Una delle note dolenti del Festival è senza
dubbio la discrepanza tra la competizione ufficiale, in cui sembra
che a contare più che il film siano i nomi e il curriculum, e la sezione
Orizzonti, foriera di nomi nuovi e opere originali. Prodotti, questi ultimi,
cui non fa seguito, purtroppo, unadeguata distribuzione. Questo rischia di
essere il destino anche di un documentario come Liberami, ultimo dei tre italiani in concorso, quarto lungometraggio
della regista spezzina Federica Di
Giacomo, la cui sceneggiatura, scritta a quattro mani con Andrea Zvetkov, si è guadagnata il
premio Solinas Documentario per il Cinema 2014.
Il tema del film è lesorcismo: un fenomeno solo
apparentemente anacronistico. Pare anzi che negli ultimi anni sempre più
soggetti abbiano manifestato i sintomi di una (presunta) possessione satanica,
e che per curarsi abbiano deciso di ricorrere a uno specialista: un delegato
della Curia in possesso di una vera e propria licenza da esorcista. La regista segue loperato di padre Cataldo, prete
palermitano particolarmente richiesto nella pratica degli scongiuri, alle prese
con tre sedicenti indemoniati: una signora di mezza età che ha iniziato le
sedute di esorcismo dopo aver terminato quelle di psicoanalisi; un giovane pieno
di tatuaggi consumatore abituale di cocaina e una adolescente portata lì dal
padre, stanco di vederla, nei suoi momenti di “crisi”, atteggiarsi «come una
prostituta».
Una scena del film
Il film registra scene di notevole impatto, sia scenico che
antropologico. I singoli drammi sono rappresentati con una crudezza disarmante:
dalla sessualità repressa di uno dei personaggi (in base a unassociazione indotta
tra omosessualità e presenza demoniaca) ai conflitti affettivi del giovane cocainomane
con la propria ragazza, non più disposta a tollerare le sue continue e
inspiegabili crisi. A questi squarci di vita quotidiana si alternano momenti di
liberatoria ilarità: il personaggio di padre Cataldo è una macchietta, quasi la
caricatura di un personaggio di Aldo
Fabrizi. I suoi esorcismi sono involontari pezzi di cabaret: dagli
scongiuri telefonici, con le urla degli indemoniati dallaltro capo, alle
sgangherate interpretazioni teleologiche. Memorabile la scena in cui, dovendo
benedire una stanza in soqquadro, il prete dà la colpa del disordine a Satana, che
addita in due peluches penzolanti da
un armadio. Ma è soprattutto sul piano della retorica che il delirio di padre
Cataldo raggiunge i suoi picchi, in un perpetuo e involontario non-sense («Rinuncia a Satana, rinuncia
al mal di testa, rinuncia al chakra
cardiovascolare!»).
Le scene finali, che ci portano allinterno del congresso annuale
per esorcisti presso la Curia romana, rappresentano forse la parte più debole del
film; parte tuttavia necessaria per evitare di interpretare tali culti nei termini di una
presunta arretratezza culturale di una parte del paese («la diocesi di Milano
cerca esorcisti disperatamente», si legge nel cartello finale). E fanno
impressione alcuni dati di cui si dà conto: nei soli Stati Uniti il numero di
preti esorcisti è addirittura decuplicato nellultimo anno. In questo senso il
film esce dalla contingenza della storia raccontata per farsi riflessione
generale e analisi delle cause del fenomeno, sia esso dettato da un bisogno
spirituale, da un turbamento psichico o dalla moda.
Una scena del film Perché alla base dei “clienti” di padre Cataldo sembra
esservi lo stesso atteggiamento che molti pazienti hanno di fronte alla
psicanalisi: non una reale volontà di vincere il proprio malessere, ma un
desiderio di esprimerlo, di porlo (e di porsi) al centro dellattenzione. «Comè
che se non mi contorco e non urlo tu non mi ricevi?» chiede uno degli
indemoniati, visibilmente innervosito, allesorcista. Alla base della presunta
possessione, quindi, sembra esserci soprattutto un disperato bisogno di
attenzione. Lo stesso che chiama in causa il ruolo della macchina da presa:
perché questi personaggi accettano di mettersi a nudo? Quanto cè di autentico
nella loro sofferenza e quanto essa risponde a un bisogno, puro e
disinteressato, di visibilità?
In altri termini: comè possibile che questi personaggi non
siano degli attori? È facendo leva su questincredulità che il film tiene
incollato lo spettatore per tutta la sua durata, e contemporaneamente gli
suggerisce la risposta: i personaggi stanno fingendo, seppur inconsapevolmente,
e la macchina da presa – documentaria appunto – cerca di indagare la realtà della
loro finzione, appesa a un disagio sociale latente e concreto. È seguendo
questintuizione che Di Giacomo trova la sua strada, ed è su questo contrasto,
e sulla presa di coscienza attraverso il filtro distanziante dellapparecchio
cinematografico, che è imperniata la sua riflessione, rispettosa e mai
giudicante. Se la vita è un teatro, questi
personaggi sembrano vivere una confusione tra attore e personaggio, laddove immedesimarsi
nella parte degli indemoniati li porta a essere protagonisti di un rituale al
contempo religioso e cinematografico. Liberami
è un film che spinge lo spettatore a interrogarsi costantemente non solo su
cosa è vero e cosa è falso, ma anche su quanta realtà ci sia nella finzione, quotidiana,
di tutti. Sta qui sta la grandezza di questo piccolo film: onore a Rai Cinema
per averci creduto, e buona fortuna alla talentuosa autrice.
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Liberami
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Orizzonti
La regista Federica Di Giacomo
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