta…
Squillo di telefono,
il classico trillo “ruvido” e ansiogeno degli anni Sessanta.
I ttelefono? Tha sentito,
Duilio? I ttelefono, siùro. A ssonare così, e un sarà mica
iffrigorifero! (Agitata) Oioi poerini! O icché sarà successo, Duilio? Va te a
rispondere, che a me mi trema porpacci. (piccata)
E porpacci, sì. A me, quando mi piglia le chèche, e mi tremano
porpacci… Sarò padrona? Oioi. Tu lo sai, son sensitiva. Capace llè morta la
tu mamma. Eh, tu vedrai, la mia no di siuro, llè mmorta sei anni fa. Vai,
vai!
Fra sé, mentre il
marito è andato a rispondere al telefono in unaltra stanza.
Poeradonna. Ti parea! Domani
gli è i quattro di novembre, si potea sta tutti tranquillini, no? che gliè
festa. Ma figùrati se quella
la un ti fa
iddispetto di morire propio stanotte. E senti là come la viene! Unne smette
più. Mmmhh! Te limmagini te che giornatina, domani… Tutti vestìti di nero,
colle galosce, co questa pioggia! Mmmhh! Da mmungessi e ginocchi, guarda!
Al marito, che rientra
in camera.
Allora, Duilio? O che faccia
tu ffai? Tu ti devi fa ma coraggio. Ormai la ciaveva unetà, anche lei… La un
sarà mica una “dipartita prematura”, a novantasettanni, un lavrà mica
strozzata la balia nella culla, io ci metterei una firma grossa come linsegna
dicCinzano cè in piazza della Repubblica. E poi, guarda: piuttosto che
vedella spengessi appoo appoo come una candelina, poeradonna… e, giorno dopo
giorno, vedella anda via così… a ruba! …
Si interrompe, vacillando;
sbatte le palpebre due o tre volte.
Occome sarebb addire:
“chètati e vèstiti”? E gli è lluna di notte, Duilino, un so se mi spiego,
senti te come piove, ormai poeradonna la unne scappa mica, e ci sanderà
domani, dalla bonanima della tu…
Spiazzata. Vacilla di
nuovo.
Ah, la unnè morta – ancora? E allora chi gli era a i
ttelefono?
Chie?
I cCesaroni?!?
La guardia giurata?
Si spaventa davvero.
Oioi mammina, ma allora… O
poerini, gli hanno svaligiato la bottega!
Vabbene, mi cheto mi cheto.
Ma mi vòi dire icché gli è successo?
LArno?
Gliè gonfio?
Ma mimporta assai, Duilino… Se gli
è gonfio, poi si sgonfia.
Come sarebbe a dire, “staolta
no”?
Va bene va bene, mi vesto. Ma
icché si va a fare?
Icché?! A portà via la roba
più preziosa?! Ma te tu…
E come, Duilio? E tummi pari
strullo…
Va bene va bene, piglio le
valigie. Così, vorrà dire si svaligia noi, innegozio. (piccata)
Ho detto peffare una battuta, gnorante! Quante, due?
Icché?? Sei o sette? Ma te tu
se tutto…
Va bene. Mi cheto.
Buio. Immagini
frenetiche e suggestive sullo schermo. La donna indossa un impermeabile sulla
veste da camera. Luce su di lei, che entra nellabitacolo di unautomobile (la vecchia sedia sfondata).
Ovvìa, aimmeno vorrà dire si
rinnova i mmilleccento nòvo. Mmh. Badalà ome la viene… Piove par dessere
sotto la ascata di Nniagara, in Affrica.
Unnè in Affrica, i
nNiagara?
O qquesta?
In Amèria?!?
Ie! O da quando?
Ma so assai, io, Duilio. Tu
sse te, lesperto di parole incrociate. A me mi parea un nome affriàno.
Niagara. Buana. Tucùl. Bah. Comunque, un sarà in Affrica, però, senta mme: fa
cardo. Troppo cardo, via! pennovembre. Mm?! I casi son due. O sono n
menopausa io, o llè un ciclone
tropiàle
lui. Giusto. Sempre di ciclo
si tratta,
tha ragione…
Ma…! Ma icché succede,
Duilio? Ma tu llha visto, un si vede nulla?
Icché?
(Lo imita, in parodia) “Se un si vede nulla, come fo a ave visto?”
Un lo fare lo spiritoso, Duilio,
tha capito benissimo. E tergicristalli pare un ce la fàccin più a buttalla
dalle parti, lacqua. Madonnina santa. Par dessere dentro a un sottomarino.
Ora sta avvedere passa di là da i ffinestrino un branco di tonni. Ma ché
tucci vedi, Duilio, o tuvva alla ceca?
Tuvva alla ceca.
E mi pareva, infatti. Benino,
va! Si sta lustri. Meno male un cè guasi nessuno pelle strade, sennò si facea
a boccette. Ci credo. Un sono mica bischeri come nnoi, a anda aggiro n una
notte come questa. O quelli icché sono? Che tu hai visto, Duilio? Da tombini
escano fòri degli spruzzi alti sei metri, come in qui pparco ameriàno. I geiser-s. Lè ameriàno. Collesse in
fondo. Geiser-s. O poerini, che roba! De getti dacqua di fogna l
arrivano a primi piani… Senti te che puzzo. A me, mi pa di sognare, eh….
Ecco, férmati allangolo, sì,
lì allangolo dipponte, bravo.
O unnè icCesaroni, codesto
costaggiù? Sie, va ! Gli è zuppo come un savoiardo, poeromo.
Scendo, scendo...
Madonna, Duilio! Bada là!
Ocché tu llha visto lArno, come llè! Gli è più alto dillungarno, e fa
raso alla spalletta! O se gli arriva allarcata di pponte! O poerini! Staorta
ce lo butta giù, colle botteghe e tutto! O Duilio!
No, te “oduìlio un par di
zeri” tullo dici alla tumamma! E sono agitata, sì, sono! Ma icché vogliano,
que giovinastri, co quelle cinquecento ferme allimbocco di Por Santa Maria!
Cianno gli abbaglianti accesi, e paiano de gattacci accoacciàti! Icché gli
urlano! Dèan esse comunisti, sai, io ciò paura. Cesaroni, la ciaiuti lei, la
tiri fòri la pistola! Aiuto! E ci corran dietro! Lha sentito icché gli
urlano? “Forza, forza, che gliè la orta bòna, fra dieci menuti crolla tutto,
gli è meglio vulli diate a noialtri, tutti codesti gioielli!”
Urla contro i
“giovinastri”.
Cattivi, vu ssiete!
Ciattroni!
Duilio! Duilio, indo tu sei!
Ah, ecco, gli è belle costassù alla porta dinnegozio, guarda. Stasera e fila
via pare unto. Sè dimentiato anche dellartrosi. Mh! Tanto un ce lha mica.
Fa peffassi compatire…
Apri, Duilio, icché
taspetti, di fa lla muffa, sotto questacquata? Come, un sapre? E si sarà
arrugginita la serratura, si sarà. Sbrigati, che cè anche que giovanottacci
mi vengan dietro… Noe, bischero, e un mi pare desse tornata giovane. Vòle
fare i ssempàtio, lui! …
Ovvìa, finalmente. Entra dentro, son tutta bagnata… O llascia stare doppi
sensi! Strullo.
I rumori diventano
allimprovviso attutiti, ma sale come un brontolìo di fondo, e il tintinnare di
fragili oggetti che vibrano. La donna è entrata nella bottega. Sbarra gli
occhi, impaurita.
O Duilio.
O Duilio, tullo senti? Icché
llè? I ttremoto? I ppavimento e trema tutto. Cè i ffiume gonfio propio
sotto i ppiancìto. Allora, lè un fiumemoto!
Che esiste? Iffiumemoto,
dico...
Rumori sordi, ma
violenti. Trasalisce.
O poerini! O icché son
codesti stonfi? Come: “gli alberi”? Ocché tu se grullo? Che cè gli alberi ni
mezza i ffiume, ora? Oioi, Madonna, Duilio… Tha ragione! Fòri dalla
finestra, gli è passato un albero. Messo pe illungo, si apisce, mica pe
ddritto. Tu ffa de discorsi, anche te… Oioi. Sbrighiamoci, pena
poco, o saffoga tutti quanti. Piglia le robe più preziose, gli ori, le pariur
co rubini, iddiademino quello a spolvero, colle perline… Sbrighiamoci,
Duilio, tutto un si pòle pigliare, via. No, un si pòle, un si pòle. Mi
piange i ccòre, ma un si pòle, tutto. (Le luci si spengono) Ecco. Ora gli è anche
saltata lelettricità! Pe ffortuna su ipponte cè tutte quellaltre luci,
icché le sono? (Sbircia) Ah, devan essere e fari
delle macchine di quellaltri gioiellieri. Tha visto? Cè la Mimmi, Baldino e
la su moglie… Tutti quelli della Società Gioiellieri Canottieri: Neri, Vieri,
Geri, Ranieri… lAltroieri. I gGiangi colla Noemi. Sì, vengo, vengo… (Un forte rumore, la donna perde lequilibrio) Madonna, tha sentito che
botto. Trema tutto! (Sbircia alla finestra) Cè un tronco gigantesco,
Duilio, che sbatte contro la parete dinnegozio, ora lo sfonda! Duilio! Unnè
sortanto un tronco, cè appicciàta una Giulietta Sprinte. Una macchina! Occome
gliavrà fatto?
Andiamo via, Duilio! Un
voglio morire affogata, spiacciàta da un albero, e messa sotto da una Giulietta
Sprinte tuttin una vòrta! I ttroppo stroppia! Anca rraccontallo, da vvedovo,
un ti ci crederebbe mia nessuno! Dice incastrato sotto ipponte cè un càmio!
