Il terzo e ultimo dei film italiani in concorso alla Mostra
porta la firma di Giuseppe Piccioni,
giunto ormai al suo decimo lungometraggio. Laccoglienza, diciamolo subito, non
è delle più calorose: pochi applausi, qualche fischio, e la sensazione che la competizione
ufficiale non rappresenti il contesto più adatto per unopera di questo tenore.
In realtà il film, al netto dei pur numerosi difetti, è sintomatico di una
tensione mal gestita tra la legittima aspirazione della rassegna ad aprirsi a
un cinema più popolare e le aspettative di un pubblico, quello del Festival, i
cui gusti restano orientati verso prodotti che presentano qualche elemento di
ricerca formale.
Una scena del film La storia, ispirata da un romanzo inedito di Marta Bertini, ripercorre le vicende di
quattro amiche di Gaeta. Una di loro, Caterina (Marta Gastini), viene assunta in un hotel di lusso a Belgrado: le
altre tre decidono di concedersi una vacanza per accompagnarla in questa sua
nuova esperienza. In una delle prime tappe del viaggio, le giovani incontrano in
un campeggio un gruppo di ragazzi serbi che le fanno la corte. Lepisodio induce
ciascuna di esse a confrontarsi con i propri problemi: Liliana (Maria Roveran), verso cui Caterina
prova un amore non corrisposto, nasconde un tumore che rischia di degenerare
giorno dopo giorno, mentre Anna (Caterina
Le Caselle) è allinizio di una gravidanza. Alle scene del viaggio se ne
alternano altre in cui la madre di Liliana (Margherita Buy), dopo aver appreso dalla cartella clinica della
figlia che le sue condizioni di salute stanno per aggravarsi, cerca una spalla
per il proprio dolore nel futuro relatore della tesi della ragazza, il professor
Mariani (Filippo Timi).
Gli
intenti di Piccioni sono chiari e, almeno sulla carta, lodevoli: coniugare i temi sempiterni del viaggio e dellamicizia con un
occhio al racconto sociale e laltro al romanzo di formazione. Il personaggio
di Caterina è originale, e intercetta quel mix di disoccupazione, precarietà
esistenziale e mobilità internazionale che interessa buona parte della
popolazione giovanile di oggi. Le quattro protagoniste vivono una situazione di
smarrimento, ma è uno smarrimento che porta alla scoperta di destinazioni
nuove, attraverso regioni poco esplorate dal cinema nostrano come la Serbia e
il Montenegro.
Una scena del film
Tuttavia vengono a galla i difetti del cinema di Piccioni, che
consistono nellostinazione a investire le vicende narrate di aspirazioni
esistenziali, familiari e generazionali, spesso fuori fuoco. Qui si aggiunge
una complessiva sciatteria in fase di sceneggiatura: i personaggi sono piatti, le
loro evoluzioni prevedibili, le battute telefonate. Il buon soggetto di
partenza scade rapidamente nel cliché, sia sul piano delle soluzioni linguistiche che,
soprattutto, su quello della caratterizzazione dei personaggi. Per paura di non
essere in grado di raccontare quel mondo, il regista lascia alle ragazze piena
libertà, convinto che sia il loro sguardo, più che il suo, a conferire veridicità
ai fatti narrati. Eppure, nonostante qualche spunto inedito, tutto sa di già
visto, di già raccontato: le ragazze sembrano comportarsi come se fossero in un
qualsiasi quartiere di Roma anziché a Belgrado.
Le protagoniste, con leccezione di Caterina (lesbica “dura
dal cuore doro”), sono pressoché identiche, ed è difficile immedesimarsi con loro.
I personaggi secondari non sono da meno: si pensi a Mina (Mina Djukic), la inutilmente bella proprietaria della casa di
Belgrado, attivista militante impegnata nelloccupazione di un cinema abbandonato
che sembra uscita da un qualunque film italiano contemporaneo a sfondo politico.
Margherita Buy interpreta il ruolo di sempre, quello di madre schizzata e
apprensiva perennemente sullorlo di una crisi di nervi, e pure laffascinante
e sensibile professor Mariani è privo di spessore, cucito su misura di un inespressivo
Filippo Timi.
Una scena del film
Questa sovrabbondanza di cliché, per uno come Piccioni che in
altre opere ha dimostrato un acume e una sensibilità non comuni, potrebbe
essere spiegata alla luce di una profonda crisi di ispirazione. In realtà è più
probabile che si tratti di pura e semplice pigrizia: Questi Giorni resta nello stereotipo, come tanto cinema italiano
contemporaneo, perché non ha alcun interesse a infrangerlo. È un cinema che non
aspira ad altro che a imitare sé stesso, sul piano sia formale che del
contenuto, e che se cerca di differenziarsi lo fa tentando di elevare il discorso
verso i territori “alti” del dramma. Lo stesso soggetto, trattato in chiave
comica, avrebbe avuto tantissime carte da giocare (si pensi alle incomprensioni
culturali, politiche, linguistiche, gastronomiche…); anche limpianto narrativo,
uno strampalato e disorganizzato road movie
italiano in terra slava, avrebbe reso più appetibile tale soluzione. Ma certo cinema
dautore, si sa, snobba la commedia. Tutto il
film è sporcato da una forzata e ruffiana volontà di “volare alto”, e il
finale, che per descrivere il rapporto madre-figlia scomoda addirittura Bergman, ha il risultato di allontanare
sia lesigente audience festivaliera
che, con tutta probabilità, il grande pubblico. Una presentazione fuori dalla
competizione ufficiale (come avvenuto, ad esempio, per LEstate Addosso di Gabriele
Muccino) avrebbe forse giovato sia al film che
al Festival.
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