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Un Donizetti francese: anzi, tedesco

di Paolo Patrizi
  La Favorite
Data di pubblicazione su web 07/11/2016  

Da quando Schumann la definì «musica per teatro di burattini», i tedeschi hanno qualche senso di colpa nei confronti della Favorita. Tanto più perché questo turning point della maturità di Donizetti – lo si proponga nella vulgata italiana (che per decenni ne ha rappresentato il veicolo di sdoganamento) o nell’originale francese (come oggi è d’uso e anche in questa produzione a Monaco si è fatto) – è un’opera tra le più “europee” del suo autore, che va ben oltre i desiderata del nostro belcanto.

La sua profondità drammaturgica (un intreccio politico-privato da drammone d’appendice che si stempera in un doloroso e trasognato romanzo di formazione, con tre personaggi di shakespeariano frastagliamento psicologico) e la relativa sapienza contrappuntistica (a partire dalla sinfonia, dove il Donizetti allievo del bavarese Mayr emerge in pieno) dovrebbero essere oltremodo congeniali al gusto germanico: in questa prospettiva, la vecchia incisione discografica in lingua tedesca – nel 1960 alla Radio di Stoccarda, con Ira Malaniuk e Heinz Hoppe – offre più d’uno spunto di riflessione. Che poi, presso il pubblico italiano, si sia voluto scorgere nella Favorita una palestra per alpinismi tenorili (con i due Do scritti da Donizetti e un terzo aggiunto, al calar del sipario, dagli interpreti), preziosismi baritonali e grintosità preverdiane dei mezzosoprani rientra in quelle tradizioni che, certo, hanno rinsaldato la popolarità dell’opera. Ma compromesso, al contempo, una veridica percezione donizettiana.

Una scena dello spettacolo  © Wilfried Hoesl
Una scena dello spettacolo
© Wilfried Hoesl

Lo spettacolo alla Bayerische Staatsoper è un ottimo tassello nel mosaico d’un Donizetti riappropriato delle sue complessità e spogliato, invece, da quelle corrività e quel surplus esornativo che, specie sul fronte vocale, la prassi esecutiva ha sedimentato. Il ricorso all’originale francese – questa Favorita monacense è La favorite – qui non è pruderie filologica: se la versione italiana deraglia il plot sul versante familiare, smussando lo scontro tra le manovre della Chiesa e quelle del Palazzo, la regia di Amélie Niermeyer trova il suo nocciolo drammatico proprio nel tentativo, destinato al fallimento, dei due protagonisti di non venir stritolati dai gangli della vita di corte (nel caso di lei) e della vita di convento (nel caso di lui). D’altra parte, anche il cast a disposizione – nell’insieme ottimo, ma all’interno di una taglia canora più lirica che drammatica – sarebbe forse risultato meno persuasivo alle prese con il nostro idioma: che rispetto al francese pretende maggior apertura vocalica e, quindi, più sostanziosa espansione fonica.

Dunque, piuttosto che sulle dinamiche teatrali, il lavoro della Niermeyer e del Dramaturg Rainer Karlitschek punta su un solido Konzept, a partire da una scenografia appunto fortemente concettuale: una stilizzatissima scena unica (la firma Alexander Müller-Elman, mentre i costumi, moderni, sono di Kirsten Dephoff) che è di volta in volta monastero e stanza del potere, in cui Madonne e crocifissi traspaiono al di là delle vetrate – ora minacciosi, ora quasi eroticamente catturanti – e dove Léonor e Fernand si perdono come in un labirinto destinato ad annientarli (sul finire della sinfonia l’impianto scenico si restringe sempre più, fino a schiacciare i due protagonisti). Non si era mai vista una Favorita in cui fosse così palpabile il valore metaforico dello scherzoso bendaggio di Fernand, viatico d’un viaggio di andata e ritorno – dal convento al mondo al convento – tanto iniziatico quanto devastante; e straordinaria, d’altronde, è la capacità della regista di far “recitare” gli oggetti, insufflandovi un inusitato spessore semantico (l’uso particolarissimo delle sedie, i fiori nuziali scagliati contro la novella sposa fedifraga in un’ideale lapidazione dell’adultera…).