Ti rendi onto? Un càmio! Pena poco! Tha sentito e carabinieri: andate via,
gli han detto, chi resta lo fa a propio rischio e perìolo, a propio rischio e
perìolo…
O maresciallo… brigadiere,
tenente, insomma icché vu ssiete… Ma perché un vunn andate a avvertire tutta
quellaltra gente, nelle case, perché un vunn andate a dare lallarme
collaltoparlante, aggiro pella città? Qui fra due o tre ore a i mmassimo, e
si finisce tutti sottacqua, o un lo vedete? E quegli altri dorman tutti tranquilli,
come se nulla fosse. O ccome sarebbe a dire che un vucciavete avuto lordine?
Qui va sottacqua Firenze, che ordine vu ddovete aspettare? Soltanto noi, vu
avete avvertito?! A ppensacci bene, via, siamo giusti: un ci si sarà mica
soltanto noi orafi, a Firenze… no?
Io e immimarito, presempio,
e ci sha anche tanti clienti…
Vero, Duilio?
Eh, se un cera icCesaroni,
che lavora la notte…
Arraffa gli ultimi
gioielli. Scappa via. Buio.
4. Carlo
Luce di neon,
spettrale. Lattore adesso interpreta un uomo sui cinquantanni. Seduto su una
sedia a gambe divaricate, davanti a una scrivania dimessa, col piano di
fòrmica, quasi un banco di scuola; parla al telefono, un po in affanno.
CARLO Perché a me di laora la notte, e mi garberebbe anche, che
lha inteso, dotto Nencini? La lo scriva. Unnè mia normale, lo so. Ma io
son fatto osì. Ormai son cinquanni, cinquanni! che son passao sorvegliante
dellimpianti dellAcquedotto allAnconella. Davvero! Gli è un laoro di
responsabilità, davvero. E itturno di notte e mi capita spesso. Allora lo sa
icché fo? E mi porto un tèrmosse di affè, che mi resta guasi cardo. Un po di
pane olla finocchiona. Una birra splughen, perché come dice irRamalli, che
lha sposato una di Stoccarda, “tedesca gliè è più bbòna, cè poo da ffa”… (Ride, nervosamente) E ppoi e mi porto anche una ventina di sigarette, pe
ivvizio. Nazionali co i ffiltro. O sennò le Muratti, comprate a stecche a
Careggi, sa? da greci, di ontrabbando. Questo però, la un lo scriva su
iggiornale, eh? Anche se de greci di via da Tolentino lo sanno tutti, a
Firenze. Ci va perfino immaresciallo Rapetti della finanza, sa? quello co
ippizzetto saleppepe, unnè mia nor… Piuttosto, che ll ha scritto bene, i
mmi nome, vero? Maggiorelli Carlo. Co ddue gi. E ci tengo. Io sto su a
Pozzolatico sulla ollina. Sì. Scendo allotto di sera, colla Sita. Anzi,
allotto devo esse di già qui allAcquedotto. Da Pozzolatico sulla collina
parto alle sette, sette e un quarto. (Sorride, il suo
sguardo si perde nel ricordo) Destate, a quellora gli è ancora chiaro. Mi garba. Vedo i
ttramonto sulle colline. Le nuvole strasciàte, che e mi paian fatte di panna e
fragola. E larancia di ssole, che la va giù, dietr a imMontalbano.
Madonnina santa! Ma che sarà poo bello, issole che tramonta? Occome lavrà
fatto a inventallo, domineddio? Dopo mezzo seolo che lo vedo, sonNencini, e
un mi ci sono ancora avvezzo. Sì, gli è vero. Dentro di me, sono un po poeta.
Lo so, un son mia normale. E invece dinverno, quando parto da Pozzolatico
sulla collina, gli è di già buio da un pezzo. Mentre scendo colla Sita, vedo
tutte le lucine di Firenze che brillano, nella vallata, e mi piglia uno
struggimento a i ccòre…
(Si rabbuia, e si fa ansioso) Oggi, però, gli era di già
buio alle tre dippomeriggio. E lo sa icché? Bravo. Unnè mia normale – una
osa di ggenere. No. Mai visto un cielo così buio e nero, a quellora. E mai
visto pioere così tanto e così forte. Son arrivato qui a Villamagna,
allAcquedotto, peffare itturno di notte, e mi girava anche un bel po gli
zibidei, scusi ittermine “zibidei”, perché laorare la notte va bene, ma propio
pella vigilia della festa delle forze armate, via! Gli è un ber giramento di
scatole, diciamo (peun dire: zibidei). Anche voi costì alla Nazione, vedo, stanotte,
vullavorate, poeri cristi… Ho visto in piazza Beccaria vu avete messo su un
bello stabilimento nòvo, tutto moderno. Bravi. Certo, raazzi, (ride nervosamente) gli è mai possibile che pe iquattro novembre e piova
sempre? Poh! Gliè la festa più bagnata ci sabbia n Italia. Tutti que
triolòri mézzi… mettano una trischtezza, raazzi… E gli atoblindi lustri di
pioggia…!? Mahonna raazzi..! Sarà che si festeggia la vittoria. E noi italiani
si vince così di rado, che quand e si vince cambia ittempo, e si metta
ppioere. Eh?
(Incupito) E nsomma, appena arrivato da Pozzolatico sulla collina,
gliò visto che di là dallalbereta iffiume gli era guasi apparo, raso raso,
passava lesto esagerato, parea un fiume da Oggi
le comiche di Ridolini, e nella orrente portàa tronchi, rami secchi,
bidoni, assi di legno, perfino una bestia morta. E mi son detto: “Carlo:
unnè mia normale!” Ciò cinquantadu anni, e un fiume così brutto giuro un
lho ma visto. Mai. Lo sapeva, dotto Nencini, che dopo la mezzanotte, a
Villamagna e Gavinana, cera di già delle cantine e de seminterrati allagati,
lo sapea? Mha telefonato ipPampaloni, Pampaloni Oreste, che sta in via
Niccolò da Uzzano, e mha detto: “scappa bischero, che stanotte saffoga!”. Però ridea, qui bbischero. Unnè mia normale,
anche lui. Però gliè brao, eh? Poo dopo, gliè arriato n Acquedotto, co
unartra diecina doperai. Alluna, sè cominciato a staccare e motori. E
mezzora fa, poco prima la mi telefonasse lei dalla Nazione, gliero così preoccupato
pellArno, che ho telefonato io, in piena notte, alla mi sorella Ada, che la
sta a Incisa. Gli era sveglia anche lei, tutta concitata, e la mha detto: «Carlo,
per me stai tranquillo, che si sta su ippoggio. Prima che lacqua larrivi
qui, e si vede passare la barca
di Noè colle
giraffe e gli ippopotami. Siùro. Ma giù, Carlo, giù gliè lApoalisse! Verso
Figline cè dumetri dacqua. Nelle ampagne e contadini sono scappati su
tetti, cè beschie morte, mucche, peore dappertutto, unnè mia normale! Se
tutta questacqua larrìa a fFirenze, tu tti devi preoccupare ma pe tte,
scappa a casa, bischero! Vai su a Pozzolatico sulla collina dalla tumoglie!».
(Riflette, torcendosi le mani, lo sguardo fugge frenetico, come
quello di un animale braccato)
A Pozzolatico. La dice bene,
lAda…
(Sbotta, agitato)
Ma io come gli ho a ffare?
Eh? La mi dica lei, dotto nNencini.
Prima di tutto, io e un
credo che se ci fosse periolo vero pe una città di mezzo milione dabitanti, e un ciavrebbero
avvertito pettempo.
No?
Lei, che la scrive su
giornali, icché la dice? Un sarebbe mia normale…
No.
Eppoi, quandanche larriasse
lalluvione, quandanche larriasse… e io ciò paura che la stia
arriando peddavvero… quandanche larriasse… (quasi gridando, con le
lacrime agli occhi) e un posso mia lascia limpianti ncustoditi! Noe! Un
sarebbbe mia… Cioè. Ciò un incarico di responsabilità, io! Domani un saesse a
ddire… Vero!
(Si placa)
Piuttosto, moio qui. A immi
posto di laoro. Mangiare, ho di già belle mangiato… (i ppanino colla
finocchiona, bravo.). Ho bevuto la splughen. Tedesca. Ho preso anche
iccaffe, guasi cardo. E ora mi fumo una sigaretta. Di quelle de greci.
Se deo morire, e moio
satollo.
(Ha un triste sorriso nervoso, intriso di presagi)
Capace, poi, fra un paio di
giorni, passato tutto, mi ritroano n un cunicolo pieno di fango, e dicano:
bravo, Maggiorelli, lo vedi? lè stato un eroe, ipprimo eroe dellalluvione di
Firenze.
Capace la mi scrive propio
lei, un articolo su iggiornale.
Mah.
Ora però la mi scusi. Devo
finire di tira su una protezione allimpianto diccoso, là. Iccoso pe
ccosare, sì! E mi ci òle più tempo a spiegallo che a fallo. Un posso più
restare, a ittelefono, co llei, e mi dispiace. Anche perché stasera… un lo
so. Ciavrei una gran voglia dunne smettere più, di chiaccherare con quarcuno.
Bonanotte, sor Nencini...
Ah, sor Nencini!
Scusi tanto. Ma che llha
scritto bene, i minome, vero?
Ci tengo.
Maggiorelli Carlo.
Maggiorelli,
Con due gi.
Riattacca. Buio.
Cresce il rumore delle macchine, mischiato al crosciare della pioggia, fino al frastuono…
5. Sospiro
La luce obliqua di una
torcia elettrica illumina una giovane donna, sui trentanni, che tiene in mano,
con fatica, una pesante pila di lenzuola e federe di cuscino. E Emma Lanzini,
dei Lanzini commercianti di stoffe, tessuti e corredi. Bruttina, gia un po
rassegnata allo zitellaggio, è soprannominata “Sospiro”, per la tendenza a
sospirare e rammaricarsi spesso, però in fondo è determinata e virile, e si
sente lerede designata dellimpresa. In piena notte è accorsa nel negozio in
piazza Duomo insieme al padre, per mettere in salvo dal sempre più probabile
allagamento le stoffe più preziose, spostandole al piano di sopra. Attutito, ma
presente, il crosciare insistente della pioggia.
