Scapigliato, come ogni storia della musica e della letteratura lo
classifica, ma fondamentalmente lontano da tutti gli altri alfieri della
scapigliatura? Ancora romantico, sia pure fuori tempo massimo, per la sua
visione sconvolta e straziata della vita (come lo definì Benedetto Croce)?
Restauratore classicista – e il Sabba classico dellultimo atto del Mefistofele
parrebbe confermarlo – sulle orme del tardo Carducci? Come tutti coloro che hanno aspirato alla totalità
dellopera darte, dando vita a una metatecnica che riconducesse poesia e
melodramma a una sintesi superiore, Arrigo
Boito fu tutto ciò e anche molto
altro: ma il regista Ronald Schwab e
il suo drammaturgo Daniel Menne, in
questo primo approdo del capolavoro boitiano alla Bayerische Staatsoper (incredibile
per unopera tratta da Goethe, ma Mefistofele
non era mai stato rappresentato a Monaco), sembrano preferire unaltra, tutto
sommato ineccepibile chiave ermeneutica. E cioè che Boito – con il suo
preziosismo metrico e il suo tecnicismo linguistico, il suo wagnerismo
risciacquato nella melodia italiana e la sua tensione intellettuale che lo
porta a una “musica dellavvenire” filtrata dalle nitide certezze del
melodramma ottocentesco – è un autore postmoderno.
Una scena dello spettacolo © Wilfried
Hoesl Impianto scenografico fisso ai lati (unincombente impalcatura
metallica) e modulabile al centro del palcoscenico, virtuosistico ma
funzionalissimo ricorso alle proiezioni, il lavoro di Schwab deve molto ai suoi
collaboratori (a firmare le scene e realizzare i video sono Piero Vinciguerra e Lea Heutelbeck), restando però un
esempio di Regietheater nel senso più “autoriale” del termine. Lavvio
muto dello spettacolo, con Mefistofele che dialoga senza parole con il
direttore dorchestra già pronto sul podio, in un conciliabolo di gesti e
occhiate su come procedere, sembra quasi restituire al pubblico quel Prologo in
Teatro (assente nel libretto di Boito) con cui Goethe apre il suo Faust,
dando vita a una diatriba estetica sul modo più efficace di avviare un dramma.
E il modo, qui, è far partire la musica da un vecchio settantotto giri suonato su un grammofono al proscenio: le
battute iniziali degli ottoni partono gracchianti dalla puntina, subito dopo
attacca dalla buca lorchestra “vera”; ed è unidea tuttaltro che antimusicale
(in quellincipit la partitura prevede degli strumentisti dietro le quinte),
nonché un implicito rinvio alla passione di Boito per la tecnica, pur argutamente
declinato attraverso una tecnologia dantan come quella dei dischi a
grammofono.
Il Prologo in Cielo è una carrellata di quelle opere – dalle grandi
cattedrali allinvenzione del jet supersonico – in cui lingegno umano
si è innalzato al divino, riproposte attraverso filmati in bianco e nero che
Mefistofele e la sua corte di angeli caduti (qui dei metallari debosciati)
guardano scorrere sullo schermo del loro cinema infernale. Cè perfino spazio
per un momento di tenerezza, quando Mefistofele contempla una foto di gruppo –
a sua volta restituita dal grande schermo – che ritrae una comitiva di ragazzi
come in gita scolastica: verosimilmente, lui e gli altri angeli prima della
loro retrocessione agli inferi. E a ricordarci che per Boito ogni creazione artistica
è sperimentazione da laboratorio, Faust già si trova tra loro, incatenato come
un cane al canile: sicché il tentativo dindurlo al peccato qui assume il
sapore non duna scommessa tra il Diavolo e lEterno, ma dun esperimento sulla
natura umana in stile Così fan tutte. Che daltronde, con le “affinità
elettive” che veicola, resta il titolo più goethiano – in senso lato – di tutto
il repertorio operistico.
Una scena dello spettacolo © Wilfried Hoesl
Schwab, insomma, appare consapevole che il Faust raccontato da Boito –
coerentemente con quello di Goethe, e al contrario di quello musicato da Gounod – non è il vecchio scienziato
che vuol ringiovanire (la più antiscientifica delle pretese, per inciso)
tornando a godersi le fanciulle: è un intellettuale arso dalla sete di sapere,
per il quale il sesso rappresenta uno dei possibili – e, certo, non secondari –
veicoli di conoscenza. In questa prospettiva, il suo stupro di Margherita
durante la notte del sabba è una libertà niente affatto arbitraria del regista
(e sancisce la degradazione sociale della ragazza assai meglio della sua
seduzione clandestina); così come, in un contesto del genere, appaiono congrui
la sostituzione del globo di vetro brandito da Mefistofele in Ecco il mondo
con un utero sanguinolento («ora sterile or fecondo», recita appunto un verso
del libretto) e quella Marta trasformata da amica disinibita di Margherita ad
alter ego femminile del protagonista (una demiurga sadomaso che orchestra
lorgia insieme al demonio).
