Bollono in pentola amori, rabbie e tanti sogni
Gianni Poli
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Data di pubblicazione su web 25/10/2016 |
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La riproposta odierna della
commedia di Arnold Wesker, creata
negli anni Sessanta del secolo scorso, appare interessante
per vari aspetti problematici e drammaturgici, che consentono di recuperare temi
allora urgenti e finora non esauriti. La temperie suscitata dagli autori inglesi
«arrabbiati» sè infatti diluita negli anni: altri linguaggi, altre strutture
si sono succeduti sulle scene. Eppure la passione, talvolta ingenua, di quelle istanze
“nuove” fornisce occasione di impegno per le generazioni di interpreti recenti.
La compagnia del Teatro Stabile di Genova raduna ventiquattro attori, in parte
maturi, in parte esordienti, tutti provenienti dalla propria Scuola di recitazione.
Valerio Binasco fonda così la sua
regia su un gruppo formato alloccasione, ma versatile ed entusiasta nel
mettersi alla prova e realizza uno spettacolo corale, segnato da belle promesse
e conferme di personalità spiccate.
Il testo offre una struttura a
più livelli di dialogo e di funzioni comunicative, nellincastro di storie
personali anche minime, unite dalla metafora latente per la quale il centro del
ristorante è un microcosmo che rimanda alla “vita” composita di unintera società.
Echi di una scelta morale e civile dellautore si colgono nellanalisi dei
rapporti interpersonali, determinati da condizioni comuni. Sono gli scambi di
lavoro e di classe a decidere i ruoli, le categorie del potere e della
subordinazione e Wesker li coglie nel mondo
proletario immerso in una realtà oppressa da regole simili a quelle della
fabbrica. Nei personaggi tratteggiati allinizio si delinea la situazione nella
quale agiranno durante la loro faticosa giornata.
Una scena dello spettacolo
© Bepi Caroli
La visione è realistica e se pure
non appaiano vivande vere, la loro preparazione assume evidenza reale, nella
gestualità e nella pregnanza conferita allazione. Diventano importanti sia la
tipizzazione dei personaggi, sia la loro resa attraverso una notevole
componente dimprovvisazione. Così cuochi e cameriere tendono a farsi «maschere»
aderenti al ruolo: addetti alle carni o al pesce; agli antipasti o al dolce. Forse
sapprossimano, senza emulazione cosciente, allipotesi di Commedia dellArte «moderna»
tentata da Ariane Mnouchkine in La cuisine nel 1967 e in LÂge dor nel 1975. In Italia,
memorabile ladattamento di Lina
Wertmüller nel 1969, con una folta compagnia di giovani che sarebbero diventati
famosi.
Le etnie rappresentate
nellorganico culinario sono differenti e la regia le distingue attentamente. Rende
conto della partitura spezzata a strati sovrapposti di parola ed azione e ne
esalta la monotona ripetizione in singolari varianti nei frequenti duelli
verbali. A volte il caotico amalgama vocale tende a eccedere in volume. Lopera
è recitata in due parti con intervallo. Le vicende riconoscibili si abbozzano
soprattutto al momento del lavoro mattutino ed evolvono fino al pranzo. Allora
emergono le storie, come la relazione fra la capo cameriera Monique, una Elisabetta Mazzullo mirabile nellincostanza
e nel tormento, e laddetto al pesce Peter, un Aldo Ottobrino di esasperata e frustrata speranza.
Una scena dello spettacolo
© Bepi Caroli
La drammatizzazione è
nellinsieme guidata in un crescendo ben ritmato, dallorganizzazione iniziale
alla confezione dei piatti e al servizio frenetico ai tavoli. Fino a unacme sostenuta da musica e luci, che sfocia nella pausa pomeridiana
e si fissa in un tableau vivant composto
al rallentatore in modo suggestivo. A riposo, i lavoratori esprimono sentimenti
e “sogni” in una sequenza in forma dintervista, nella quale ciascuno si confessa
apertamente. Momento dai toni ludici che la chitarra di Aleph Viola sottolinea negli sfoghi più intimi. Poi, dopo un
ennesimo tentativo dintesa fra gli amanti infelici – al proscenio, idillio e violenza
–, scatta il parossistico accesso dira autolesionista di Peter che si ferisce
con un coltello e fugge sanguinante. Il ménage
si scioglie con la scoperta di un ulteriore inganno della donna, costretta alla
scelta da inattesa gravidanza. La chiusura mostra una patetica riconciliazione,
dopo la rissa, fra lo stesso Peter e Paul, il pasticcere “napoletano”
suscettibile e istintivo, interpretato dal graffiante Gennaro Apicella.
Una scena dello spettacolo
© Bepi Caroli
I destini umani esemplari si rappresentano
senza caricatura, grazie a unintensa adesione emotiva degli attori. Risaltano nei
particolari il disincanto del capo chef Leo (Emmanuele Aita); lo stoicismo di Alfredo, laiuto cuoco vittima
duna bruciatura, recitato con autorevolezza da Nicola Pannelli; le scanzonate divagazioni ottimiste della ragazza-madre
di Elena Gigliotti; il genio di
Dimitri (Antonio Bannò) costruttore
di una radio che fa ballare i colleghi; limprontitudine dellapprendista resa
da Francesca Agostini. Del proprietario Marango, che ha lopulenza volgare di Massimo Cagnina, si apprezza la
mitomania produttivista e la personificazione dellinteresse venale; del macellaio
Max, di Andrea Di Casa, lintolleranza
dellebreo verso il “tedesco”; nel barbone di Franco Ravera, laffettuosità. Traduzione squillante di timbri quotidiani
di Alessandra Serra, aggiornata
rispetto a quella di Betty Foà
(1965). La scenografia unica e fissa di Guido
Fiorato è uno stanzone a fornelli
centrali, invaso da tavoli e scaffali, vecchio e opprimente luogo di reclusione.
Musica e luce agiscono in sinergia, suscitando tensione, angoscia quasi, poi un
clima rasserenato. Intonate infine a una malinconica coscienza del passare del
tempo, dei contrasti da sanare, nel desiderio del dono di una pace auspicabile,
ma sempre, sempre rinviata.
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