EMMA (sospira) E sono liniziali ricamate
di Giorgiana Gerini, no? Onlo vedi, qui, babbo? Due gi. Doppia gi. La
marchesa Gerini, babbo, via, un te ne rammenti? Quella brutta, antepatica,
mbecille. Vecchiotta. Un po gobba. Senza denti. Sciancata. La si sposa i
vventisei, su a san Miniato.
Occome, chi la piglia? La cià
una paccata di migliardi, se gliero un òmo la pigliao ma io. (Sospira) Vabbe, che come dici te, i ttu figliolo maschio son io.
Egidio gliè bòno sortanto a sonare ivviolino a icComunale, e rìzzati. Nemmeno
fra primi
violini.
Fra seondi. Mm! E ringrazia Iddio che e terzi un ci sono, sennò lera finito
fra terzi, colla voglia di laorare si ritrova. Così difatti stanotte lui gliè
n turnè a i cCairo, tutto di profilo allegiziana – e a fassi ippaniere ni
nnegozio, co rrispetto parlando, in piena notte, e co irrischio dun
alluvione fra capo e collo, chi cè? LEmmina, si apisce. Lomo di casa. La zitellona.
Soprannominata “Sospiro”, poi un si sa nemmeno bene i pperché…
Sospira a lungo.
Comunque, babbo, un cè
cristi: ‘llè roba bòna,
anche questa, bisogna portalla via su in tutti modi. Lo so che le vetrine le
son di già piene della roba ci sè portato su dagli scaffali. Vorrà dire che
questa la si mette sugli scalini che portano a ipprimo piano, no? E anche
tutti que rotoli di cachemire che sè comprato a Londra orellanno. Sarà sempre
meglio che lascialli negli scantinati, no? Laggiù vanno a mollo siùri, qui
sugli scalini no.
Penso – di no.
O quanto ancora glià a
ssalire, lacqua? (Sospira) No, babbo. Qui, scusa tanto
ma te tu sbagli. Pe ssalire, la sale. Magari no come in via Quintino Sella,
dalla zia Giovanna. Qui in centro, un doverebbe arrivare così in alto. Un
credo. Magari poi anche la zia lha esagerato, vero, a sali su ittetto co
ttutta la famiglia. Gli è sempre stata unesagerata. Sennò la un ciavrebbe
avuto tre mariti e otto figlioli. Più due aborti. Esagerata! Ma la su casa lè
a un piano solo, che un te ne rammenti? E e pompieri li volevano fa
sgomberare. Pe sicurezza. Così, lei e Renatino gli han preferito pigliare
baracca e burattini, coperte, incerati e ombrelli, e sali su ittetto, con
tutta la prole a isseguito. Te limmagini, bellini? Mi pa di vedelli, guarda.
Mh. Sembreranno Mary Poppins e lo spazzacamino niffirme di Walt Disney. (Canticchia) Cam caminì, cam caminì…! (Sospira) Poera gente. Io, guarda, li
piglierei anche da noi, in via Masaccio. Ma otto figlioli indoe si mettano?
Via! Un ci sha mica lIstituto dellInnocenti.
Uno, quando mette a immondo
tutti que figlioli, doverebbe anche fare un attimo mente locale, e pensare a
come sistemalli poi negli scaffali. Pe usare una metafora. (Sospira)
Comunque, lha fatto bene a
telefonacci. Anche se veni svegliati da uno squillo alle quattro di notte cè
da pigliare un coccolone. Difatti, a te, tho dovuto fare immassaggio
cardiaco, vero.
Ma che tha visto, in via
Cerretani? Gliè un po più basso di qui, e cè di già venti centimetri dacqua!
Da indove si sta noi, un ci si potea davvero immaginare una roba diggenere…
Tieni bene la pila, babbino,
sennò un ci vedo un prospero. Eh, la luce lè andata via, tu llo sai: co
ittemporale, la lo fa… (Sospira)
Se ppenso che ieri sera son
andata a ifFiamma, tutta tranquillina, collElisabetta, a vedere I
combattenti della notte! Un si potea certo immaginare…
Lo guarda stupita.
Come: “come llè?”
O babbino, ocché ti pare
immomento di fare lAnicagis?
Scuote la testa.
Sospira.
Comunque, bellino. Ho pianto
tanto. Come un vitello. Iersera, ero indecisa fra: (enumera sulle dita) quiffilme lì che poi sè visto. Che
notte, ragazzi! a imMetropolitan. E Le piacevoli notti a ifFulgor.
Tre titoli che, a aello saputo, e mi sarebbero sembrati, come dire? profetici.
E anche un po portatori di merda, a di la verità…
Va bene va bene, babbo: un
parlo male. Dattronde, se sono lomo di casa, potrò dire anche quarche
parolaccia, no? (di getto)
Cazzo fica culo merda. (Sospira, accatasta i rotoli di stoffa) Zitto. Tha sentito? Quella
guardia notturna glià detto che lArno gliè uscito di già n Oltrarno, a
Gavinana… Però, laggiù, itterreno lè ppiù basso, no?… Capace che qui, in
piazza Dòmo, più che allagare gli scantinati, un fa… Cheddici, babbo?
Eh?
Ti pare?
Mah.
Speriamo.
Il croscio della
pioggia si intensifica. La donna guarda verso il soffito. Sospira.
Certo. Senti te come la
viene… O quanti giorni gli è, che piove, tremila? Pare una vita, e invece son
soltanto tre… (Sospira) Seondo me, gliè colpa delli
scozzesi, sai? Accidenta lloro, alle su sottane a quadri, e alle su
ornamuse. Massì, babbo: gli scozzesi, quelli diggemellaggio co Edimburgo. E
son tre giorni che sònano le zampogne pelle strade, briachi, a sfracellare
ogliomberi a mezza Firenze, e son tre giorni che sè messo a piòere a
quelloddìo. Bah! La sarà anche una coincidenza, ma a me la mi puzza. Co
rispetto parlando, vero…
(Sospira)
Speriamo un si faccia
iggemellaggio anche colla Nuova Orleàns! Sennò capace ci piombano in piazza
Signoria pe tre settimane seicento negri co ibbanjo, e vien giù iddiluvio
universale.
(Canticchia) Old main river…E passa i ffiumeee…
Continua a mugolare il
motivo, mentre ammucchia le pile di stoffe. La canzone è soverchiata dal
crosciare della pioggia. Buio. Dies Irae di Verdi.
6. Si rompono le acque
(Corale).
Sullo schermo,
immagini depoca. In bianco e nero. LArno tracima dalle spallette dei
Lungarni, sui ponti. Voce di Richard Burton: «il modo terribile in cui tutto è perduto
ormai lo sapete…»
Sul palco, sotto una
“fermata obbligatoria” dellautobus, in periferia, un omino con una coppola
impermeabile calcata in testa, i dentoni sporgenti, gli occhiali spessi, si
agita nervoso, quasi sconvolto. Ha un clamoroso difetto di pronuncia: in
pratica dice le “esse” quasi come se fosse una “effe”.
OMINO
DELLA FERMATA DEL 33 Mah. E un paffa. A rregola…
E fon le fette e venti. Lo dice lorologio “Revùe”. Là, fu ippalo. Immio da
polfo, e potrebbe anche fbagliare. Gliè vecchio. Ma irRevùe unne fbaglia
mai. Gliè bòno. Fvizzero. I rRevùe. Marca bòna. Mah. E un paffa. I
ttrentatré, e dovea paffare alle fètte e dieci. Lè le fètte e venti paffate. Loro, le fon paffatte. Ma
ittrentatrè… e un paffa. O icché farà fucceffo… Mah! Dovea paffare dieci
menuti fa. E invece… Un paffa… A rregola… E piove, lo fo. Ma doveffe
fermaffi gli atobuffi pe dugocce dacqua, e fi ftarebbe frefchi… E un
paffa… E un paffa…
Toglie coppola e
occhiali, imbraccia un fucile.
GIOVIN
CACCIATORE (sbruffone, macho) A i ppasso? Ppuh! Giammai. Cacciare a ippasso rintanati
niccapànno gliè da vigliacchi, vero babbo? Come dice i pproverbio? Chi caccia
di passo gliè becco e gradasso. A noi la servaggina e ci garba ma dandalla a
stanare quando gliè bella riposata appena escita dalla tana. Luccelli stanchi
e un ci garbano. (Ride) E un garbano nemmeno alle nostre spose, vero babbo? Ah, ah,
ah! Gliè un doppiosenso. Uccello stanco sposina in bianco. Vabbe che la tua,
di sposa, la sarebbe la mimamma, ora che ci penso mi fa un po effetto… (si riscuote) A che ora ci
siamo destati, stamane? Eh? Alle quattro e mezzo, no? Buio come nculo a
Satana. Pioveva pioveva pioveva. Ma cimporta un beccaccino a noi, vero babbo?
Chi un caccia colla piova niente quaglia: mangia lova! Ci sè vestiti, sè
preso e fucili, le artucce, sè montati sulla Giulia e sè venuti in
campagna…
In campagna, sì…
In campagna.
Improvvisamente
smontato, lascia cadere le braccia lungo i fianchi, assume unaria sbigottita.
Peccato però… che la
campagna… la un cera più.
La un cè – più.
No. Ora cè un lago.
O questa?
Ocché ci toccherà mia di
cacciare lanatre? No, perché a me un mi garbano punto. Nemmeno a te, vero
babbo?
(Sempre più basito, allarga le braccia)
Un lago.
Moah!
Senti un po, babbo…
A pensàcci bene… e laghi, di
solito… unnè che vengano fòri così, da un giorno allaltro.
Dico. O babbo…
Ma ssenti un poìno.
Ma unnavrà mia dato di fòri
lArno?
Getta il fucile, assume
un atteggiamento femminile, un po acido.
