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Aristocrazia francese e cinema privato

di Raffaele Pavoni
  Une vie
Data di pubblicazione su web 10/09/2016  

Dopo Frantz (link) di François Ozon, è il turno del secondo film francese in concorso, Une vie di Stéphane Brizé. A un anno di distanza da La legge del mercato, per il quale Vincent Lindon è stato insignito del Premio per la migliore interpretazione maschile al sessantottesimo Festival di Cannes, Brizé sbarca in Laguna con una personalissima e appassionata rilettura di un classico della letteratura francese, Une Vie di Guy de Maupassant. Un soggetto molto lontano dal precedente, eppure per certi versi analogo. Anche qui si esplora il legame tra vita affettiva e instabilità economica, benché non più nei termini di un dilemma morale ma in quelli di un conflitto emotivo, di una lotta contro la depressione e la solitudine.

La storia, ambientata in Normandia, narra le vicende di Jeanne (Judith Chemla), giovane aristocratica che si innamora perdutamente del visconte Julien de Lamare (Swann Arlaud), dietro il cui fascino si cela un carattere intransigente e un istinto fedifrago. In seguito al tradimento di quest’ultimo con la serva Rosalie (Nina Meurisse), Jeanne decide di cacciare quest’ultima e di perdonare l’amato, la cui recidiva relazione con la vicina di casa Gilberte (Clotilde Hesme) lo porta tuttavia alla morte, per mano del marito di lei (Alain Beigel). Dopo il decesso del padre, l’affetto di Jeanne si riversa sul figlio Paul (Finnegan Oldfield), il quale, partito per il college, inizia una vita dissoluta, sperperando le risorse familiari e contattando la madre solo per chiederle somme di denaro sempre più ingenti. Ridotta sul lastrico, Jeanne non perde tuttavia la speranza di riabbracciare suo figlio.


Una scena del film
Una scena del film

Alla base della rilettura di Maupassant c’è un forte marchio autoriale, che si concretizza in una serie di scelte estetiche ben definite. Innanzitutto la camera a mano e l’utilizzo di un formato, il 4:3, funzionale a suggerire la condizione di prigionia di Jeanne: «una scatola (la sua storia) da cui è difficile, o forse impossibile, scappare» (così il regista nel pressbook della Mostra). A ciò si combina la splendida fotografia di Antoine Héberlé – che predilige la luce naturale e i lievissimi chiaroscuri, quasi a controbilanciare il pathos del racconto – e una colonna sonora scarna: poche e ben dosate parti di pianoforte, di ispirazione barocca, a firma di Olivier Baumont. Tutto sembra concorrere verso uno stile visivo estremamente intimo, privato; ed è con questo “armamentario” che Brizé ingaggia con l’attrice, un’impeccabile e misurata Judith Chemla, un vero e proprio corpo a corpo. 

È proprio nel rapporto tra il regista e l’attrice che si sprigiona tutta la poesia del film, in una sorta di corto circuito tra lo sguardo voyeuristico dello spettatore (stimolato dal formato e dalla qualità dell’immagine) e quello, desiderante, della protagonista. La macchina da presa la sorprende in continui primi piani, ma sempre di tre quarti o addirittura di profilo; come se, una volta raggiunto un livello di intimità quasi cutaneo con il suo personaggio (le oscillazioni dell’obiettivo ne seguono perfino i respiri), il regista sentisse il bisogno di distanziarsene. Quasi per una sorta di pudore istintivo nei confronti di una figura ingombrante, scomodata dalla grande letteratura. Lo stesso pudore, Brizé pare averlo nei confronti del testo di origine, le cui ambientazioni sono riprodotte con un realismo quasi “Dogma”, ma la cui struttura narrativa viene totalmente decostruita, inframezzata da continui flashback: evitando il rischio di snaturare il suo modello, il regista se ne discosta il più possibile, cercando di non “raccontare” ciò che può essere “mostrato”.


Una scena del film
Una scena del film

In questo consapevole lavoro di riadattamento acquista un ruolo primario la figura dell’ellisse. È negli stacchi di montaggio, che scandiscono talvolta bruscamente il passaggio tra le diverse fasi della vita di Jeanne (la morte del marito e del padre, la partenza del figlio), che si uniscono inconfondibilmente realtà e ricordo, amarezza e desiderio, laddove l’unico principio organizzativo sembra essere quello, tutto interiore, del sentimento della protagonista. A differenza del romanzo, le vicissitudini londinesi di Paul, sedotto e raggirato da una prostituta che sta con lui solo per soldi, vengono tenute fuori campo: il punto di vista è quello di Jeanne, e lo spettatore, come lei, non è tenuto e non vuole sapere dove sta la verità, continuando a nutrire un’ostinata speranza. Nell’incertezza dell’epilogo, in cui Jeanne raggiunge uno stato molto avanzato di depressione, l’immedesimazione con il personaggio arriva al suo zenit, e il risultato è da brividi.

Quello di Brizé è un racconto contemporaneo in cui le immagini, più che mostrare, occultano, rifuggono dalla realtà per identificarsi e dare forma al sentimento della protagonista. Interpretando Maupassant come una sorta di “cinema privato” del suo tempo, il regista trova una sua personalissima, feconda chiave di lettura: è nel suo collocarsi fuori dal mondo, sia fisicamente che mentalmente, che stanno il fascino e l’innocenza di Jeanne: puro desiderio avulso da qualsiasi meschinità terrena. Tra i film in concorso, quello di Brizé contiene una delle riflessioni più complesse e più appassionate sulla Settima Arte e sul suo potere di raccontarci non solo l’amore, ma anche e soprattutto la speranza dell’amore, l’unico principio in grado di portare avanti il racconto di una vita.




Une vie
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In concorso

La locandina
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