Il
primo dei tre film latinoamericani in concorso alla Mostra è El Cristo Ciego del cileno Christopher Murray, classe 1985, al suo
secondo lungometraggio di finzione. Il film narra le vicende di Michael (Michael Silva), meccanico di un piccolo
villaggio del Cile convinto di essere investito di poteri divini, cosa che
suscita lilarità dei suoi compaesani. Un giorno Michael scopre che il suo
amico dinfanzia è rimasto ferito in un incidente e decide di andarlo a trovare,
pensando di poterlo guarire con un miracolo. Durante il viaggio percorre a piedi
nudi il deserto, dando vita a un curioso road
movie che rivela tutto il disagio sociale del Tamarugal, la povera regione
mineraria del deserto di Atacama situata a nord del Cile, abitata da gente
diffidente e condizionata dal bisogno di
credere in qualcosa di ultraterreno.
Tutti gli attori, ad
eccezione di Michael Silva, sono locali non professionisti, ed è a loro ed al paesaggio
che Murray guarda con interesse. Vento e terra si fondono, talvolta invadono lo
schermo, costituendo un filtro visivo sugli spazi senza tempo dei villaggi
esplorati.
Una scena del film Ma,
nonostante i nobili intenti, il film non funziona. Il “pellegrinaggio” di
Michael è intervallato da cinque flashback, commentati da una voce fuori campo,
che costituiscono una sorta di “vangelo apocrifo illustrato” in salsa cilena.
Un espediente non privo di originalità, ma che innesca al contempo una forte
dispersione narrativa. Se la destrutturazione della narrazione biblica evidenzia
la drammatica assenza di Dio in un mondo che ha sete di fede (operazione
simile, se vogliamo, a quella operata dai Coen nei confronti della religione
ebraica in A serious man), laffermazione
di spiritualità intende quasi colmare tale assenza, sul filo di una filosofia dai
tratti vagamente buddisti secondo la quale la divinità è nellessere umano e il
vuoto esistenziale ha valore in quanto tale.
Murray
non è abbastanza cinico per demolire il racconto biblico (forse anche per una
forma di rispetto verso i protagonisti del film). Allincertezza ideologica
corrisponde una mancanza di solidità strutturale. Il film si avvita in un
dedalo di micro-narrazioni che non sembrano portare da alcuna parte.
Pochissimi
gli spettatori usciti dalla sala durante la proiezione, ma altrettanto pochi gli
applausi alla fine della proiezione, segno che a fronte di un meccanismo
narrativo capace di creare aspettative non cè poi un degno seguito
drammaturgico. Due i sospetti.
Una scena del film
Il
primo è che il regista abbia puntato tutto sullanalogia tra la pampa cilena e la Terra Santa: lambientazione
sembra infatti essere lunico trait dunion
tra le vicende narrate, al punto talvolta da ridursi a puro pattern visivo. Il secondo sospetto, più
malizioso, è che lopera, pur non priva di tratti originali, sia stata inserita
nel concorso ufficiale (anziché, ad esempio, nella sezione Orizzonti) per seguire la moda. Senza voler mettere in questione
loggettiva vivacità dimostrata negli ultimi anni dalle cinematografie
latinoamericane, è un fatto che tale continente occupi oggi uno spazio sempre maggiore
nei circuiti dessai europei (si
pensi ai premi vinti nella scorsa edizione della Mostra, link). Non è
improbabile un condizionamento in questo senso sui selezionatori del Festival
di Venezia, da sempre cerniera tra il cinema cosiddetto “dautore” e la
distribuzione in sala.
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