Una scena dello spettacolo  © Wilfried Hoesl
Una scena dello spettacolo
© Wilfried Hoesl

Ovviamente, però, oltre agli oggetti recitano benissimo pure i cantanti. E se modernizzare può voler dire anche prosaicizzare (Léonor, quale «maîtresse du roi», qui ha le stimmate della escort di lusso; Fernand diventa più isterico che idealista; le ambigue e regali inquietudini di Alphonse XI si diluiscono nel premier mandrillo di turno, con la sua corte di yes-men), sta di fatto che Elina Garanča, Matthew Polenzani e Mariusz Kwiecien mostrano una tale adesione ai personaggi riprofilati dalla Niermeyer, e una così fluida naturalezza nel vestire i panni di questo Donizetti figlio anche del nostro tempo, da rendere del tutto calzanti le loro raffigurazioni.

Semmai, in un simile contesto, resta poco spazio per quel momento decorativo – un pedaggio imposto dalla committenza parigina – che sono le danze del secondo atto, anzi è palese che si tratta d’un siparietto di cui la regista non sa cosa farsene. Ma se, per lo stesso motivo, Ronconi e Peter Stein cassarono i ben più attraenti ballabili dell’Aida, la Niermeyer aggira l’ostacolo con maggiore ironia: le danze restano – come musica – ma non si vedono, trasformate in un filmino di propaganda (nel libretto si tratterebbe dei festeggiamenti per la vittoria dell’esercito catto-spagnolo sui mori infedeli) che il re e la sua favorita, seduti soli al proscenio, guardano scorrere su uno schermo invisibile agli occhi del pubblico. Con il sovrano che mima scatenato mitragliate e pistolettate, mentre l’amante in carica, com’è uso in ogni saletta cinematografica appartata, armeggia invece con la patta dei pantaloni.

Una scena dello spettacolo  © Wilfried Hoesl
Una scena dello spettacolo
© Wilfried Hoesl

La Garanča è appunto una protagonista sensualissima, e non solo per la sua bellezza diafana ma non algida, di una luminosità intorbidita dalla cognizione del dolore. Sensuosa è anche la vocalità: carnale senza essere opulenta, ombreggiata senza essere scura, intensa ma mai forzata, scorrevole negli occasionali passaggi virtuosistici, omogenea nei transiti di una tessitura che Donizetti qualifica mezzosopranile, ma di fatto spazia dal soprano al contralto. L’omogeneità del suono è invece la qualità meno presente in Polenzani, che con la Garanča ha in comune compenetrazione espressiva e correttezza di linea, ma non l’uguaglianza della fonazione (piuttosto laboriosa, forse perché preoccupato di raggiungere certe note: i Do sono pallidi e appena sfiorati). Tuttavia, sulla distanza, l’emissione faticosa appare efficacemente speculare alla fatica di vivere del personaggio. E questo Fernand dove il romanticismo vira in nevrosi sarà forse deficitario sul piano della “tenorilità pura”, ma resta un bell’esempio di tenorilità artistica.

Il ruolo di Alphonse XI presenta la drammaturgia vocale più variegata di tutta la letteratura baritonale preverdiana: Kwiecien l’affronta con aplomb da puro baritono lirico, mira a un fraseggio asciugato da magniloquenze e ricercatezze, risolve con un trillo spavaldamente sintetico quelle che per tradizione erano cadenze elaboratissime. Attore assai duttile, rende sul piano scenico la volgarità attribuita dalla Niermeyer al personaggio, ma al contempo l’ammortizza – non contraddice – con un senso della frase che restituisce le nobiltà negate e le verità nascoste di questo potente infoiato e machiavellico, ma forse anche innamorato.

Debitamente più monolitico in una parte che riassume le implacabili certezze della religione, Mika Kares sfoggia voce di basso profondo, anche se – data la giovane età – non così tenebrosa e sepolcrale come il ruolo di Balthazar richiederebbe: e tuttavia questo padre spirituale aggressivo e giovanile, anziché onusto d’anni e d’esperienza, apre a sua volta una finestra nuova. Elsa Benoit è agile e lieve nell’arietta di Inès, Joshua Owen Mills – come Don Gaspard – pennella un cortigiano odiosetto e mercuriale, mentre Karel Mark Chichon, sul podio, fa buona routine, con tempi equilibrati (sebbene qualche indugio in più non avrebbe guastato) e sonorità rispettose delle voci. Non sarà un direttore molto personale: ma l’ormai lunga militanza donizettiana dell’orchestra della Bayerische Staatsoper garantisce una giusta idiomaticità.



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