Il
sipario si apre sulla spoglia “scenografia naturale” offerta dal
palco del teatro di Sollicciano, puntellato da scabre colonnine di
cemento. In alto campeggia un grande orologio su cui scorrono
proiezioni cangianti: per la sua presenza ingombrante e inquietante,
ricorda vagamente quello del film Metropolis. E forse
laccostamento al capolavoro di Fritz Lang non è peregrino:
il carcere raccontato dai detenuti-attori e la fabbrica concepita dal
visionario regista austriaco hanno in comune la spersonalizzazione,
lalienazione, la concezione dellessere umano come mero
ingranaggio di una macchina (più o meno efficiente). «Una macchina
del crimine», verrà definita la casa di reclusione in un momento
dello spettacolo.
Dopo
aver messo in scena vari testi teatrali (lultimo in ordine di
tempo è stato Ubu re di Alfred Jarry), attraverso i
quali si è confrontata con temi di attualità “esterni”, la
compagnia della casa circondariale di Sollicciano, guidata da Elisa
Taddei, affronta per la prima volta uno spettacolo interamente
dedicato al carcere e lo fa giustapponendo e mescolando testi,
tecniche e stili diversi. Il carcere è, infatti, lunico filo
conduttore di una narrazione che non ha al suo centro una storia, ma
una pluralità di storie, e che si snoda fra riflessioni di carattere
sociologico (affidate alla voce di Oscar De Summa) e i
racconti offerti dagli attori, talvolta sotto forma di monologo,
talvolta di dialoghi o di momenti corali.
Infatti
Dal carcere, secondo le parole della regista affidate al
programma di sala, «guarda a Brecht e al suo
teatro-epico»: da qui la centralità del narrare;
da qui lironico – a tratti beffardo – distacco che
caratterizza certe intuizioni; da qui la
difficile sfida, per gli attori, di raccontare sé
stessi e la propria quotidianità senza identificarsi con essa,
arrivando a produrre, in alcuni momenti, un effetto di straniamento.
Un momento dello spettacolo © Alessandra Cinquemani Si
giunge così ad esiti irresistibilmente comici: esemplare, in questo
senso, è la coppia di detenuti-attori che inscenano una auto
parodia, con tanto di costume a strisce bianche e
nere e di caricaturale, enorme maschera di cartapesta. Sono loro ad
accogliere il pubblico in sala, rendendosi poi protagonisti, nel
corso dello spettacolo, di improbabili tentativi di evasione.
Esilarante anche la scena della “sfilata”, dove gli attori
mostrano le svariate possibili camminate che si possono osservare
nello stretto cortile del carcere durante lora daria. I
detenuti ridono di sé e gli spettatori con
loro. Risate
così intense da lasciare una sensazione di lieve dolore alla bocca
dello stomaco.
Non
mancano momenti più introspettivi: particolarmente toccante è il
monologo sui ricordi, modellato su un brano tratto da Cattivi
di Maurizio Torchio.
Questo bellissimo romanzo, il cui titolo
richiama il significato etimologico della parola “cattivi”
(dal latino captivus,
cioè prigioniero), si segnala per una scrittura asciutta e tagliente
e si dipana attraverso la voce, assolutamente credibile nella sua
scarna precisione, di un ergastolano in cella di isolamento. Il
carcere, dunque (anzi, la sua zona più cupa e inquietante), colto
dallo sguardo di chi lo vive in prima persona, raccontato attraverso
una sorta di lungo monologo: testo ideale cui attingere per costruire
alcuni passaggi significativi dello spettacolo.
Su
tutto domina un tono di inquieta riflessione, capace di suscitare
domande nel pubblico e di scardinare certezze e luoghi comuni. Ed è
con le opinioni della “gente comune” che inizia Dal carcere:
voci registrate che riportano per lo più – ma non solo – frasi
fatte, appiattite su una concezione della pena detentiva come mera
vendetta, mentre le sagome degli attori si stagliano, immobili, nella
penombra. Alla fine della performance il cerchio si chiude e
si torna alla potente immagine iniziale, ma stavolta sono i
protagonisti a parlare condividendo con il pubblico le proprie
aspettative su ciò che troveranno una volta usciti di prigione,
aspettative che si trasformano in utopia e sogno malinconico. Il
finale sfuma così in una delle rare concessioni al lirismo, affidata
ancora una volta alle parole di Torchio: «Ho sentito alla radio,
tanti anni fa, di un Paese dove tutti stanno nudi, ogni estate, da
generazioni […]. Nudi non per essere perquisiti, o interrogati.
Nudi per spontanea volontà. Se qualcuno si avvicina non hai bisogno
di chiederti: Chissà cosa nasconde... Chissà se ha qualcosa che può
farmi del male. Nudi senza vergogna. E senza dolore» (Maurizio
Torchio, Cattivi, Torino, Einaudi, 2015, p. 168).
Un momento dello spettacolo © Alessandra Cinquemani
La
domanda urgente che gli attori pongono a sé stessi e agli spettatori
– spesso interpellati direttamente e coinvolti, a metà spettacolo,
in un gioco interattivo in cui si svelano alcune modalità
comunicative tra reparto maschile e femminile di Sollicciano – è:
il carcere funziona? Linterrogativo si fa strada nelle pieghe di
una drammaturgia che trova i suoi momenti più efficaci nel contrasto
fra il tono pacato della voce di De Summa e le azioni che si svolgono
sul palco: se il tema affrontato è il lavoro socialmente utile,
grandi teli bianchi vengono calati dallalto per poi essere
squarciati dagli attori; se si parla della funzione di «rieducazione
del condannato» che la Costituzione attribuisce al carcere (art.
27), si assiste al progressivo degenerare di attività potenzialmente
“educative”, che in un contesto di abbrutimento –
caratterizzato da sovraffollamento, elevato numero di suicidi, alto
uso di psicofarmaci – rischiano di perdere ogni valenza positiva.
Così il detenuto che viene fasciato con delle bende da un compagno
si trasforma poco a poco in una mummia cieca e immobile.
La
risposta al citato quesito è implicita e pone ulteriori problemi. La
cui soluzione, come in una scena beckettiana dello spettacolo, dove
unattesa senza senso è segnata dallo scorrere del tempo, sembra
non arrivare mai.
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