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Licenza di esorcizzare

di Raffaele Pavoni
  Liberami
Data di pubblicazione su web 11/09/2016  

Una delle note dolenti del Festival è senza dubbio la discrepanza tra la competizione ufficiale, in cui sembra che a contare più che il film siano i nomi e il curriculum, e la sezione Orizzonti, foriera di nomi nuovi e opere originali. Prodotti, questi ultimi, cui non fa seguito, purtroppo, un’adeguata distribuzione. Questo rischia di essere il destino anche di un documentario come Liberami, ultimo dei tre italiani in concorso, quarto lungometraggio della regista spezzina Federica Di Giacomo, la cui sceneggiatura, scritta a quattro mani con Andrea Zvetkov, si è guadagnata il premio Solinas Documentario per il Cinema 2014.

Il tema del film è l’esorcismo: un fenomeno solo apparentemente anacronistico. Pare anzi che negli ultimi anni sempre più soggetti abbiano manifestato i sintomi di una (presunta) possessione satanica, e che per curarsi abbiano deciso di ricorrere a uno specialista: un delegato della Curia in possesso di una vera e propria licenza da esorcista. La regista segue l’operato di padre Cataldo, prete palermitano particolarmente richiesto nella pratica degli scongiuri, alle prese con tre sedicenti indemoniati: una signora di mezza età che ha iniziato le sedute di esorcismo dopo aver terminato quelle di psicoanalisi; un giovane pieno di tatuaggi consumatore abituale di cocaina e una adolescente portata lì dal padre, stanco di vederla, nei suoi momenti di “crisi”, atteggiarsi «come una prostituta».


Una scena del film
Una scena del film 

Il film registra scene di notevole impatto, sia scenico che antropologico. I singoli drammi sono rappresentati con una crudezza disarmante: dalla sessualità repressa di uno dei personaggi (in base a un’associazione indotta tra omosessualità e presenza demoniaca) ai conflitti affettivi del giovane cocainomane con la propria ragazza, non più disposta a tollerare le sue continue e inspiegabili crisi. A questi squarci di vita quotidiana si alternano momenti di liberatoria ilarità: il personaggio di padre Cataldo è una macchietta, quasi la caricatura di un personaggio di Aldo Fabrizi. I suoi esorcismi sono involontari pezzi di cabaret: dagli scongiuri telefonici, con le urla degli indemoniati dall’altro capo, alle sgangherate interpretazioni teleologiche. Memorabile la scena in cui, dovendo benedire una stanza in soqquadro, il prete dà la colpa del disordine a Satana, che addita in due peluches penzolanti da un armadio. Ma è soprattutto sul piano della retorica che il delirio di padre Cataldo raggiunge i suoi picchi, in un perpetuo e involontario non-sense («Rinuncia a Satana, rinuncia al mal di testa, rinuncia al chakra cardiovascolare!»).

Le scene finali, che ci portano all’interno del congresso annuale per esorcisti presso la Curia romana, rappresentano forse la parte più debole del film; parte tuttavia necessaria per evitare di interpretare tali culti nei termini di una presunta arretratezza culturale di una parte del paese («la diocesi di Milano cerca esorcisti disperatamente», si legge nel cartello finale). E fanno impressione alcuni dati di cui si dà conto: nei soli Stati Uniti il numero di preti esorcisti è addirittura decuplicato nell’ultimo anno. In questo senso il film esce dalla contingenza della storia raccontata per farsi riflessione generale e analisi delle cause del fenomeno, sia esso dettato da un bisogno spirituale, da un turbamento psichico o dalla moda.


Una scena del film
Una scena del film

Perché alla base dei “clienti” di padre Cataldo sembra esservi lo stesso atteggiamento che molti pazienti hanno di fronte alla psicanalisi: non una reale volontà di vincere il proprio malessere, ma un desiderio di esprimerlo, di porlo (e di porsi) al centro dell’attenzione. «Com’è che se non mi contorco e non urlo tu non mi ricevi?» chiede uno degli indemoniati, visibilmente innervosito, all’esorcista. Alla base della presunta possessione, quindi, sembra esserci soprattutto un disperato bisogno di attenzione. Lo stesso che chiama in causa il ruolo della macchina da presa: perché questi personaggi accettano di mettersi a nudo? Quanto c’è di autentico nella loro sofferenza e quanto essa risponde a un bisogno, puro e disinteressato, di visibilità?

In altri termini: com’è possibile che questi personaggi non siano degli attori? È facendo leva su quest’incredulità che il film tiene incollato lo spettatore per tutta la sua durata, e contemporaneamente gli suggerisce la risposta: i personaggi stanno fingendo, seppur inconsapevolmente, e la macchina da presa – documentaria appunto – cerca di indagare la realtà della loro finzione, appesa a un disagio sociale latente e concreto. È seguendo quest’intuizione che Di Giacomo trova la sua strada, ed è su questo contrasto, e sulla presa di coscienza attraverso il filtro distanziante dell’apparecchio cinematografico, che è imperniata la sua riflessione, rispettosa e mai giudicante. Se la vita è un teatro, questi personaggi sembrano vivere una confusione tra attore e personaggio, laddove immedesimarsi nella parte degli indemoniati li porta a essere protagonisti di un rituale al contempo religioso e cinematografico. Liberami è un film che spinge lo spettatore a interrogarsi costantemente non solo su cosa è vero e cosa è falso, ma anche su quanta realtà ci sia nella finzione, quotidiana, di tutti. Sta qui sta la grandezza di questo piccolo film: onore a Rai Cinema per averci creduto, e buona fortuna alla talentuosa autrice.




Liberami
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Orizzonti

La regista Federica Di Giacomo
La regista Federica Di Giacomo



 
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