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Tentazioni dell’intelletto e della carne

di Paolo Patrizi
  Mefistofele
Data di pubblicazione su web 30/08/2016  

Scapigliato, come ogni storia della musica e della letteratura lo classifica, ma fondamentalmente lontano da tutti gli altri alfieri della scapigliatura? Ancora romantico, sia pure fuori tempo massimo, per la sua visione sconvolta e straziata della vita (come lo definì Benedetto Croce)? Restauratore classicista – e il Sabba classico dell’ultimo atto del Mefistofele parrebbe confermarlo – sulle orme del tardo Carducci? Come tutti coloro che hanno aspirato alla totalità dell’opera d’arte, dando vita a una metatecnica che riconducesse poesia e melodramma a una sintesi superiore, Arrigo Boito fu tutto ciò e anche molto altro: ma il regista Ronald Schwab e il suo drammaturgo Daniel Menne, in questo primo approdo del capolavoro boitiano alla Bayerische Staatsoper (incredibile per un’opera tratta da Goethe, ma Mefistofele non era mai stato rappresentato a Monaco), sembrano preferire un’altra, tutto sommato ineccepibile chiave ermeneutica. E cioè che Boito – con il suo preziosismo metrico e il suo tecnicismo linguistico, il suo wagnerismo risciacquato nella melodia italiana e la sua tensione intellettuale che lo porta a una “musica dell’avvenire” filtrata dalle nitide certezze del melodramma ottocentesco – è un autore postmoderno.


Una scena dello spettacolo
© Wilfried Hoesl

Impianto scenografico fisso ai lati (un’incombente impalcatura metallica) e modulabile al centro del palcoscenico, virtuosistico ma funzionalissimo ricorso alle proiezioni, il lavoro di Schwab deve molto ai suoi collaboratori (a firmare le scene e realizzare i video sono Piero Vinciguerra e Lea Heutelbeck), restando però un esempio di Regietheater nel senso più “autoriale” del termine. L’avvio muto dello spettacolo, con Mefistofele che dialoga senza parole con il direttore d’orchestra già pronto sul podio, in un conciliabolo di gesti e occhiate su come procedere, sembra quasi restituire al pubblico quel Prologo in Teatro (assente nel libretto di Boito) con cui Goethe apre il suo Faust, dando vita a una diatriba estetica sul modo più efficace di avviare un dramma. E il modo, qui, è far partire la musica da un vecchio settantotto giri suonato su un grammofono al proscenio: le battute iniziali degli ottoni partono gracchianti dalla puntina, subito dopo attacca dalla buca l’orchestra “vera”; ed è un’idea tutt’altro che antimusicale (in quell’incipit la partitura prevede degli strumentisti dietro le quinte), nonché un implicito rinvio alla passione di Boito per la tecnica, pur argutamente declinato attraverso una tecnologia d’antan come quella dei dischi a grammofono.

Il Prologo in Cielo è una carrellata di quelle opere – dalle grandi cattedrali all’invenzione del jet supersonico – in cui l’ingegno umano si è innalzato al divino, riproposte attraverso filmati in bianco e nero che Mefistofele e la sua corte di angeli caduti (qui dei metallari debosciati) guardano scorrere sullo schermo del loro cinema infernale. C’è perfino spazio per un momento di tenerezza, quando Mefistofele contempla una foto di gruppo – a sua volta restituita dal grande schermo – che ritrae una comitiva di ragazzi come in gita scolastica: verosimilmente, lui e gli altri angeli prima della loro retrocessione agli inferi. E a ricordarci che per Boito ogni creazione artistica è sperimentazione da laboratorio, Faust già si trova tra loro, incatenato come un cane al canile: sicché il tentativo d’indurlo al peccato qui assume il sapore non d’una scommessa tra il Diavolo e l’Eterno, ma d’un esperimento sulla natura umana in stile Così fan tutte. Che d’altronde, con le “affinità elettive” che veicola, resta il titolo più goethiano – in senso lato – di tutto il repertorio operistico.


Una scena dello spettacolo
© Wilfried Hoesl

Schwab, insomma, appare consapevole che il Faust raccontato da Boito – coerentemente con quello di Goethe, e al contrario di quello musicato da Gounod – non è il vecchio scienziato che vuol ringiovanire (la più antiscientifica delle pretese, per inciso) tornando a godersi le fanciulle: è un intellettuale arso dalla sete di sapere, per il quale il sesso rappresenta uno dei possibili – e, certo, non secondari – veicoli di conoscenza. In questa prospettiva, il suo stupro di Margherita durante la notte del sabba è una libertà niente affatto arbitraria del regista (e sancisce la degradazione sociale della ragazza assai meglio della sua seduzione clandestina); così come, in un contesto del genere, appaiono congrui la sostituzione del globo di vetro brandito da Mefistofele in Ecco il mondo con un utero sanguinolento («ora sterile or fecondo», recita appunto un verso del libretto) e quella Marta trasformata da amica disinibita di Margherita ad alter ego femminile del protagonista (una demiurga sadomaso che orchestra l’orgia insieme al demonio).

