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  aufraghi, trafficanti, clandestini nel teatro italiano del 2000
Data di pubblicazione su web 16/10/2016  

Pubblichiamo di seguito un saggio apparso sulla rivista «Il Cristallo. Rassegna di variaumanità», LVIII, 2016, 1, pp. 78-81.

Il 25 dicembre 1996 al largo di Portopalo in Sicilia affonda un piccolo battello carico di migranti. Muoiono duecentottantatré persone. Molti corpi si impigliano nelle reti dei pescatori che, spaventati dai possibili danni alla pesca e al turismo, li ributtano in mare. Una delle più grandi tragedie navali avvenute nel Mediterraneo dal dopoguerra scivola nell’oblio mediatico. Solo cinque anni dopo la testimonianza di un pescatore sollecita il giornalista Giovanni Maria Bellu ad aprire un’inchiesta che riesce ad individuare e filmare il relitto inabissato, prontamente battezzato La nave fantasma; poi titolo del testo scritto dallo stesso giornalista e da due attori, Renato Sarti e Bebo Storti, interpreti dello spettacolo prodotto nel 2004 dal Teatro della Cooperativa, nell’hinterland milanese. Nella messinscena convergono due registri espressivi: foto di morti sepolti nel mare, giornali, materiale video, peluches e altri oggetti interagiscono, secondo la formula del teatro-documento, con il racconto dei pescatori e con la storia del giovane Anpalang partito dallo Sri Lanka in cerca di opportunità di lavoro in Inghilterra. Sketches di gusto cabarettistico animano le grottesche parodie di Prodi, D’Alema e del leghista Borghezio. La nave fantasma contiene in sé le tematiche proprie dei fenomeni migratori riproposte dai successivi testi teatrali: la disperazione dei clandestini, la ferocia dei trafficanti di esseri umani, l’ambiguità delle autorità e dei media, l’indifferenza e le tante paure della nostra società.

Ritorna sullo stesso episodio Giorgio Barberio Corsetti con Portopalo. Nomi, su tombe senza corpi, opera presentata nel 2006 a Romaeuropa Festival. Lo spettacolo ricalca la struttura drammaturgica de La nave fantasma e la sua funzione di teatro d’inchiesta. Le testimonianze dei superstiti e dei famigliari, raccolte durante un viaggio appositamente compiuto nelle terre d’origine dei profughi, raccontano l’angosciante attesa di notizie da parte dei loro cari e il grande vuoto lasciato. Il materiale è contenuto in un film documentario proiettato durante lo spettacolo, che si avvale anche di musiche dal vivo e della presenza in scena del menzionato Bellu, che si fa portavoce della denuncia contro i responsabili della tragedia.

Nel 2010 il Teatro delle Albe propone Rumore di acque, testo e regia di Marco Martinelli. Un monologo dall’humor nero che abbandona la formula del teatro-documento. Alessandro Renda vi interpreta la figura demoniaca di un generale in uniforme gallonata, sorta di moderno Caronte incaricato da un fantomatico Ministro degli Inferni addetto alla “politica dell’accoglienza” di compilare l’elenco dei dispersi in fondo al Mediterraneo. In questo macabro oratorio, in cui echeggia il coro della tragedia greca, ogni vittima corrisponde a un numero e resuscita per narrare in pochi minuti storie di deserti da attraversare, polizia e scafisti feroci, gommoni affondati, tanta violenza.

Se in queste opere il linguaggio è aspro e rabbioso, in altre la parola sperimenta soluzioni diverse. Assume venature comiche ne Il mercante di uomini, scritto da Roberto Cavosi nel 2002 per il “Teatrogiornale” di Rai3. Emir è uno scafista professionista con prezzi adeguati alla qualità dei servizi offerti ma ora teme la concorrenza dei dilettanti criminali. Abbas è un politico in carriera e teme che i traffici del fratello gli rovinino la reputazione. I due danno vita ad un dialogo tra l’assurdo e il grottesco. Entrambi si dichiarano “europeisti”: Abbas perché sostenuto da ideali politici, Emir perché assolve la funzione di “operatore umanitario” e sociale nel momento in cui garantisce mano d’opera.