SIGNORA
DELLA ARADIO Macchettudìci, Amintore. Tu se ma te, che tu dà di fòri! La
loandina della Nazione
la pòle dire
icché gli pare, anche questa bischerata che “lArno straripa a Firenze”, ma
tullo sai e giornalisti come sono… Pe una pisciata di gatto, scrivano cè
lalluvione. Dio ci scampi e liberi. Capace gli è escito un po dacqua a
Gavinana, gli ha allagato qualche scantinato, tullo sai lo fa guasi tutti gli
inverni, laggiù e son più bassi diffiume. Mm. Peggio pelloro. Laveano a
stare a San Gervasio come noi, e un gli sallagava propio nulla. Bischeri. Ho
appena sentito la aradio, e di Arni esciti fòri dallargini unnha detto
propio nulla nessuno. Sì, lha detto, la aradio, che “prosegue londata di
maltempo sullItalia centrale”, e che in Toscana “si registrano degli
allagamenti”, gli è uscito qualche torrente nelle ampagne, ma nzomma, via,
nulla di trascendentale, dattronde di novembre e sarebbe straordinario se non piovesse, eppoi le notizie
più importanti llerano che oggi… bah! e gliè la Festa delle Forze Armate…
Parte – mentre
lattore getta la pezzola e indossa un berretto da carabiniere, e sullo schermo
scorrono altre immagini di Arno che tracima, mixate a immagini di riviste e parate
militari, Aldo Moro, Giuseppe Saragat – la voce
registrata, magniloquente e “ufficiale” dello speaker del giornale radio: «Oggi, quattro novembre, si celebra con
manifestazioni in tutta Italia la ricorrenza della Vittoria, e la Festa delle
Forze Armate. A Roma, allaltare della patria, il presidente della Repubblica
Giuseppe Saragat ha deposto una corona dalloro sulla tomba del milite ignoto.
Nel suo discorso di saluto il presidente del Consiglio Aldo Moro ha ribadito…». La voce sfuma soverchiata
dal rombo assordante delle acque in piena.
MARESCIALLO
DEI CARABINIERI (grida, cercando di superare il frastuono) Moro! O morino, Anfuso,
madonna su icciuco, scappa, diobòno, lascia perdere iccàmionne, costì, testa
a nnapoletano! O un tullo edi un cè più nulla da ffare! Icché tu vòi
sbarrare, llè una marea di fango, ormai un vien più in qua nessuno, lo vedi?
Scappa, Napoli!
CARABINIERE
ANFUSO (concitato) Maresciallo, scappass anca
vuje. Maronna mia! Sta cchiù fanghemmerda che acqua, marescia!
MARESCIALLO
DEI CARABINIERI Badalà che roba, tiratevi
addietro, verso ibBattaglione, guaglio! Fermatele piuttosto là, le macchine
che cercano dandare avanti, que bischeracci! Lè venuto di sopra alle
spallette, sto natodancane! Qui llè tuttun lago! Un cè guasi più lungarni!
Voglio propio vedere indo landeranno ora, a battere le battone! (Ansimante) Che ora llè, Anfuso? Ni bbailamme, mi son scordato
lorologio.
CARABINIERE
ANFUSO Purio, marescia! Ci sta
quello sul palo, laggiù, che segna le sette e ventisei.
MARESCIALLO
DEI CARABINIERI (con una smorfia amara di ironia) Sempre preciso, te, morino! Ma sse siùro desse
napoletano, o se svizzero? Sì? Le sette e ventisei! No venticinque. Ventisei.
Le sette e vventisei! Bella festa delle forze armate, sì.
CARABINIERE
ANFUSO E io che mero pure lucidato
gli stivali! Se lavrei saputo, chieni emmerda li lasciassi…
MARESCIALLO
DEI CARABINIERI (fra sé, pensoso) Le sette e ventisei… Di quattro novembre sessantasei. Sai
icché? Giòcali a illotto, Anfuso, codesti numeri.
Getta il berretto
militare.
RUTH, SIGNORA AMERICANA Look
down, darling! The clock has stopped! Ah, ah, ah!
PITTORE
GAUDENTE Toh! Davvero. Staorta lha
ragione la Rutte, Lello. Bada là. Ormai gli è cinque menuti che lorologio su
via delle Terme segna le sette e ventisei. Vabbe che gli è duna marca la fa
cacare: “Revùe”. Ma a me, però, a questo punto mi sa che tutti gli orologi
elettrici della città e si sien fermati quando lArno lè arrivato a allagare
la centrale. T ha nteso che laòro? (Si passa una mano sui
capelli, preoccupato) Maremma cignala. E ora? Sì, dico: e ora dimmi te come
stracinci si fa a riporta queste du sgarganate n albergo! Eh? Se que
beccaccioni de su mariti le cercano, qui finisce a Casamicciola.
RUTH,
SIGNORA AMERICANA (ride di gusto) Ah ah ah ah aha! Kassamycchioulai.
PITTORE
GAUDENTE (allamico)
E ride! E ridano, loro! Ma icché tu ridi, strulla: questa gli è una tragedia nella tragedia, ecco icché llè.
Rutte, amore mio… di già tu cciai un nome imbarazzante, vero: Ruth. Nemmeno di
ognome tu facessi “Prosit”.
RUTH, SIGNORA AMERICANA Prozyt? Ah ah ah aha ah!
PITTORE
GAUDENTE E cè poino da ridere,
strullacciona! Piuttosto, cerca anche te di fa ggirare luniha rotellina tu
cciai in codesta bella testolina bionda da microcefala sassone. Pe strada cè
guasi dumetri dacqua, lo vedi costaggiù? E un si pòle escire senza gommone…
e io e Lello un vi si pòle riaccompagnare pe tempo in albergo, te e la
Jessica… Do you undertsand, porcellona?
RUTH, SIGNORA AMERICANA Pourkellouna?
Beautiful! Pictoresquo.
PITTORE
GAUDENTE Pittoresquo un par di zeri! I
ttu marito un ti vede arrivare, ti cerca co una motosilurante a
stellestrisce, primaoppoi ti trova qui da me ni mmi ateliè-scannatoio a i
quarto piano di via delle Terme, piglia una mitragliatrice atòmia dellesercito
ameriano e mi spappola ippisello, do you understand, Pittoresquo?
RUTH, SIGNORA AMERICANA Ah ah
ah ah ah! Pysellou!
PITTORE
GAUDENTE (scorato, allamico) Lello, riòrdami di riordàrtelo. Mapiù mapoi imbroccare mogli
di ufficiali ameriani di cCampo dErba. Camp Darby! Vabbe le son bòne. Vabbe le son maiale. Ma, primo: le
un capiscano una beneamata sega. Seondo: e si vede lassù a ipPadrone e un
gli andava bene a mano che du pittori squattrinati e comunisti ome nnoi
faccin becchi du ufficiali digglorioso esercito delli Stati Uniti dAmeria. O
un tu llo edi? Peppunicci, glià mandato addirittura un attro diluvio
universale! Eccheccazzo.
(fa
portavoce con la mano, rivolto al cielo) Esagerato, Costassù!
E se si trombava du sòre
quacchere di mMichigan, allora, icché tu ci mandavi? E Quattro Cavalieri
dellApoalisse?
Indossa un collarino
da prete.
PRETINO (con fare querulo ed
effemminato) Sè
fatto troppi peccati, Eminenza. E un dico Lei, ci mancherebbe… Ma tutti
noattri, a Firenze. Questa gli è una città di peccatori, Eminenza. Io pe
pprimo, eh? Certi peccati… (arrossisce veementemente) Grossi, sì. Parecchio ma
parecchio grossi. Nonnò. E unnesagero, no. Lei la lo sa meglio di me,
Eminenza: Domineddio e un fa mai nulla a casaccio. Mai. Nemmeno Eva. Se lha
fatta, un motivo ci sarà stato. Mi sfugge, mi rimane oscuro, ma ci sarà… E
codesta roba si vede qui sotto, fin sulla sacra soglia dellArcivescovado,
gli è una cosa da fa vvenire e bordoni, co rispetto parlando. Una piaga
biblica! Mi vien da piangere, posso? Grazie. (Piangendo) Guardi là, Eminenza: gli è
propio una marea marrone, che schifo, tuttattorno a idDòmo, e a ibbel san
Giovanni! Loro così bianchi, e lei, la marea dico, così marrone! E sembra…
vabbe. Lasciamo stare icché la sembra. Eppoi come la corre veloce, landerà a
centallora. Vrum! Che llha veduto, Eminenza? E c è un tronco dalbero,
laggiù, enorme, lungo e nodoso, mmmhh! che gli è la terza volta che gira
intorno a ibbel San Giovanni! Finisce butta giù le porte dipParadiso!
Nommacché. Lo so, che son fantasioso. Un succederà mai. Ma e sarebbe
artamente simbolico, no?! Una parabola, propio.
(Fa un gridolino, giunge le mani) Ossignore! Eminenza, la
guardi là quella macchina! Quellottocentocinquanta beige, nòva nòva! Lha
sfondato innegozio, come un proiettile!
(Grida, terrorizzato) Nooo!
(Con le lacrime agli occhi) La mi scusi, Eminenza. Ma
llè una cosa orribile, propio. No, unnè che mi paia simbolico, anche
codesto. Gli è che quella, Eminenza,
quellottocentocinquanta beige, gli era nòva nòva. Non solo. Ma soprattutto… soprattutto,
Eminenza: e gli era la
mia, macchina!
Si toglie il collarino.
Cominciano a suonare, tutti insieme, i clacson delle automobili: un lungo
lamento straziante e sinistro.
SCRITTRICE
FANÉ (con aria snob, e annoiata) E sono e clàccheson dellatovetture, Concettina. La stia
tranquillina. Eh! La vòle che glielo spieghi io, icché llè successo?
Semplicissimo, nulla di che. Lacqua lha raggiunto e circuiti elettrici,
dellatovetture, e lha mandati in corto. Si fidi, ciò un amico elettrauto.
