Dopo Frantz (link) di François Ozon, è il turno del secondo
film francese in concorso, Une vie di
Stéphane Brizé. A un anno di
distanza da La legge del mercato, per
il quale Vincent Lindon è stato
insignito del Premio per la migliore interpretazione maschile al sessantottesimo
Festival di Cannes, Brizé sbarca in Laguna con una personalissima e
appassionata rilettura di un classico della letteratura francese, Une Vie di Guy de Maupassant. Un soggetto molto lontano dal precedente, eppure
per certi versi analogo. Anche qui si esplora il legame tra vita affettiva e
instabilità economica, benché non più nei termini di un dilemma morale ma in
quelli di un conflitto emotivo, di una lotta contro la depressione e la
solitudine.
La
storia, ambientata in Normandia, narra le vicende di Jeanne (Judith Chemla), giovane aristocratica che
si innamora perdutamente del visconte Julien de Lamare (Swann Arlaud), dietro il cui fascino si cela un carattere
intransigente e un istinto fedifrago. In seguito al tradimento di questultimo
con la serva Rosalie (Nina Meurisse),
Jeanne decide di cacciare questultima e di perdonare lamato, la cui recidiva
relazione con la vicina di casa Gilberte (Clotilde
Hesme) lo porta tuttavia alla morte, per mano del marito di lei (Alain Beigel). Dopo il decesso del
padre, laffetto di Jeanne si riversa sul figlio Paul (Finnegan Oldfield), il quale, partito per il college, inizia una
vita dissoluta, sperperando le risorse familiari e contattando la madre solo
per chiederle somme di denaro sempre più ingenti. Ridotta sul lastrico, Jeanne
non perde tuttavia la speranza di riabbracciare suo figlio.
Una scena del film Alla base della rilettura di Maupassant cè un forte marchio autoriale,
che si concretizza in una serie di scelte estetiche ben definite. Innanzitutto
la camera a mano e lutilizzo di un formato, il 4:3, funzionale a suggerire la
condizione di prigionia di Jeanne: «una scatola (la sua storia) da cui è
difficile, o forse impossibile, scappare» (così il regista nel pressbook della Mostra). A ciò si combina
la splendida fotografia di Antoine
Héberlé – che predilige la luce naturale e i lievissimi chiaroscuri, quasi
a controbilanciare il pathos del
racconto – e una colonna sonora scarna: poche e ben dosate parti di pianoforte,
di ispirazione barocca, a firma di Olivier
Baumont. Tutto sembra concorrere verso uno stile visivo estremamente intimo,
privato; ed è con questo “armamentario” che Brizé ingaggia con lattrice, unimpeccabile
e misurata Judith Chemla, un vero e proprio corpo a corpo.
È proprio nel rapporto tra il regista e lattrice che si
sprigiona tutta la poesia del film, in una sorta di corto circuito tra lo
sguardo voyeuristico dello spettatore (stimolato dal formato e dalla qualità
dellimmagine) e quello, desiderante, della protagonista. La macchina da presa
la sorprende in continui primi piani, ma sempre di tre quarti o addirittura di profilo;
come se, una volta raggiunto un livello di intimità quasi cutaneo con il suo
personaggio (le oscillazioni dellobiettivo ne seguono perfino i respiri), il
regista sentisse il bisogno di distanziarsene. Quasi per una sorta di pudore
istintivo nei confronti di una figura ingombrante, scomodata dalla grande
letteratura.
Lo stesso pudore, Brizé pare averlo nei
confronti del testo di origine, le cui ambientazioni sono riprodotte con un
realismo quasi “Dogma”, ma la cui struttura narrativa viene totalmente
decostruita, inframezzata da continui flashback: evitando il rischio di
snaturare il suo modello, il regista se ne discosta il più possibile, cercando
di non “raccontare” ciò che può essere “mostrato”.
Una scena del film
In questo consapevole lavoro di riadattamento acquista
un ruolo primario la figura dellellisse. È negli stacchi di montaggio, che scandiscono
talvolta bruscamente il passaggio tra le diverse fasi della vita di Jeanne (la
morte del marito e del padre, la partenza del figlio), che si uniscono
inconfondibilmente realtà e ricordo, amarezza e desiderio, laddove lunico
principio organizzativo sembra essere quello, tutto interiore, del sentimento
della protagonista. A differenza del romanzo, le vicissitudini londinesi di
Paul, sedotto e raggirato da una prostituta che sta con lui solo per soldi,
vengono tenute fuori campo: il punto di vista è quello di Jeanne, e lo
spettatore, come lei, non è tenuto e non vuole sapere dove sta la verità, continuando
a nutrire unostinata speranza. Nellincertezza dellepilogo, in cui Jeanne raggiunge
uno stato molto avanzato di depressione, limmedesimazione con il personaggio
arriva al suo zenit, e il risultato è
da brividi.
Quello di Brizé è un racconto contemporaneo in cui le
immagini, più che mostrare, occultano, rifuggono dalla realtà per identificarsi
e dare forma al sentimento della protagonista. Interpretando Maupassant come
una sorta di “cinema privato” del suo tempo, il regista trova una sua personalissima,
feconda chiave di lettura: è nel suo collocarsi fuori dal mondo, sia
fisicamente che mentalmente, che stanno il fascino e linnocenza di Jeanne:
puro desiderio avulso da qualsiasi meschinità terrena. Tra i film in concorso, quello
di Brizé contiene una delle riflessioni più complesse e più appassionate sulla
Settima Arte e sul suo potere di raccontarci non solo lamore, ma anche e
soprattutto la speranza dellamore, lunico principio in grado di portare
avanti il racconto di una vita.
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