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“Oh, Violetta vestita di nuovo…”

di Paolo Patrizi
  La Traviata
Data di pubblicazione su web 08/06/2016  

Sosteneva Luigi Malerba, parlando della Storia di Elsa Morante, che un libro capace di vendere svariate centinaia di migliaia di copie è – per ciò stesso – un libro illeggibile. Il paradosso ha molto di snobistico e pure qualcosa di vero, ma sta di fatto che la generalizzazione è sempre cattiva consigliera. Sarebbe difficile negare che La traviata con i costumi creati da Valentino e la sua maison (nonché con il debutto di Sofia Coppola in una regia operistica), in scena queste settimane all’Opera di Roma con quindici recite già sold out da tempo, sia un evento modaiolo prima che musicale: e tuttavia, uscendo di teatro, resta l’impressione di uno spettacolo che mostra una freschezza insospettabile, almeno per una produzione di così invasivo impatto mediatico.

D’impianto classico-moderno (appena un’idea di Ottocento all’interno di un’impaginazione senza tempo), fedele a quella Grande Tradizione del Bello che, con declinazioni assai diverse tra loro, ha caratterizzato il teatro d’opera all’italiana da Visconti a Zeffirelli a Samaritani a Pizzi, La traviata “di” Valentino attua un percorso all’apparenza conservatore, ma oggi di avanguardia: dopo tante Violette postmoderne, fassbinderiane e trash, riporta il pubblico al linguaggio dell’opera, anziché viceversa. Ma se questa può essere la morale (d’altronde assai sottopelle, e forse addirittura preterintenzionale) dell’operazione, la vera sostanza – come sempre accade con l’alta moda – resta l’involucro: che qui si concreta nei quattro costumi di Violetta disegnati dal grande stilista (uno per quadro e uno più bello dell’altro, perché con Valentino pure la vestaglia dell’ultimo atto non è certo una camicia da notte qualsiasi), laddove l’abbigliamento di Flora e delle zingarelle da salotto resta affidato, sempre all’insegna di una somma eleganza visiva, agli attuali direttori creativi della maison valentiniana.


Un momento dello spettacolo. © Yasuko Kageyama
Un momento dello spettacolo.
© Yasuko Kageyama

L’indubbio senso estetico, corroborato anche dall’impianto scenografico di Nathan Crowley, non comporta però derive estetizzanti: se il clou visuale dello spettacolo è, prevedibilmente, l’abito rosso (“rosso Valentino”, appunto) della protagonista nel gran quadro della festa, lascia un senso di sgomenta tenerezza il vestito quasi da pierrot indossato nella quiete domestica del secondo atto. Dietro «tanto lusso», insomma, questa Traviata ha una sua antirealistica visionarietà: ma qui va chiamata in causa pure la regia di Sofia Coppola.

Com’è accaduto ad altri cineasti tentati da una Traviata in palcoscenico (Liliana Cavani, Cristina Comencini, Ferzan Ozpetek), la Coppola rinuncia alla forte personalità che la connota come regista cinematografica, mostrandosi fin troppo circospetta nelle scene di massa. Però non si limita a un lavoro d’impaginazione, di mero supporto all’“operazione Valentino”: la scalinata – più un ponte gettato sull’infinito che una passerella glamorous – attraversata da Violetta con passo spettrale durante il preludio imprime un piccolo brivido metafisico a questa Traviata, che si riverbera nel resto dello spettacolo. E se, di primo acchito, è arduo scorgere un addentellato tra il cinema della Coppola e la drammaturgia verdiana, le assonanze ci sono: l’incontro-confronto-scontro tra un personaggio maschile e uno femminile di generazioni diverse, al termine del quale entrambi usciranno cambiati, è il nocciolo di molti film della regista (da Lost in Translation a Somewhere), ma pure il senso più profondo del duetto tra Violetta e Germont.