Diciamo “amico”, giù…
Ora, finché un si scarica le
batterie, bisognerà facci lorecchio. Lo so, dà noia. Ma io sto peggio di lei,
cosa crede: ciò perfino lemicrania muscolotensiva, la si figuri…
Dattronde… le cose le
possano sempre anda peggio, si riòrdi, cara. Pensi un po se oggi un fosse
stata giornata festiva. Ci si sarebbe trovati tutti in atovettura, raggiunti
dallonda di piena, pelle strade diccentro. (Con un fremito desaltazione estetica) Si sarebbe affogati, o
bruciati, in una sorta di folle regata, sbatacchiati di qua e di là,
nellatovetture, pe strade vecchie di settecentanni. Ci sarebbe stato
migliaia di morti. (Giunge le mani,
sospira) Allora
sì, che come scrittrice, se fossi sopravvissuta, avrei potuto scrivere… (socchiude gli occhi, esaltandosi)…
una grande, grande tragedia! Ma che vvòle: qui a Firenze, oramai, si fa tutto a
irrisparmio, da secoli. Llè una cittadina provinciale, angusta, bottegaia.
Piccinina. Oggi capace con qualche diecina di morti la ci si cava. Dia retta a
me. Lei la deve affrontare questa catastrofe in fondo li-mi-ta-ta, mi spiego? limitata, collo stoicismo e
collarcaica rassegnazione tipici di voialtri meridionali. La deve stare
tranquillina, e preparare la colazione come a issolito. Un cè né gasse né
elettricità? Ottimo. Bòn per lei: oggi la un cià da cucinare. Basta un po di
finocchi in pinzimonio – quelli a Firenze un ci si fanno mancare mai, e
finocchi dico – , e magari du fette di prosciutto cotto. Anche quattro: tanto
se iffrigorifero e un funziona, landerebbero ammale. E un si mòre di fame,
no. E un si mòre, nemmeno stavolta. Vedrà che da stasera lacqua la si ritira,
e tutto torna come prima. Voialtri analfabeti vu siete così emotivi, vu vi
preoccupate per un nonnnulla, e invece un cè propio di ché, guardi,
Concettina. Peccato i ttelefono un funziona, sennò gli dicevo di chiamare giù
in Calabria pe tranquillizzare parenti. Sì. E vero: a Firenze cè una piena
spaventosa, iffiume lha invaso la città, e noi si sta propio di casa davanti
a Ponte Vecchio, che dice fra un poino crolla. Ma, vivaddio! Manteniamo
issangue freddo! Prima di tutto, si sta a issesto piano dun palazzo moderno,
rifatto dopo la guerra. Che llè così brutto, così brutto, ma così… racchio,
propio, che di siùro un lo rade a issuolo nemmen le bombatomiche. La mala
erba la un mòre mai, icché la crede? E poi, guardi: io dico che ipPonte
Vecchio un viene giù nemmeno stavolta. Guardi là dalla finestra: la furia
dellacque, e tronchi, e anche quiccamion rimasto incastrato, lhanno
sventrato e negozi a monte, e lhanno riempito ipponte di buchi paiano
bocche urlanti – dio bonino, bella questa similitudine! Bisogna me la segni!…
Ma propio pe questo, lo vede, Concetta? lacqua la passa da quebuchi, la
pressione la si riduce, e vedrà che alla fine ivvecchio Schiena Diritta e un
viene giù nemmeno stavolta.
(Sospira, rassettandosi la gonna in grembo) Panta rei, Concetta, lei mi
insegna. Tutto scorre. Tutto passa.
OMINO
DELLA FERMATA DEL 33 No! E un paffa. O perché e
un paffa?
CARABINIERE
ANFUSO Marescia, che so sti
botti? Pare Fuorigrotta…
MARESCIALLO
DEI CARABINIERI E son caldaie che le
scoppiano, Anfuso. O sennò bidoni di materiale infiammabile, che son cascati in
acqua, e glianno incontrato la nafta. Un incontro esplosivo!
PITTORE
GAUDENTE No! Rutte, acciderba a te!
Un lo buttare iffiammiferino giù dalla finestra! E nemmeno la cicca,
diobònino. E si va tutti affòo! Te lho di già detto. Se dura, eh? O un tu
lo vedi pestrada cè più nàffeta che acqua? Pefforza. Vedrai lacqua llè
entrata ne depositi de riscardamenti centralizzati, e lha portato tutta la
nàffeta di fòri. Sai benino! Bei ttroiaio! Un bastava la melma! E la merda!
RUTH,
SIGNORA AMERICANA Ahah ah ah aha! Mèrdai!
Cacca! Shit!
PRETINO Oioi, che puzza di escrementi, Eminenza, con rispetto
parlando.
Sior Todaro, primattore dello Stabile di Venezia (con voce impastata da dopo-sbornia) Co rispeto parlando, fiòi,
mi ghe vo a far un fia daqua a la tualè… Esta… como se ciama? … Esta famosa
Rassegna de Teatri Stabili de Fiorensa, vo a dirghela intera, a mi me
sembrarìa un fiatìn… una monada. Ecco, goò deto. Vede vù: aiersera, a mirar el
nostro Goldoni fatto su a la maniera del Bertolt Brecht, non ghera un can,
ostia de dio! Va ben chel piove da tre zorni, ziocàn, pare el giudissio finale…
Ma poi finisse che un cristian se deprime, e par tirarse su el morale el beve.
E strabeve… E l zorno appresso, xè rinciucchido, svapora, e gha la zucca
vuota pare un pallon de mongolfiera! Mah! Fame un po vardar ti se stamane
volerìa uscir fòra un fia de sole, ziocàn! Sta locanda, non discuto, xè bela,
xè antiga, e xè anco vezin el teatro, ma sti brocadi a la finestra, ciò, son
pesanti come el demonio che se li porti. Oooh! (Fa il gesto di tirare
le tende; con ironia) Toh! Al ghè una notissia, fiòi: piove. (Guarda in basso, e trasalisce) Ma casso! Fioi! Digo! Xè aqua
dapertutto! Non ghè più strada, ma canai! Ma…! (Si dà una sonora
manata sulla fronte) Boia dun can! Sta a veder ti che iersera ghero cossì
mbriago, chel me ghan riportàa a Venessia, e mi, mona, non me ne son gnanca
aveduto!
Signora della aradio Te Amintore un tu te ne eri accorto perché tu ciai locchi
foderati di mortadella, e un tu vedresti lacqua n Arno. Pellappunto. Ma io
lo dicevo che qualcosa e un quadrava. Bah! E difatti, tha visto? Cè
lalluvione. Toh. Lha detto anche la aradio. Lo dicevo io. Cera i
ggiornalista della Rai affacciato dalla sede Rai di piazza Santa Maria Maggiore
che commentava in diretta lo spicinìo che cè in centro. Certo, e tirava a
farla più piccina dicché la unn è: “llè tutto sotto ontrollo”, diceva, “sè
belle attivata la macchina dello Stato”… Sì, larillallero! Ma te tu lo sai
come sono e giornalisti. Dun alluvione, ne fanno una pisciata di gatto! Dio
ci scampi e liberi. Meno male, va, che noi si sta a san Gervasio. Qui lacqua
la un ciarriva nemmeno se dà di fòri tutto imMediterraneo. Toh! Certo, e
nostri disagi ci savranno: unnarriva più acqua da rubinetti. Un cè luce,
un cè gas, e un passa più nemmeno latobussi…
(indossa la coppola)
Omino della fermata del 33 E un paffa. No. E un paffa. O icché farà fucceffo? Ora fe
pe du gocce dacqua e un paffa più nemmeno latobuffi… A rregola!
(getta la coppola, imbraccia il fucile)
Giovin cacciatore (con aria distrutta)
Passa passa,
babbo. Passami ivvino. E ciò bisogno di tirammi un po su. Ora ho capito. Un
son mica grullo. Gli è tutto alluvionato, attro che lago. Anche la casa della
Catterina, laggiù, ni mezzo a campi. (Tetro) Anzi: ni mmezzo a i llago. (Piagnucola) Poera Catterina. Che fine llavrà fatto? Poera figliola, la
un sapea notare di siùro. Di grazia, la sapeva baciare olla lingua, dice la
si sentiva soffocare… Come chi llè la Catterina, babbo? O un tu llo sai?
Lòmo llè cacciatore… vero, babbo? E mia sortanto di starne e beccaccini…
Getta il fucile,
inforca fini occhiali da vista cerchiati doro; assume un atteggiamento
ispirato e rilegge un manoscritto, mentre dal cielo cala il rumore di un
elicottero in volo.
Scrittrice fané
“Come
un sauro preistorico cacciato da trogloditi, lenorme tronco dalbero dalle
ghermenti, rapaci braccia ischeletrite tornò più e più volte a levare il muso
di mostro, sospinto dallimmane massa dacqua e di fango, di là dalla barriera
del ponte e delle sue botteghe… Lurlo assordante del fiume soverchiava tutto,
ogni altra cosa pareva irrealmente avvenire in silenzio, lampioni divelti che
per un po sembravano resistere alle onde, mobili squartati che fuoriuscivano
dagli appartamenti violati dei piani bassi, cascate dacqua gialla che
scivolavano grondanti dalle finestre lungo i muri, acqua fangosa, striata di
nafta in arabeschi degni dun quadro espressionista, dipinto da Munch, o da Van
Gogh… Ma col passar del giorno, il muso della bestia preistorica, si levò via
via più basso, meno protervo e aggressivo. Mentre il cielo di piombo imbruniva
sulla città annichilita, limmondo gonfiore della piena impercettibilmente
decrebbe. Il ponte aveva vinto la sua muta, ostinata battaglia…” (Irritata, scuote la testa, e appallottola il manoscritto) Mio dio, che troiaio… Ocché
bischerate mi vien da scrivere? Moah! Sarà lumido! (Chiama) Concettina! Concettina! Ovvìa. Nulla, unnè nulla. La un si
spaventi sempre, occhessarà mai? Son lelicotteri. Arrivano a salvacci con
lelicotteri. Ma a noi icché ce ne importa? Che ce ne importa a noi desse
salvati, a Firenze? Chi cià bisogno, qui, dessesalvato, Concettina? Icché ci
sarebbe, poi poi, da salvare? Piuttosto, la mi porti divvino bianco, di quello
bòno, portoghese. I tTio Pepe, brava. Lo scèrri. E la mi faccia ippiacere:
senza omplimenti, se ne versi un poino anche per lei, che gli fa bòno.