Infine, il trapasso di tono implicito nell’atto del Sabba classico (con il suo transito dal dolore del Reale al sogno dell’Ideale, dal romanticismo al classicismo) viene colto perfettamente da Schwab: se fino a quel momento lo spettacolo ci proiettava in un hic et nunc dismemore e degradato, l’evocazione – da parte di Elena – della notte in cui cadde Troia ci porta in un mondo (quello appunto dei fuggitivi da Ilio) allucinantemente volto al passato, che sposta l’ambientazione dall’eden mitologico del libretto a una casa per anziani. L’erotizzante incomunicabilità verbale tra Faust ed Elena, abilissimamente intessuta da Boito (lui canta in rima, lei in metro greco, e proprio ciò li attrae), si stempera in un eros domestico: al contrario d’ogni aspettativa, Elena – in tenuta da caposala dell’ospizio – è più dimessa e meno bella di Margherita. E, senza soluzione di continuità, l’epilogo ci lascia nel gerontocomio: con il suo sapere, Faust ha ridato vita a «un placido mondo», ossia, qui, ai vecchi (un’aria come Giunto sul passo estremo è di difficile decodificazione per chi non abbia letto Goethe, ma la regia permette d’intuire quanto Boito lascia tra le righe). Nelle maglie del peccato ci è caduto di continuo e, tuttavia, l’esperimento di Mefistofele è fallito: al Diavolo non resta che sancire la propria sconfitta spezzando il disco che aveva fatto suonare all’inizio.


Una scena dello spettacolo
© Wilfried Hoesl

Uno spettacolo tanto complesso è certo frutto d’una proficua intesa tra regista e direttore. Tuttavia, mentre il magmatico materiale drammaturgico del Mefistofele viene convogliato da Schwab in una sintesi unitaria (e anche equilibrata, sebbene la sua lettura sia per molti versi “estrema”), sul fronte del non meno variegato materiale musicale la bacchetta di Omer Meir Wellber resta abbarbicata a un’analisi minuziosa: di alto tecnicismo senz’altro (e questo a Boito sarebbe piaciuto), ma dimenticando la lezione di Toscanini – che con il Mefistofele ebbe lunga frequentazione – per cui un capolavoro è sempre più grande della somma dei suoi particolari. Di questa partitura così pluristilistica, ma, al contempo, così coerente (i pezzi chiusi improntati al melodizzare italiano, il tessuto connettivo figlio dell’opera tedesca) Wellber restituisce con sapienza i singoli brani, piuttosto che la tensione coagulante e chiarificatrice: latita quella plasticità di resa raggiunta dalla messinscena, e pure la vocalità non è sempre ben sostenuta dal concertatore (il cantabile faustiano e il declamato mefistofelico, in fondo anch’essi un modo per mettere musicalmente allo specchio il Bene e il Male, ne escono più omogeneizzati che differenziati). Poi, certo, il suono superbo della Bayerisches Staatsorchester (abbacinante la fanfara celeste), l’intonazione inalterabile del coro (tanto più impressionante se si pensa che, come voluto da Boito, canta fuori scena) e l’amalgama perfetto delle voci bianche pareggiano abbondantemente il conto.


Una scena dello spettacolo
© Wilfried Hoesl

Andatura dinoccolata, ciuffo spiovente, occhiali e guanti neri, René Pape è un Mefistofele assai compenetrato sul piano scenico. Sul fronte vocale è però al di sotto di quanto il personaggio richiede: troppo bassobaritono e troppo poco basso, di esigua timbratura almeno in rapporto alla densità dell’orchestra boitiana, pronto a mascherare la stanchezza dei mezzi con un gigionismo baldanzoso pericolosamente simile al Ruggero Raimondi degli anni del declino. Joseph Calleja è cantante di perfettibile quadratura musicale (attacchi non immacolati, gli “a due” con basso e soprano un po’ fuori tempo…) e limitato ventaglio dinamico, ma appaga di più. Se lo smalto è da tenore lirico, il fraseggiatore guarda al Faust di Del Monaco, ai suoi scatti brucianti e alla sua titanica disperazione: siamo ovviamente lontani dallo spessore del modello, però il personaggio risulta accattivante. Kristine Opolais non ha l’ottima dizione italiana dei due protagonisti maschili, ma li supera entrambi: malinconia e nevrosi, palpiti verginali e sensualità sfatta si alternano in un canto perfettamente governato, con il viatico di una fisicità diafana e intensa ideale per Margherita. E a corroborare questo Mefistofele “al femminile” concorrono pure Karina Babajanyan (un’Elena di vocalità solidissima) e Heike Grötzinger, che ha tutto il carisma scenico e la sostanziosità canora per motivare l’“allargamento” del ruolo di Marta voluto dal regista.



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