Una scena del film
Siamo
di nuovo in un futuro molto prossimo e distopico, in cui gli “indesiderati”
alla società vengono condannati ad essere rinchiusi in un enorme recinto (il
“lotto cattivo” del titolo) che circonda un deserto texano, allinterno del
quale non vigono più le leggi degli Stati Uniti dAmerica, ma solo quelle della
sopravvivenza, e dove ognuno è “libero” di fare ciò che vuole. In questo
deserto viene condotta Arlen (Suki
Waterhouse), una “cattiva ragazza” come tante, che subito viene catturata
da una comunità di culturisti cannibali che la incatena e le amputa
lavambraccio e parte della gamba destri. Lei riesce comunque a scappare
scivolando di schiena su uno skateboard,
quando trova un vecchio eremita (Jim
Carrey, irriconoscibile) che, vagando per il deserto con un carrello del supermercato,
la porta alla comunità di Comfort, dove viene curata e le viene applicata una
protesi alla gamba. Da qui partirà la sua vendetta che la porterà a rapire la
figlia del capo dei cannibali (Jason
Momoa). Ma tutto si complica anche perché lapparentemente pacifica
comunità di Comfort svela i suoi lati oscuri, legati soprattutto alla figura
del suo capo, “Il Sogno”, una specie di santone/pusher (un imprevisto Keanu
Reeves) che durante dei rave notturni
distribuisce in modo blasfemo pillole e cartine di ecstasy (il corpo del “Sogno”, appunto) e vive come unico maschio in
una specie di harem dove ingravida le ragazze della comunità.
Una scena del film
Dopo
una prima sequenza horror dove accade praticamente di tutto, la Amirpour
recupera i suoi ritmi e i suoi tempi dilatati da ballata, che stavolta si fa
meno dark e più pop, continuando la sua personale rilettura e commistione di generi
in questo freak show dove a Tod Browning unisce il cannibal, il revenge e la commedia romantica. In effetti, nonostante il deserto,
lambientazione vagamente post apocalittica e le mutilazioni della
protagonista, The Bad Batch non ha
niente da spartire con lultimo Mad Max
di George Miller (di cui è più parodia che omaggio; vedi i vecchi scooter di serie e le golf car usati dai personaggi per
attraversare il deserto) e neanche con ladrenalina di Planet Terror e degli altri film di Rodriguez. Il film si avvicina piuttosto alla riflessività teorica dellultimo
Tarantino, contaminata dallironia
estetica e filosofica di Harmony Korine,
dove i tempi e gli spazi appaiono restringersi o dilatarsi ad uso e consumo dei
singoli personaggi. Quella che viene fuori da questa scorza apparentemente
“leggera” è unopera articolata, difficile, tuttaltro che conciliante, che a
volte sembra addirittura urlare delle metafore fin troppo evidenti, che però finiscono
per scavare nella mente dello spettatore manifestandosi così in tutta la loro
complessità, fatta di spiazzamenti, ribaltamenti e stratificazioni di senso,
dove niente è davvero come sembra; fino allultima, geniale inquadratura in cui
viene sublimata unidea realmente distopica e perversa del concetto di
famiglia.
Dalle
contraddizioni in bianco e nero della terra delle sue radici il cinema della
Amirpour si sposta verso quelle a colori dellAmerica di oggi, lAmerica “trumpiana”
dei muri e della segregazione del “diverso”, del clandestino, in cui il deserto
diviene una specie di enorme convento di maddalene, dove alleccesso di regole
viene sostituita la loro completa assenza, che scatena i più bassi istinti (capitalistici)
della natura umana. Una visione quasi profetica, se si pensa che il film è
stato scritto due anni fa ed è stato girato lo scorso anno, ben prima che si
manifestassero quelle impreviste dinamiche che stanno caratterizzando le
prossime elezioni americane.