Nei drammi di Lina Prosa, raccolti nella Trilogia del Naufragio e allestiti in prima assoluta alla Comédie-Française / Théâtre Vieux-Colombier di Parigi, il linguaggio si colora di sfumature poetiche in una metamorfosi espressiva che si evolve dal tono ordinario al sibilato fino al silenzio. Protagonista del primo monologo, Lampedusa Beach (2003), è Shauba, giovane africana clandestina e naufraga. Sta annegando e mentre sprofonda lentamente verso il fondo sabbioso della tanto agognata Lampedusa, parla boccheggiando, racconta in apnea il sogno di una vita migliore, l’indifferenza del mondo, il rapporto primordiale con l’acqua, la sua identità mediterranea. Non meno inquietante è il successivo monologo, Lampedusa Snow (2012): Mohamen è un giovane ingegnere africano sbarcato sull’isola siciliana e poi trasferito in attesa di identificazione in un centro di accoglienza nelle Alpi orobiche, dal quale presto fugge. Nella sofferta ascensione verso la Vetta d’Italia incontra un ex partigiano che gli insegna Bella ciao. Durante il racconto il suo respiro è sempre più ansimante, il passo si “inabissa” nel mare della neve per poi essere travolto da una valanga che lo seppellirà. Lampedusa Way (2014) chiude il cerchio. Si tratta dell’incontro tra Mahama, la zia tanto amata da Shauba, e Saïf, lo zio di Mahamed, sulla spiaggia di Lampedusa, dove sono giunti per ritrovare i nipoti o ricevere loro notizie, fino a quando, sconfitti dall’angoscia, scrivono all’ambasciatore. Nel frattempo scade il loro permesso di soggiorno e i due diventano a loro volta clandestini. Dal naufragio fisico si passa al naufragio esistenziale, allo smarrimento dell’anima nel mare dell’ignoto.

Questi testi condividono il tema del dramma di viaggio, mentre altri affrontano l’impatto del migrante nella nostra società. Da naufrago e clandestino diventa extracomunitario, depositario di una mentalità e una cultura “diverse” intorno alle quali si sviluppa la dialettica di incontro-scontro con i valori dell’Occidente, a partire dalla religione. Così la figura di San Pietro nell’omonimo radiodramma di Cavosi assurge a simbolico archetipo storico. Al porto di Ostia il personaggio del titolo conosce Caio, centurione dell’imperatore Nerone e dilettante pescatore, a cui, in una sorta di parafrasi del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, insegna la tecnica corretta per muovere e riempire la rete. Il loro rapporto amichevole precipita per la reazione violenta della moglie Claudia, intollerante verso la religione cristiana, tanto da indurre il marito a denunciare alle autorità romane il futuro Pontefix Maximum che poi, paradossalmente, sarà crocifisso dallo stesso Caio, nel frattempo tormentato spiritualmente tra conversione e mantenimento del credo pagano.

In Diritto d’asilo, altro pungente radiodramma di Cavosi (2002), il luogo dell’azione e la tipologia dei personaggi risultano emblematici. Alla biglietteria della stazione Termini una signora blocca la fila perché non sa dove andare. Le persone si innervosiscono e una di queste, Daniela, dice: «Ma sai che sei una bella faccia tosta? Ma credi di essere la Madonna?». La donna risponde: «Sì». È la battuta della svolta. L’umanizzazione del personaggio evangelico nei panni dell’extracomunitaria alla ricerca di una destinazione alimenta nei viaggiatori, che invece hanno una meta precisa, un atteggiamento di solidarietà, indotto anche dal ricordo di un comune passato di emigranti nelle vite dei loro parenti.

I protagonisti delle commedie dell’autore e regista Cesare Lievi vivono invece un contatto più ravvicinato con la società, cercano l’integrazione, come i due giovani brasiliani Gustavo e Danniel in Il mio amico Baggio, atto unico del 2007 e seconda opera di una trilogia sull’immigrazione. La loro storia, esposta in scena da una narratrice (Giuseppina Turra), racconta l’impatto con Brescia, le difficoltà di trovare alloggio, l’incontro con un mimo-angelo che li accompagna ad un provino televisivo. Ma falliscono come Roberto Baggio nel 1994, quando sbagliò il rigore regalando il Mondiale al Brasile. La nostalgia ha il sopravvento e di lì a poco i due ritornano, in silenzio, nella loro terra di provenienza.

Fotografia di una stanza, testo di apertura della trilogia di Lievi scritto e rappresentato nel 2005 (produzione del Teatro Stabile di Brescia), introduce la struttura dialogica nell’atto unico in tre scene organizzate secondo un movimento circolare. La carta d’identità dell’immigrato cambia status anagrafico. Dragosch (Alessandro Averone), giovane piuttosto bello e sognatore, proviene dall’Est europeo ed è assunto come apprendista da Giuseppe (Stefano Santospago), uomo spento, collerico e protettivo. I due stanno ultimando i lavori di tappezzeria in una stanza elegante e sono in attesa della Signora (Carla Chiarellli) che verrà a controllare l’operato. Intanto parlano di solitudini e frustrazioni, sogni, rapporti tra le classi sociali, sesso e generazioni. La proiezione onirica del riscatto sociale si concretizza nel secondo atto: Dragosch si trova nella camera con la proprietaria per un incontro di sesso consumato con il gioco proibito della prostituzione, come un gigolò fra cocaina e denaro. Non sappiamo se si tratti di una proiezione del desiderio oppure di una situazione vera. Poco importa. Nel terzo atto l’azione torna al punto di partenza, si accentua il rapporto di solidarietà tra i due compagni che però non argina la solitudine delle loro vite.

