«Fur tre mesi». «No… no… Fur tre
secoli». È in questo scambio di battute – fulminante, lancinante – tra Arturo
ed Elvira nellultimo atto che si sostanzia la regia di Annilese Miskimmon nei Puritani
andati in scena a Aarhus; è qui che si riassume il nocciolo drammatico,
politico e poetico del suo bellissimo spettacolo. A fronte di tante regie
sperimentali – o semplicemente azzardate – in altri repertori, una reale
indagine drammaturgica per Bellini,
e in generale per il belcanto romantico, in Italia non la si è ancora tentata:
i pochi spettacoli illuminanti in tal senso provengono dallestero e non a
caso, trattandosi di melodrammi spesso incentrati sulla follia al femminile,
realizzati quasi tutti da registe donne, si tratti di Mary Zimmerman (una Sonnambula
e una Lucia memorabili), Katie Mitchell o Mariame Clément. Allancor breve lista è necessario aggiungere
questi Puritani, realizzati lanno
scorso a Cardiff e approdati ora a Aarhus, seconda città della Danimarca, nel
suo Concert Hall moderno ed elegante che da una trentina danni ha preso il
posto, per quanto attiene alla programmazione operistica, del minuscolo teatro
storico primonovecentesco.
Una scena dello spettacolo © Kaare
Viemosa
Cosa fa la Miskimmon per estrarre
il nucleo tetro – anziché quello pietoso ed edificante – dellamore contrastato
tra Elvira e Arturo; per descrivere il volto segreto dei personaggi; per portarci
insomma per mano attraverso il “cuore oscuro” del belcanto? Unoperazione forse
macchinosa, a raccontarla in una recensione, ma impeccabile e coerentissima a
vederla in palcoscenico: fa continuamente trascolorare lazione
dallInghilterra del 1653 prevista dal libretto (la guerra civile con i
Puritani protestanti capeggiati da Cromwell da un lato, gli Stuardi cattolici
dallaltro) allIrlanda del Nord di trecentoventi anni dopo (con il conflitto
cattolico-protestante che devasta Belfast e il grottesco replicarsi della
Storia, a tre secoli di distanza, attraverso lorganizzazione neocromwelliana
dellOrange Order).
Quella di Elvira infatti, nonostante
una lunga tradizione che neppure la Callas
spazzò via, non è lalienazione mentale della verginella cinguettante che perde
il senno dopo il supposto abbandono del promesso sposo: è il dramma di una
giovane allinterno duna realtà tutta al maschile, dove gli uomini obbediscono
a un codice etico altissimo, ma per la donna – benché messa su un piedistallo –
non cè spazio. Dalla Plymouth del diciassettesimo secolo alla Belfast degli
anni Settanta il discorso sociopolitico non cambia: e che una simile chiave di
lettura, leggibilissima a Cardiff, sia stata accolta con entusiasmo pure dal pubblico
danese comprova la perfetta tenuta dello spettacolo. Una scena dello spettacolo © Kaare
Viemosa
In questa prospettiva, la perdita
della ragione acquista un inusitato spessore psicanalitico: Elvira in tailleur blu e il suo “doppio”
seicentesco si rincorrono, scambiano e moltiplicano, mentre squallidi interni
domestici nordirlandesi vengono attraversati da armigeri o castellane e sulle
pareti incombono gigantesche le ombre dei personaggi. Ammirevole è poi luso
teatrale che la regista fa degli oggetti: il libro inteso come rifugio (cosa
resta a una donna, in piena guerra civile, se non la fuga nella lettura?), ma
che nella scena della pazzia verrà strappato a pezzi; o il velo da sposa
trascinato in un impeto di fuga e labito nuziale abbandonato, con cui il
respinto Riccardo tenta un surrogato di abbraccio. Anche lhappy end capovolto in finale tragico (già visto, con esiti
artificiosi, in altre regie dei Puritani)
non è una forzatura: semmai, una conseguenza inevitabile; e il modo con cui il
cattolico Arturo qui viene ucciso dai nemici dellOrange Order – sgozzandolo –
rimanda ad altre, attualissime, guerre di religione.
In palcoscenico il soprano Henriette Bonde-Hansen e il suo
“doppio”, lattrice Merete Maerkedahl (a sua volta ben nota in
Danimarca), danno vita a un prodigioso duetto mimico di angosce e trasalimenti;
mentre limitandosi al piano canoro va rimarcata lestrema aderenza
psicologico-stilistica della Blonde-Jansen al personaggio, la sua capacità di
profilare amore e follia senza la leziosità fanciullesca dei soprani leggeri,
ma con la morbida corposità di un soprano lirico debitamente elastico nel canto
di coloratura. Accanto a lei, litalo-uruguayano Leonardo Ferrando – ora
spada al fianco ora zainetto sulle spalle, a seconda di come Elvira in quel
momento lo sta “vedendo” – affronta la stratosferica tessitura di Arturo con
cautela e, nellultimo atto, risolve il Fa sopracuto con un falsetto piuttosto pallido
e laborioso. La complessione è sostanzialmente da tenore di grazia, sicché il
soprano appare di taglia vocale più robusta, ma laccento è appropriato nella
perorazione amorosa come nello slancio eroico e la recitazione, anche in questo
caso, aderentissima ai desiderata
registici.
Una scena dello spettacolo © Kaare
Viemosa
Cantante non più giovane, David Kempster sulla distanza risulta affaticato: è però baritono sostanzioso,
solido nellemissione e scolpito nella dizione, dalla linea più vigorosa che
morbida ma senza far scantonare Riccardo nel cliché del grintoso, banale antagonista. E Wojteck Gierlach – basso
di voce soffice e fraseggio penetrante – chiude in bellezza il quartetto protagonistico,
vestendo con sagacia labito talare di Giorgio Valton (la regia lo trasforma in
un sacerdote protestante) e cesellando un Cinta
di fiori senza alcuna monotonia nelle sue quattro strofe.
Alla testa di un complesso duttile (la Aarhus Symfoniorkester), Tobias Ringborg opta per dei Puritani di accurato taglio sinfonico,
oltre che integrali: il senso della struttura emerge assai articolato (Son vergin vezzosa e A te, o cara sembrano finalmente un
quartetto e un quintetto con coro, non due arie con pertichini) e pure quei
momenti che, in altre esecuzioni, appaiono come color locale (il coro di festa
durante lalba) o convenzione linguistica (la “stretta” del Finale primo)
acquistano un preciso spessore. Unica scelta discutibile: la concessione di
qualche pleonastica puntatura, fuori posto soprattutto per il maturo baritono.
Se da parte del direttore era un pedaggio allitalianità dellopera, questo è
un modo di vedere lItalia ancora molto “pizza e mandolino”.
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