Toglie gli occhiali,
assume latteggiamento guascone del pittore.
Pittore gaudente Evvualà. Vino
bollito ollo zucchero, mie belle maialone ameriane, aspirina dentro, e vai!
Per rinvigorissi, e rendessi atto alla pugna! (le guarda eccitato, ma
anche un po spaventato) Duplice pugna! Io lai! Qui fa notte,
fra poo. Lello e un ritorna più dalla su spedizione su tetti, sonasega io se
lha poi troato de soccorsi, o se llè cascato di sotto e llè affogato
nimmerdaio. E io son rimasto qui co tutteddue voialtre maialone. Ruth, e
Curegg. No, come ti hiami, te? Jessica. Jessica, i rriscardamento e un
funziona. No. Bisognerà arrangiassi coi vvecchio sistema… dellattrito! (Malizioso, muove linguine avanti e indietro) Che mi spiego?
Tanto, se oggi o domani mi
beccano, que becchi devostri mariti, fatta una più o una meno, cambia poo.
Sentili lassù! Arriano ogli elicotteri! (Canticchia linno
americano) Tattaràtta
tattà…! Senti te che giramento di pale, che gli hanno! Ma mimporta una sega.
Come disse igGucci di via Tornabòni: venderò cara la mia pelle! Ovvai! Una a
destra e una a sinistra nillettone. La sapete la famosa frase di Pier Capponi?
“Se voi sonerete le vostre trombe, noi tromberemo le vostre carrampane!”.
Ruth, signora americana Carrampanei! Ah ah ah aha!
Rumore di elicotteri
in volo. Esplosioni di bidoni di carburo in mezzo alla nafta.
Buio.
7. Il professore e gli
evasi
Luce soffusa di un appartamento.
È il soggiorno, nellattico decoroso, ma senza lusso, del professor Pierfilippo
Cosi, docente alla scuola media Carducci. Il professore è un uomo mite, sui
sessanta, vicino alla pensione. Conversa amabilmente, ma un po nervoso e
impaurito, con gli ospiti inattesi.
Prof. Pierfilippo Cosi (si siede sulla sedia, come se fosse una poltrona, intreccia le mani
sulle ginocchia, sospira, un po in imbarazzo) Ovvìa. Eccoci qui. (Pausa imbarazzata) E in – somma… Mah! (Dopo unaltra pausa, e
avendo girato di nuovo lo sguardo sorridente, ma un po teso, sugli ospiti, si
rivolge alla moglie) Adele, senti qui se e signori evasi, gradiscano un po di
antuccini di Prato, co ivvinsanto. (Ad uno degli ospiti)
Gli è bòno,
sa? lo fa iffattore su alla Rufina… (Rispondendo ad un
altro ospite) No,
mi dispiace. Rumme un ci se nha. Sa io, e superalcolici, collulcera mi
ritrovo… Se vaccontenate, ci sha forse un nocino de frati di Montesenario…
Sì… Vabbe... io offrire ve lho offerto. Poi… Va bene ivvinsanto, allora…
Ovvai, giù. (Sollecita la moglie a versare il vino) Adelina…? Eh! Animo! (Pausa imbarazzata, gira attorno lo sguardo, un po nervoso) E nsomma, via: voi e vu
saresti evasi dalle Murate, va. Ha capito, benino… No, no. Ma figuratevi,
signor… Come ha detto che si chiama? Giuseppe… OInfamone? Capisco. (Gli tende la mano) Cosi Pierfilippo, piacere. No, no. Nessun disturbo.
Piuttosto, perdonate iddisordine, ma sapete, sono momenti un po partiolari.
Ma prego: forse se vu vi
stringete un poino, vuccentrate anche tutte ssei, su iccanapè.
Rumore di un vaso che
si rompe; il Professore si affretta a tranquillizzare il maldestro responsabile
del piccolo disastro.
No, no! Un si preoccupi,
llera vecchio. Risaliva... a quando, Adele? Un piangere, Adelina… A
immilleottocentotrenta, figuratevi un po. (Con la voce strozzata
dal pianto) Uneredità
di famiglia. Manifattura di Doccia. Un oggetto di squisita fattura, vero,
delizios… Ma vecchio, ripeto, vecchio, sorpassato. E nsomma pazienza. Vorrà
dire si riomprerà nòvo a magazzini di qQuarantotto, una volta passata
lalluvione.
Perché la passerà no?
Certo, a voi vha detto anche
bene, no? ragazzi. Permettete vi chiami ragazzi, ormai io ciò unetà, son
guasi in pensione.
Sì. Linsegnante. Di scòla
media, qua dietro, alla Carducci. Italiano, storia e latino. Sì.
Lei, invece, signor
Oinfamone, di cosa si occupa, precisamente?
Rapine a mano armata,
capisco. É un settore che butta bene, sì?
In espansione. Capisco.
Ma lha risentito, della
congiuntura? Eh, sa...: codesto gli è un po un problema generale, della nostra
economia, ancora un po fragile. (alla moglie, piccato)
Come i
vvaso della manifattura di Doccia, preciso, Adelina, un ti ci fare la testa,
ora: oramai... (allevaso) Però vedrà che ci si
ripiglia. Ma si figuri. Io, pepparte mia, le fo tutti lauspici… Magari, ecco,
se la potesse evitare di… visitare, diciamo, la Cassa di Risparmio di Firenze,
sì, la filiale di piazza Beccaria, indove ciò un piccolissimo deposito. A mio
nome, sì. Professor Cosi Pierfilippo. Ma son du lire, eh? Piccoli risparmi
dun vecchio insegnante. La ringrazio, molto obbligato. Ma si figuri.
(Tentenna la testa sorridendo inebetito; sospira, imbarazzato)
Con tutto ciò…
(Pausa; si rianima)
Dicevo: sera sentito… sa, le
voci corrano, di finestra in finestra… insomma sera sentito dire che ieri
mattina, proprio nimmomento peggiore dellalluvione, mentre vi trasferivano a
itterzo piano, mi corregga se sbaglio, cera stata, sì insomma, una specie di
rivolta… di rivoltina, niccarcere, senza offesa… Sera anche sentito delli
spari fin da qua, da via Manzoni. Dico bene? Eppoi, mi dica: come llè andata
a finire? Vu siete saliti su ittetto, no? Anche perché giustamente di fare la
fine dittopo in gabbia, e un vi garbava né poo né ppunto… Vu avete ragione. E
si dice anche che un gruppo di voi sia scappato a nuoto, e labbia anche
svaligiato unarmeria (deglutisce, preoccupato)… e ora giri pella città
armato di tutto punto… Ma, a quanto mavete detto poo fa, e un vu siete
voialtri, no? (tranquillizzato) No, lo vedo: pe esse bagnati
vu siete bagnati anche voi, anche se un vi siete tuffati, però lo vedo bene
che la unnè acqua motosa. A passare su tetti, coquesta pioggia, e ci si
bagna ome pulcini, me lo figuro. Poera gente. Quando vu vi siete presentati
allabbaino, a bussare a ivvetro, tutti mèzzi sotto iddiluvio, come si faceva
a ‘unnaprivvi… Siamo òmini, diamine. Eppoi, sa, gli ho detto allAdele, sarà
meglio asseondalli, un ciavessero a sfondare la porta…
Noooo! Ma icché la dice “poo
raccomandabili”! Ma assolutamente no. Ma quali ceffi! Ma quali facce da
galeotto! Guardi, signor Oinfamone, a mio modo di vedere, codesto sfregio che
gli va dalla tempia alla bazza, posso dirlo? gli dona! Ebbene sì. Gli dà
unaria interessante, vissuta! Vero Adele? Adele, unne svenire, diobòno, anche
te! E anca llei, costaggiù… innaso rotto! Si fa presto a dire nasorotto. Ma
cè nasorotto e nasorotto. Issuo, lo sa chi mi riorda? Mielàngelo Bonarroti.
Lo scultore. Preciso, vero Adele? Lo onoscete di siùro anche voi, llè su
biglietti da diecimila. Uh, tha sentito, Adele, icché gli ha detto,
issignore? “Appena farò un buon colpo, signora, mi riorderò di lei!” Troppo
bòno, davvero. Un si disturbi…
Ma vu avete fatto benissimo!
Ma davvero. Nessun disturbo. Anzi, vullo sapete ora icché si fa? Vi si dà
dellindumenti asciutti, sennò vu pigliate un accidente, poeri figlioli.
Certo, io son mingherlino, un lo so se la miroba vi torna bene, con codeste
spalle vucciavete, ma nsomma, ora si vede… Icché vupenseresti di fare? Vu
aspettate che spiova, e poi vi rimettete in marcia su tetti, o vu andate via
subito? No no no. No no no. Aspettare saspetterà. Prima o poi, e gli smetterà
di piovere, no? E voi, peccarità: vu vi potete trattenere quanto vu volete,
davvero, senza complimenti, quanto vu avete bisogno, davvero, fate come vu
fossi a casa vostra…
No, grazie, io un fumo, e
nemmeno la mimoglie. Eppoi codeste, le son troppo forti. Ma fate conto sabbia
accettato. Davvero, sapprezza ippensiero. Vero, Adele?
Come, siete voi che
vuapprezzate?
Ovvìa, un òmo grande e grosso
come lei, un rapinatore di banche… O signor Oinfamone!
“Commosso” icché!? Ma indove?
No. Icché centra… Mi fa piacere sentiglielo dire. Sa, io mi picco di trattare
chicchessia da òmo, co umanità. Eppoi, in una situazione come questa…
(Li guarda, paterno)
Mi dispiace soltanto che voi,
poeri figlioli, un vu ci fossi più abituati.