Infine, il trapasso di tono implicito nellatto del Sabba classico (con
il suo transito dal dolore del Reale al sogno dellIdeale, dal romanticismo al
classicismo) viene colto perfettamente da Schwab: se fino a quel momento lo
spettacolo ci proiettava in un hic et nunc dismemore e degradato,
levocazione – da parte di Elena – della notte in cui cadde Troia ci porta in
un mondo (quello appunto dei fuggitivi da Ilio) allucinantemente volto al
passato, che sposta lambientazione dalleden mitologico del libretto a una
casa per anziani. Lerotizzante incomunicabilità verbale tra Faust ed Elena,
abilissimamente intessuta da Boito (lui canta in rima, lei in metro greco, e
proprio ciò li attrae), si stempera in un eros domestico: al contrario dogni
aspettativa, Elena – in tenuta da caposala dellospizio – è più dimessa e meno
bella di Margherita. E, senza soluzione di continuità, lepilogo ci lascia nel
gerontocomio: con il suo sapere, Faust ha ridato vita a «un placido mondo»,
ossia, qui, ai vecchi (unaria come Giunto sul passo estremo è di
difficile decodificazione per chi non abbia letto Goethe, ma la regia permette
dintuire quanto Boito lascia tra le righe). Nelle maglie del peccato ci è
caduto di continuo e, tuttavia, lesperimento di Mefistofele è fallito: al
Diavolo non resta che sancire la propria sconfitta spezzando il disco che aveva
fatto suonare allinizio.
Una scena dello spettacolo © Wilfried Hoesl
Uno spettacolo tanto complesso è certo frutto duna proficua intesa tra
regista e direttore. Tuttavia, mentre il magmatico materiale drammaturgico del Mefistofele
viene convogliato da Schwab in una sintesi unitaria (e anche equilibrata,
sebbene la sua lettura sia per molti versi “estrema”), sul fronte del non meno
variegato materiale musicale la bacchetta di Omer Meir Wellber resta abbarbicata a unanalisi minuziosa: di alto
tecnicismo senzaltro (e questo a Boito sarebbe piaciuto), ma dimenticando la
lezione di Toscanini – che con il Mefistofele
ebbe lunga frequentazione – per cui un capolavoro è sempre più grande della
somma dei suoi particolari. Di questa partitura così pluristilistica, ma, al
contempo, così coerente (i pezzi chiusi improntati al melodizzare italiano, il
tessuto connettivo figlio dellopera tedesca) Wellber restituisce con sapienza
i singoli brani, piuttosto che la tensione coagulante e chiarificatrice: latita
quella plasticità di resa raggiunta dalla messinscena, e pure la vocalità non è
sempre ben sostenuta dal concertatore (il cantabile faustiano e il declamato
mefistofelico, in fondo anchessi un modo per mettere musicalmente allo
specchio il Bene e il Male, ne escono più omogeneizzati che differenziati).
Poi, certo, il suono superbo della Bayerisches Staatsorchester (abbacinante la
fanfara celeste), lintonazione inalterabile del coro (tanto più impressionante
se si pensa che, come voluto da Boito, canta fuori scena) e lamalgama perfetto
delle voci bianche pareggiano abbondantemente il conto.
Una scena dello spettacolo © Wilfried Hoesl
Andatura dinoccolata, ciuffo spiovente, occhiali e guanti neri, René Pape è un Mefistofele assai
compenetrato sul piano scenico. Sul fronte vocale è però al di sotto di quanto
il personaggio richiede: troppo bassobaritono e troppo poco basso, di esigua
timbratura almeno in rapporto alla densità dellorchestra boitiana, pronto a
mascherare la stanchezza dei mezzi con un gigionismo baldanzoso pericolosamente
simile al Ruggero Raimondi degli
anni del declino. Joseph Calleja è cantante di perfettibile
quadratura musicale (attacchi non immacolati, gli “a due” con basso e soprano
un po fuori tempo…) e limitato ventaglio dinamico, ma appaga di più. Se lo
smalto è da tenore lirico, il fraseggiatore guarda al Faust di Del Monaco, ai suoi scatti brucianti e alla sua titanica disperazione:
siamo ovviamente lontani dallo spessore del modello, però il personaggio
risulta accattivante. Kristine Opolais non ha lottima dizione
italiana dei due protagonisti maschili, ma li supera entrambi: malinconia e
nevrosi, palpiti verginali e sensualità sfatta si alternano in un canto
perfettamente governato, con il viatico di una fisicità diafana e intensa
ideale per Margherita. E a corroborare questo Mefistofele “al femminile”
concorrono pure Karina Babajanyan
(unElena di vocalità solidissima) e Heike
Grötzinger, che ha tutto il carisma scenico e la sostanziosità canora per
motivare l“allargamento” del ruolo di Marta voluto dal regista.
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