Un momento dello spettacolo. © Yasuko Kageyama
Un momento dello spettacolo.
© Yasuko Kageyama

Al pari del versante visivo, anche quello musicale sembra cercare un equilibrio tra innovazione e tradizione. La direzione di Jader Bignamini tiene conto, in gran parte, di quella prassi esecutiva che nella Traviata si discosta dalla lettera dello spartito (il sopracuto interpolato alla fine del primo atto, i “rallentando” di «Ah! Perché venni? Incauta!»), ma non vi si adagia: azzarda contrasti dinamici niente affatto di routine; valorizza in senso drammatico quei “crescendo” del primo atto che, in molte bacchette, sono solo pesantezza festaiola; fa riappropriare le voci di Douphol, D’Obigny e Grenvil, nel concertato finale del secondo atto, di quella funzione di basso ostinato che la pratica teatrale ha poi delegato al coro. Altalenante – ma non “a fisarmonica” – nello stacco dei tempi, zigzagante nelle sollecitazioni espressive (recupera perfino la battuta conclusiva di Grenvil, sottraendo alla protagonista l’onore dell’ultima frase), ecco un concertatore forse non del tutto coerente, ma spigliato e personale.

Per una Traviata siffatta era poi scontato affidarsi a una Violetta e un Alfredo giovani e belli: qui, però, la freschezza è sembrata – almeno per il tenore – a un dipresso dall’acerbità. Francesca Dotto ha al suo arco non solo varie frecce sceniche, ma anche più d’un atout vocale: aggredisce le difficoltà del primo atto con una grinta che non la mette al riparo da qualche brutto suono, ma comunque risolve abbastanza; ha «anima grande» e «sentimento di scena» (i due principali desiderata per Violetta, secondo Verdi) non in quantità industriale, ma quanto basta per venire a capo del duetto con Germont e (un po’ meno) dell’Amami Alfredo; cresce di statura soprattutto negli ultimi due quadri, compresa una lettura della lettera che rivela buone doti da dicitrice. Talune debolezze di volume in basso, e certi stridori ad alta quota, lasciano intendere che soprattutto nel registro medio può realizzare compiutamente le proprie intenzioni espressive: il Mi bemolle di Sempre libera degg’io è più fruttuoso lasciarlo ai soprani che quella nota ce l’hanno – e che in quella puntatura ci credono.


Un momento dello spettacolo. © Yasuko Kageyama
Un momento dello spettacolo.
© Yasuko Kageyama
 

Antonio Poli è un Alfredo nemorineggiante (anche in certi impacci naïf che accentuano l’umanità del personaggio) e, comunque, “di grazia”: soluzione interpretativa forse spendibile in altro contesto, ma poco propizia in un teatro di ampie dimensioni come l’Opera di Roma e in un’esecuzione che, ripristinando la cabaletta del secondo atto (sia pure senza “da capo”), implicitamente fa lievitare la complessione canora del personaggio verso i lidi del tenore lirico spinto. Perfettamente calibrato, dall’alto di un’ormai trentennale carriera, è invece Roberto Frontali. Se il timbro appare oggi prosciugato, la sonorità è ancora di prim’ordine e l’emissione omogenea a tutte le altezze: un Germont in bianco e nero per dinamica (siamo tra il “forte” e il “mezzoforte”) e fraseggio (sempre molto scabro), ideale nel ritrarre un padre di scorza ruvida e radici contadine, dove pure la commozione finale appare severamente trattenuta.

Da una Traviata così attenta al dettaglio visivo era lecito, però, attendersi maggior cura nella scelta dei comprimari. Qualche figurina emerge con nettezza: è il caso del D’Obigny di Andrea Porta e dell’Annina di Chiara Pieretti. Ma i bellissimi costumi fatti indossare a certi personaggi di contorno, e la valorizzazione data dal direttore a ogni tassello vocale dei brani d’insieme, avrebbero meritato almeno una Flora e un Douphol migliori.



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