Eppoi, a guardare bene, siamo
noi, vero Adele? che si deve ringraziare voi. Ringraziare, sì: ringraziare. Uno
dice: delinguenti, criminali – con rispetto parlando. Carcerati, ergastolani… Ci si dimentica che prima, prima di tutto, dico, tutti –
e siamo òmini.
Forse, e ci voleva
lalluvione, pe fàccelo riordare…
Buio. Musica. Immagini
di libri, montagne di libri alluvionati alla Biblioteca Nazionale Centrale.
Pagine ingrossate, infangate, incrostate. Vecchie foto degli angeli del fango,
giovani studenti che si passano i libri di mano in mano… Voce di Richard Burton: «Sono centinaia e centinaia i giovani e giovanissimi che dal momento del
disastro ha deciso senza un momento di esitazione di venire a salvare la gente,
i libri, le opere darte...».
8. Angela
È una ragazza sui ventidue-ventritré
anni, i capelli raccolti, le maniche rimboccate. Tiene in mano una piccola pila
di libri infangati. Illuminata da un occhio di bue, a pioggia.
Angela (legge su un vecchio libro alluvionato) “Phlebas il Fenicio, da
quindici giorni morto, dimenticò il
grido dei gabbiani, e il fondo gorgo del mare, e il profitto e la perdita. Una
corrente sottomarina gli spolpò le ossa in sussurri. Come affiorava e
affondava, passò attraverso gli stadi della maturità e della giovinezza,
procedendo nel vortice… Gentile o Giudeo, o tu che giri la ruota e guardi
sopravvento, considera Phlebas, che un tempo fu bello e alto come te…”.
Chiude li libro,
guarda davanti a sé con occhi innamorati.
Bello, eh? Ti garba, amore?
Thomas Stearn Eliot. La
Terra desolata.
(Fa una smorfia amara) E se unnè una terra
desolata questa, ora
come ora… Caro Nazìm…
Una terra desolata.
Devastata. Umiliata, da questa tragedia. Perché oltre a iddanno, cè
lumiliazione. Un ti pare? Una città così bella, e preziosa, e altera. (Guarda verso il cielo) La vòi distruggere? La devi punire, dave dissipato su
talenti? Falla saltà per aria, bruciare in un fòco purifiatore…
E invece, guarda qua!
Travolta – dalla merda. E quella riga
nera di nafta, fin costassù, che llera rimasta sumuri, e chissà pe quanto la
ci rimarrà…
Chissà pequanto…
Sai, Nazìm… Quando lArno sè
ritirato, la domenica, issei di novembre, sono escita di casa, e mi sembrava
di vivere in un incubo strano e senza senso. Sulle pile de ponti, cera que
grovigli schifosi dalberi e dimmondizia… E Lanzini, sai, quelli dinnegozio
di stoffe in piazza Dòmo, escivano, tutti sospirosi, da issottopasso di piazza
Stazione, indove la corrente gliaveva trasportato le su stoffe pregiate, tutte
piene di fango. Avean provato a salvalle lavorando tutta la notte, ma poi lera
arrivata la piena, e glielaveva sputtanate tutte…
Un incubo assurdo, e un po
ridìolo.
In piazza Santa Croce, cera
una colonna datomobili impilate una sullaltra: nho contate sei. Altre
quattro, llerano entrate in un negozio, due sopra e due sotto.
Assurdo. Te lho detto: una
città ridicolizzata, nella tragedia. Sventrata, nella farsa.
Pensa che durante la notte
dellalluvione, mentr e moriva bambini e evecchi paralitici, cè anche chi
ll è potuto mòrire pe ave voluto fare allamore co due donne assieme, come
qui ppittore dongiovanni di via delle Terme, che un gli ha retto iccòre allo
sforzo.
Farsa e tragedia. Fango
dappertutto. Carogne danimali. So che alle Ascine gli hanno distrutto co
illanciafiamme le carcasse decavalli affogati nelle stalle. Quelli meno
pregiati. E purosangue no, quelli lavevano messi in salvo pe tempo. Poi si
dice bene che Iddio fa piovere su iggiusto e sullingiusto. Ma lingiusto
spesso e volentieri cià lombrello, e iggiusto affoga. Come qui ppoero
operaio dellacquedotto, che pe unnavelasciato issu posto di lavoro,
lhanno ritrovato a faccia in giù, in un cunicolo pieno di fango.
Fango. Fango dappertutto.
Soltanto borgo san Jacopo, da lontano, la mi pareva tutta lustra e pulita, come
lavata di fresco. Poi, andando avanti, mi sono accorta che llera fango alto
mezzo metro, ci sentrava dentro fino a mezza gamba.
Fango, fango, fango.
Eppure, nimmezzo a iffango,
sono spuntati que fiori, che ti dicevo.
Subito, intanto, ipprimo:
quella nostra antica, tragica ironia di fiorentini, che llè innostro bene più
prezioso, e, forse, innostro limite.
“Alla nòva Pompei – Dalla
mota a icconsumatore – Prezzi sottacqua”. Così cera scritto, già due giorni
dopo, su iccartello dun negozio alluvionato. E e fiorentini cantavano,
sullaria dei vecchi stornelli: “Fior dacqua viva, a immare un ti ci porto
questagosto, lè inutile a Viareggio cercar posto, e cè più acqua in casa
che alla riva…”.
Tu ridi, Nazìm? Ma cè da
ridere e da piangere, sai?
Lo sai icché gli ha detto un
artigiano di piazza dicCestello a idduca dAosta, che llera arrivato a
portare de viveri co i su gippone? “Basta, grazie sor duca, e sè bell
aùto. Tanto San Frediano un mòre nemmeno collalluvione. Semmai, si spande!”.
E un vecchino dimmercato di
santAmbrogio, che dopo lalluvione e un trovava più i ssu vecchio
furgoncino che gli serviva pe sbarcare illunario vendendo verdure e patate, e
glielaveva portato via la piena, lè
stato visto alzare locchi e e pugni rinsecchiti a iccielo, e apostrofare
ipPadreterno: “Io un so più icché ditti!”.
Poi cè lleroi silenziosi.
Come quissignore benvestito, signorile, con baffi e pizzetto, che pe una
settimana llè venuto tutti i giorni a casa di mizio: tirava fòri da una sacca
una tuta, un paio di gambali e una pala, e cominciava a spalare iffango, tutti
i giorni, la mattina dalle nove alluna, e poi tornava nippomeriggio, dalle
tre alle sei. “Io ciò avuto fortuna – ci disse – unnho avuto danni, ma mi
pare giusto dare una mano a chi lè rimasto alluvionato”. Un sembrava nemmen
vero.
O quellattro disgraziato, i
‘fFibbi, poeromo, che lattraersò tutta la città a piedi pe andare a spalare
da iffango innegozio della sufigliola, in Gavinana, lavorò quattordiciore di
fila, e poi morì, schiantato dalla fatica, e da iccrepacòre…
Hanno chiamato noi, angeli
diffango, Nazìm, ma codesti costì, icché sono?
E e frati di Santa Croce,
che qui, a poche diecine di metri, stanno a crivellare la melma da tre mesi per
ricercare ogni minima tesserina di pittura dicCristo di Cimabue, loro icché
sono?
Sullo schermo, appare
allimprovviso limmagine del Cristo devastato. Musica: “Lacrimosa” dal “Requiem” di Mozart. Dopo
un po, la musica sfuma, limmagine scompare…
Nazìm. Io, pequanto mi
riguarda, lo sai, partivo avvantaggiata. Mi chiamo Angela Delfungo. E mi ci
voleva poo a diventare “angela del fango”. Eppoi, son di Firenze. Mi tocca.
Ma voi, arrivati dallArmenia,
dallAmerica, dallInghilterra, dalla Francia. Da mezzo mondo. Chi vi cià
portati? Chi vi cià mandati? Un lo so mica se poi, alla fine, vi si merita.
(Ride, cacciando la commozione) Certo, mi vien sempre un po
da ridere quando ripenso a immodo strullarello tu ciai avuto di presentatti.
Ti riordi? “Che tu llhai mai conosciuto un armeno? No? Allora piacere, sono
ipprimo armeno della tuvita...”.
Bischero.
Armeno.
Sì, armèno: arméno ci sei te,
Nazìm. Amore, angelo mio. Te. Io. Iffango. E ni ffango, da pulire da
iffango, da salvare da iffango, da seicentomila tonnellate di fango… un
milione e mezzo di volumi e riviste della Biblioteca Nazionale Centrale.
Millequattrocento opere darte, di Paolo Uccello e digGhiberti, di
bBotticelli e di Cimabue. Seimila
botteghe artigiane. Cinquantacinque
edicole. Macchinari dellindustrie. Case di quattromila senzatetto. Cinquemila
atomobili. Gioattoli di bambini. Pezzetti di còre. Brandelli di memoria,
infangata.
Lè un laoròne, daccordo.
Ma, armeno io e te, Nazìm, giovane armèno, angiolo infangato, ci sha tutta la
vita davanti, pepportallo a fine.
Tutta la vita.
Per ritornare da costaggiù,
indove siamo finiti, fin costassù. A riveder le stelle.
Buio. Immagini di
distruzione e di recupero. Poi luce, solare.
9. Polvere (Fincostassù)
In mezzo al
palcoscenico, un vecchio polveroso, che tira, dalle quinte, un barroccio pieno
di cenci multicolori. In testa, un cappello a larghe falde, sformato.
Voce di
Richard Burton: «Quello che è accaduto
a Firenze va al di là di ogni immaginazione, ma quello che rivelano le cifre è
ancora più grave e va oltre le previsioni più ansiose…».
Polvere (grida, arrochito) Dalle stalle alle stelle! Da i ffango dellalluvione
alle vetrine lustre divvostro salotto bono! Soprammobili ganzi, posacenere
artistici, coprilampade rococò, fermacarte calzascarpe scolapaste segnalibri
cavatappi asciugamani sturalavandini portavasi sbucciapatate spremilimoni
appuntalapis passpartout chicchirillò… roba bona alluvionata ma quasi quasi
come nòva a prezzi stracciati! Avanti popolo alla ribotta: lè alluvionata ma
la unnè rotta!
