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Non è un paese per commedie

di Raffaele Pavoni
  Questi giorni
Data di pubblicazione su web 09/09/2016  

Il terzo e ultimo dei film italiani in concorso alla Mostra porta la firma di Giuseppe Piccioni, giunto ormai al suo decimo lungometraggio. L’accoglienza, diciamolo subito, non è delle più calorose: pochi applausi, qualche fischio, e la sensazione che la competizione ufficiale non rappresenti il contesto più adatto per un’opera di questo tenore. In realtà il film, al netto dei pur numerosi difetti, è sintomatico di una tensione mal gestita tra la legittima aspirazione della rassegna ad aprirsi a un cinema più popolare e le aspettative di un pubblico, quello del Festival, i cui gusti restano orientati verso prodotti che presentano qualche elemento di ricerca formale.


Una scena del film
Una scena del film

La storia, ispirata da un romanzo inedito di Marta Bertini, ripercorre le vicende di quattro amiche di Gaeta. Una di loro, Caterina (Marta Gastini), viene assunta in un hotel di lusso a Belgrado: le altre tre decidono di concedersi una vacanza per accompagnarla in questa sua nuova esperienza. In una delle prime tappe del viaggio, le giovani incontrano in un campeggio un gruppo di ragazzi serbi che le fanno la corte. L’episodio induce ciascuna di esse a confrontarsi con i propri problemi: Liliana (Maria Roveran), verso cui Caterina prova un amore non corrisposto, nasconde un tumore che rischia di degenerare giorno dopo giorno, mentre Anna (Caterina Le Caselle) è all’inizio di una gravidanza. Alle scene del viaggio se ne alternano altre in cui la madre di Liliana (Margherita Buy), dopo aver appreso dalla cartella clinica della figlia che le sue condizioni di salute stanno per aggravarsi, cerca una spalla per il proprio dolore nel futuro relatore della tesi della ragazza, il professor Mariani (Filippo Timi). 

Gli intenti di Piccioni sono chiari e, almeno sulla carta, lodevoli: coniugare i temi sempiterni del viaggio e dell’amicizia con un occhio al racconto sociale e l’altro al romanzo di formazione. Il personaggio di Caterina è originale, e intercetta quel mix di disoccupazione, precarietà esistenziale e mobilità internazionale che interessa buona parte della popolazione giovanile di oggi. Le quattro protagoniste vivono una situazione di smarrimento, ma è uno smarrimento che porta alla scoperta di destinazioni nuove, attraverso regioni poco esplorate dal cinema nostrano come la Serbia e il Montenegro.


Una scena del film
Una scena del film

Tuttavia vengono a galla i difetti del cinema di Piccioni, che consistono nell’ostinazione a investire le vicende narrate di aspirazioni esistenziali, familiari e generazionali, spesso fuori fuoco. Qui si aggiunge una complessiva sciatteria in fase di sceneggiatura: i personaggi sono piatti, le loro evoluzioni prevedibili, le battute telefonate. Il buon soggetto di partenza scade rapidamente nel cliché, sia sul piano delle soluzioni linguistiche che, soprattutto, su quello della caratterizzazione dei personaggi. Per paura di non essere in grado di raccontare quel mondo, il regista lascia alle ragazze piena libertà, convinto che sia il loro sguardo, più che il suo, a conferire veridicità ai fatti narrati. Eppure, nonostante qualche spunto inedito, tutto sa di già visto, di già raccontato: le ragazze sembrano comportarsi come se fossero in un qualsiasi quartiere di Roma anziché a Belgrado.

Le protagoniste, con l’eccezione di Caterina (lesbica “dura dal cuore d’oro”), sono pressoché identiche, ed è difficile immedesimarsi con loro. I personaggi secondari non sono da meno: si pensi a Mina (Mina Djukic), la inutilmente bella proprietaria della casa di Belgrado, attivista militante impegnata nell’occupazione di un cinema abbandonato che sembra uscita da un qualunque film italiano contemporaneo a sfondo politico. Margherita Buy interpreta il ruolo di sempre, quello di madre schizzata e apprensiva perennemente sull’orlo di una crisi di nervi, e pure l’affascinante e sensibile professor Mariani è privo di spessore, cucito su misura di un inespressivo Filippo Timi.


Una scena del film
Una scena del film

Questa sovrabbondanza di cliché, per uno come Piccioni che in altre opere ha dimostrato un acume e una sensibilità non comuni, potrebbe essere spiegata alla luce di una profonda crisi di ispirazione. In realtà è più probabile che si tratti di pura e semplice pigrizia: Questi Giorni resta nello stereotipo, come tanto cinema italiano contemporaneo, perché non ha alcun interesse a infrangerlo. È un cinema che non aspira ad altro che a imitare sé stesso, sul piano sia formale che del contenuto, e che se cerca di differenziarsi lo fa tentando di elevare il discorso verso i territori “alti” del dramma. Lo stesso soggetto, trattato in chiave comica, avrebbe avuto tantissime carte da giocare (si pensi alle incomprensioni culturali, politiche, linguistiche, gastronomiche…); anche l’impianto narrativo, uno strampalato e disorganizzato road movie italiano in terra slava, avrebbe reso più appetibile tale soluzione.

Ma certo cinema d’autore, si sa, snobba la commedia. Tutto il film è sporcato da una forzata e ruffiana volontà di “volare alto”, e il finale, che per descrivere il rapporto madre-figlia scomoda addirittura Bergman, ha il risultato di allontanare sia l’esigente audience festivaliera che, con tutta probabilità, il grande pubblico. Una presentazione fuori dalla competizione ufficiale (come avvenuto, ad esempio, per L’Estate Addosso di Gabriele Muccino) avrebbe forse giovato sia al film che al Festival. 




Questi giorni
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In concorso 

La locandina del film
La locandina 



 
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