Completa questa trilogia la commedia in tre atti La badante, con cui Lievi ha vinto il Premio Ubu 2008 come migliore autore di novità italiane (produzione Teatro Stabile di Brescia). Il drammaturgo inserisce nella tipologia dei personaggi, che all’inizio della vicenda riproducono dinamiche relazionali convenzionali da un punto di vista etico e morale, precise connotazioni psicologiche: segno di ricchezza interiore elevata a epicentro tellurico di scosse vitali e decisive per il superamento delle barriere del “diverso”. Ludmilla è una giovane ucraina assunta come badante per accudire una anziana vedova che vive in una ricca villa affacciata sul lago di Garda presso Salò. Nel primo atto dominano i luoghi comuni sugli immigrati. La donna accusa la badante di essere una spia, una ladra, una persona solo interessata al denaro, mentre il figlio smentisce con durezza le feroci accuse e smonta l’impianto di pregiudizi fino a riuscire a convincere la madre. La scena successiva rovescia la situazione: la madre è morta, la casa è in dismissione, i figli scoprono la misteriosa scomparsa del consistente patrimonio famigliare. Il sospetto è l’estorsione con inganno da parte della badante, facilitata dalla debolezza fisica e mentale dell’anziana. Si scatena un coro di disprezzo contro la straniera, di rifiuto del “diverso”, di antonomastica propensione alla criminalità da parte di chi non è italiano. Il flashback del terzo atto smentisce tutto. È un dialogo in sintonia tra Ludmilla e la sua assistita che ora vive la sua presenza con affettuosa positività, considerandola come il suo angelo custode straniero nel quale proietta ciò che avrebbe voluto essere se non fosse stata figlia di un gerarca fascista, poi moglie di un uomo ricco morto ancora giovane e madre di due figli di fatto assenti nella sua vita. Ne consegue l’imprevedibile decisione di lasciare tutte le ricchezze alla sua badante perché ne possa beneficiare con i propri figli e il marito pur lontani ma presenti negli affetti. Lo sviluppo finale della commedia di Lievi contiene in sé una metafora storica. La signora e Ludmilla rappresentano due mondi contrapposti: la prima è il segno dell’Italia-Europa ricca e vecchia, mortificata nella corruzione e nella mancanza di valori positivi, priva di sogni e speranze; la seconda incarna i paesi poveri in cui sopravvivono i valori della famiglia e del sostegno reciproco, della condivisione e degli affetti.

Assume connotati altrettanto metaforici, esempio di una mentalità radicata nella società occidentale, la visione dell’extracomunitario allusa in Stranieri di Antonio Tarantino, monologo presentato in prima nazionale al Teatro San Giorgio di Udine nel 2000. L’immigrato è tratteggiato come figura impalpabile eppure viva e presente nelle manie di persecuzione vissute da un solitario anziano con catetere e bypass. L’uomo vive barricato nel suo appartamento, in pigiama, e dà libero sfogo alle sue maniacali ossessioni cercando rifugio in un ininterrotto autocelebrarsi. La paura dello straniero non è motivata da episodi specifici o da una presa di posizione ideologica, ma si esprime in poche battute, quasi frasi fatte riprese da un immaginario dizionario della collettività. Qualche esempio: «C’è un mucchio di ladri / In giro oggigiorno / Colpa del Governo / Accoglienza / Tutti delinquenti / Quasi tutti»; oppure: «Non hanno voglia / Di lavorare», e, per concludere: «Non ci fate impressione / Sappiamo come stanno le cose / Vi abbiamo studiato / Inutile parlare arabo / Sappiamo tutto».

Tra La nave fantasma, con cui si è aperta questa rassegna, e il conclusivo Straniero si sono alternati testi eterogenei che concorrono a qualificarsi come espressione di un preciso filone di ricerca drammaturgica ancorato a una tradizione nascente, che adotta diversi stili di scrittura nell’approccio descrittivo e analitico dei fenomeni migratori. Un percorso creativo alimentato dalla Storia e perciò destinato ad arricchirsi di nuovi contributi, come dimostra il recente debutto al Teatro della Cooperativa di Milano di Scusate se non siamo morti in mare di Emanuele Aldovrandi con la regia di Pablo Solari. Finalista del Premio Tondelli edizione 2015, il testo ricava il titolo da un cartellone esposto da alcuni immigrati durante una manifestazione a Lampedusa e ambienta la vicenda prima al porto dove tre migranti attendono la partenza, poi all’interno del container in cui sono nascosti, quindi in mezzo al mare dopo il naufragio dell’imbarcazione sulla quale viaggiavano e, in un finale allucinante quasi onirico, a contatto con le balene.



 
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