(al pubblico, con voce un po afona) Ecco, vedete. A me, invece,
da campare e mè rimasto pòo. Ni quarantasei, mi riòrdo, gliero ancora
gioane, gli aveo più o meno cinquantanni. Oh: a cinquantanni, sè gioani, pòi
discorsi. Ventanni fa. Staano ricostruendo ponti, dopo la guerra. I ffiume
gliera ancora un amico, si pòle dire, issabato ci si faceva ibbagno: in casa,
e un cera né doccia né vasca. Giusto lacqua della cannella. Ma sera puliti
eguale. Più puliti dora, anzi. Dentro, di siùro. Ma anche fòri. I mmi
figliolo più giovane, Alberto, llera di que ragazzi che si tuffavano dalla
spalletta di fronte allantiquario Bellini, e gli ameriàni gli buttavano le
monetine. Sempre ganzi, loro. Gli ameriàni. Comunque, meglio quando buttano le monete di quando buttano le bombe.
Voce di Richard
Burton: «Ora in America e in
Inghilterra è stato formato un Comitato per salvare gli italiani colpiti
dallalluvione e per far sì che la commozione non restasse solo commozione…».
Allora, pella poera gente –
aimmeno quelli che stavano verso la ampagna, dopo lIndiano alle Ascine – le
piene dellArno gli erano guasi una benedizione. Cheddici… Que poeracci e si
vedean passa davanti alla finestra di asa, trascinati da iffiume, tronchi e
rami dalberi, palate di legna da ardere, e un gli parea ivvero darraffalla
a ivvolo, gràtisse, pe usalla niccamino. Ma llera unattra Toscana, mi
rendo onto, e unattra Firenze, che la un cè più. Seimìla botteghe
dartigiani e piccoli ommercianti, su diecimila, le sono andate sottacqua,
nellalluvione: chi si rialza più?
Io son rimasto lurtimo
cenciaolo, defraudato dalla piena, come Tuffetto gli è rimasto lurtimo
renaiolo, e ora sè attrezzato, draga iffiume sotto Ponte Vecchio, alla
ricerca delloggetti doro che la piena gli ha portato via dalle bacheche
dellorefici… E dalla spalletta, la Clotilde Beltrami, lorafa, la gli urla:
“ladro! rèndimi le mi ose doro!” (Ride catarroso)
“Lè un dì,
che un tu cce lhapiù le tu ose, befana!”, gli ribatte Tuffetto, da
iffiume, “e doro, poi!” (Ride, ancora).
Dattronde, dice che de
gioielli son stati ritroati a bocca dArno, nipparco di san Rossore…
(Si impettisce) Anchio, Sebastiano Trallori, detto Bastiano, detto Pòrvere,
urtimo rigattiere e cenciaolo, cenciaolo filosofo, anchio, bah! che gli aeo a
fare? E mi sono attrezzato. Compro e rivendo sottocosto roba alluvionata,
radio, televisori, vestiti… ormai lè doventata un nòvo genere merceologico a
sé stante.
Ma soprattutto… soprattutto…
e fo la “guida dellalluvione”. Sì, la guida pe turisti in cerca demozioni
partiolari. Un po torbide, si apisce, visto iggenere.
Toh, macché! Conosco tutti
gli aneddoti, tutte le storie più patetiche o divertenti.
Come quella… di quella poera
famiglia dellOsmannoro, babbo, mamma e figliolina di tre anni, che cercavano
di salvassi dalla piena aggrappati a unasse. Poi la bambina la un ce la fece,
la mollò la presa. Ibbabbo, disperato, landò sottacqua pe ripiglialla, ma
bevve nàffeta e mota, e peppoco un morì anche lui di nausea, e gli dovette
rinunciare.
Iccadaverino lo ripescònno
dopo quaranta giorni, in una bella giornata di sole di dicembre, e e genitori llerano
ancora n ospidale: i bbabbo olla broncopormonite, la mamma sullorlo della
follia.
(Caccia
indietro la commozione)
Codesta, pepiangere.
E pe ridere, invece… la
barzelletta dellomìno bigotto, che stava in una casa a ipprimo piano di via deMacci.
La piena la sale, e lui
prega: “Signore Gesù, sàrvami dallalluvione”; passa un barcone pieno di
pompieri, e gli dicano: “vien giù, ti si porta via noi”; e lui: “Noe! Prego
isSignore e lui mi sarverà, perché gliè bòno”. Lacqua dArno la sale ancora,
larriva propio sotto la finestra. Passa un altro gommone, e gli dicano: “Vien
via, bischero, tu affoghi.” E lui: “Noddavvero, stùpiti un vussiete attro: o
n lo vedete sto pregando isSignore? Che Lui di siùro viene a salvammi”. La
piena la sale ancora, e gli arriva sottosotto la bazza. Lui trema tutto di
paura, cià un culino strinto ‘un gli centrerebbe uno spillo, ma un sarrende,
e sèguita a pregare. Passa un urtimo barcone di pompieri, gli si ferma davanti,
e quelli sopra cercano di tiraccelo dentro, ma lui duro. “Ocché vi leate dalle
palle?! Sto pregando Dio, e lui mi salverà di siùro.” Quelli van via: “Fai
icché ti pare, bischero, peggio pe te”. Lacqua la sale ancora un attro po, e
lomino laffoga. Va in Paradiso un po incazzato, si presenta ammusoduro a
ipPadreterno, e gli fa: “O allora? Occome sarebbe a dire? Un cè più
religione! Ma come! Ti son sempre stato devoto, ho pregato e ripregato tu mi
salvassi dallalluvione, e te un tu m ha ascoltato e tummha fatto morire?!”.
“O bischero – gli fa
ipPpadreterno – ma che svagelli? Occome un tho ascoltato? Tre barconi, tho mandato a salvatti,
mica uno! Tre!”.
(Sospira) Eh, pe bischeri un cè paradiso…
A Firenze, siam fatti così.
Si ride e si piange, tuttinsieme… E alle piene dellArno, ci sè fatto ormai
labitudine…
Indica lo schermo,
dove appare la fotografia di un muro, a un cantone del centro storico.
Che vu le vedete, lassù, su
quella casa, le lapidi murate che segnano laltezza raggiunta da iffiume nelle
piene più grosse? Lacqua, e pare impossibile, ma llè arrivata fin lassù.
Anzi: fin costassù. Che magari “costassù” un sarà dittutto giusto, forse, in
italiano. Ma sòna più fiorentino. Perché tutto questo, diciamocelo, gliè
tipiamente fiorentino.
Viene sul proscenio,
parla al pubblico, guardando negli occhi più di uno spettatore; lattore toglie
il cappello a larghe falde, ed “esce” dal personaggio, parlando in prima
persona, in italiano privo di inflessioni
vernacolari.
In seicento anni, il fiume è
straripato cinquantaquattro volte. Ogni ventiquattro anni, cè una piena media,
ogni ventisei una grande, ogni cento, una straordinaria.
Insomma, fino al
Duemilasessanta si dovrebbe stare tranquilli, magari con una pienuzza per
gradire attorno al 1990.
Difatti, cè stata.
Ma aspetta. A guardare bene,
le piene più grosse, nel 1333, 1844 e 1966, quelle negli anni col numero doppio
finale – buffo, no? –, si sono avute nello stesso periodo dellanno, negli
stessi giorni addirittura, ai primi di novembre. Cè chi li chiama: i giorni di
Satana. Giorni strani, magici, con la festa dei Morti e quella dei Santi. La
notte di Valpurga. La notte che gli ameriani svuotano le zucche e ci fanno le
teste di morto. E dunque, sarà destino? E dunque lunica sarebbe davvero
“spostare Firenze”, come diceva il sindaco Bargellini, il “Sindaco
dellAlluvione”? Firenze, che, per come è messa, a fare da imbuto, da collo di
bottiglia allacqua che arriva dagli affluenti del Pratomagno e della
Valdisieve, pare destinata a fare tappo,
e a venire alluvionata?
O magari, invece, levando le
pescaie ormai inutili, abbassando le platee dei ponti, facendo bacini che
servano non soltanto a produrre energia, ma a calmierare la portata delle
piene, e costruendo scolmatori, casse despansione e rimboschendo le montagne,
sgombrando le golene dalla cementificazione selvaggia, e razionalizzando le
competenze, a Satana gli si potrebbe anche andare allegramente nibbòcciolo, e
lalluvioni future potrebbero essere scongiurate?
Guarda gli spettatori,
poi scuote la testa, rimette il cappello e rientra nel personaggio.
Mah! Chi pòle dillo?
Dattronde, gli è pur vero
che io, Pòrvere, son sortanto un cenciaolo di san Frediano, una macchietta di Grillo
canterino, bòno pe ffare quattro risate alla vecchia maniera, e inadeguato
alle orazioni civili… e quando dico codeste ose mi danno di ffilosofo, e
diccritiòne.
Sta di fatto che certe vorte,
però, vorrei potenne parlare perbenino co quarche arto papavero, co caporioni
che comanda, in Italia: ippresidente della Repubblica, iccapo diggoverno, e
menistri, i vVaticano, la Fìatte… e sentire un poino loro, icché mi
risponderebbero.
(Sorride, e scuote la testa)
Ma poi mi dico: sie, brao
bischero.
E come sarebbe a ffare a
arriacci – fin costassù?
(Riprende
a gridare, con voce arrochita)
Donne venite donne!
Dalle stelle alle stalle! Dalle vetrine lustre di vvostro salotto bono… a i
ffango dellalluvione! Soprammobili ganzi, posacenere artistici, coprilampade
rococò, passpartout chicchirillò fin costassù… NellArno dargento, ciaffogo, e
son contento…
Musica: “SullArno
dargento”. Le luci sfumano al
Buio.
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