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La Musica nel flusso della Storia e della Vita

di Paolo Patrizi
  Lucerna Festival di Pasqua
Data di pubblicazione su web 29/03/2016  

È durata forse qualche secondo più del necessario la pausa tra primo e secondo movimento della Sinfonia Leningrado, nel concerto chiamato a concludere l’edizione pasquale del Festival di Lucerna. Ma difficilmente poteva essere altrimenti. Troppo insostenibile, infatti, era stata la tensione fisica – a misura che l’Orchestra della Radio di Monaco procedeva verso la conclusione dell’Allegretto – del direttore Mariss Jansons, e altrettanto insostenibile la tensione emotiva del pubblico abbarbicato al suono che il maestro lettone faceva sprigionare dalla compagine bavarese, per non concedere qualche istante di decantazione prima dell’attacco del successivo Moderato. E l’acustica nitidissima ma leggermente riverberata della Konzertsaal lucernina ha restituito al quadrato tutti quei secondi – pochi o pochissimi che fossero – di riacquisto delle forze e riappropriazione di se stessi, in quel transito dalla catarsi momentanea al reimmergersi nel flusso delle emozioni che, in un concerto, è la conferma più eloquente che la serata sta diventando di quelle indimenticabili.

Per un direttore nato l’anno dopo la première della sinfonia di Sostakovic (1942), in una Riga invasa dai nazisti al pari della Leningrado illustrata nella monumentale partitura, è chiaro che una pagina del genere non è solo un banco di prova sotto il profilo tecnico, né un mero esercizio di stile. Jansons, per interposto Sostakovic, qui fa i conti con la memoria storica della propria gente e della propria famiglia: e appunto questo, paradossalmente ma non troppo, lo pone al riparo da quell’enfasi e quell’ipertrofia che hanno caratterizzato tante altre letture della Leningrado. Tutto viene visto come da lontano, a cominciare dai “crescendo” e dalle iterazioni rullanti del tema dell’invasione durante l’Allegretto, in una nebbiosa trasparenza della memoria (una sorta di “campo lungo” che non esclude inopinati primi piani, coerentemente con il talento di Sostakovic anche come compositore cinematografico) che sottrae la sinfonia dalle maglie della musica a programma. La Leningrado intrappolata dal gelo e sotto la morsa dell’attacco nazionalsocialista c’è tutta, certo, ma in un percorso dal generale al particolare: come se, in primo luogo, si fosse ascoltata la ricostruzione musicale non tanto di un epocale assedio cittadino, quanto di una “idea” – politica e spirituale – di Resistenza.

foto del concerto di Mariss Jansons
Concerto diretto da Mariss Jansons
©Priska Ketterer

Se Jansons e la sua orchestra hanno portato questa Leningrado anche alla Scala, solo a Lucerna si è ascoltato l’altro, più composito concerto, che univa Beethoven a Mendelssohn e Rachmaninov. Cuore del programma era quest’ultimo con una cantata spaziosa e composita come Le campane, che si ritagliava la seconda parte della serata: creando con lo Sostakovic del giorno dopo un ponte all’insegna del Novecento russo, nonché delle capacità della grande Musica di entrare in dialettica non solo con la Storia, come nel caso appunto della Leningrado, ma con le stagioni della Vita. Basate su un visionario poema di Edgar Allan Poe filtrato in chiave simbolista dalla traduzione russa di Konstantin Balmont, Le campane evocano infatti le varie tappe della nostra parabola terrena attraverso differenti qualità di scampanio. I materiali sonori di Rachmaninov cambiano lungo i quattro movimenti: sicché all’argenteo tintinnare della prima sezione, che riproduce l’infanzia, seguono il suono delle campane d’oro della giovinezza, quello bronzeo dell’età matura e quello ferrigno delle campane che gemono prima del momento della morte.

Consapevole che la vita è moto circolare e non andamento orizzontale, Jansons ci conduce attraverso questa umana avventura senza le tentazioni paratattiche del testo: lasciando trapelare inquietudini e malinconie già nel gioioso scintillio dell’Allegro iniziale, ma pure stemperando la desolazione degli ultimi movimenti in morbidezze non prive di speranza. Ne scaturisce una presa di distanza dal romanticismo neogotico di Poe (e anche dal neo, o post, romanticismo di Rachmaninov) in favore d’un aggancio al simbolismo di Balmont, ma senza le sue tentazioni decadenti e filtrandolo attraverso una sensibilità musicale impressionista. Il coro – sempre della Radio bavarese – risponde in pieno alle sollecitazioni della bacchetta, mentre i solisti sono forse meno idiomatici: palesemente preoccupato del suo ruolo di sostituto dell’ultima ora il tenore Maxim Aksenov; troppo poco fresco, per proiettare illusioni ed entusiasmi dell’adolescenza, il soprano Tatiana Pavlovskaya; più appagante la voce morbida e scura del baritono Alexey Markov, anche se forzature di emissione e artate inchiostrature timbriche sono percepibili.

Master Class di Bernard Haitink
Master Class di Bernard Haitink
©Priska Ketterer

La profondità del pensiero musicale di Jansons emerge pure nel Concerto per violino di Mendelssohn, autore sereno e poco propenso alle antitesi incisive, ma anche – forse suo malgrado – imbevuto di sollecitazioni romantiche. Piuttosto che giocare con la velata malinconia e gli arabeschi sbarazzini della pagina, Jansons esplora l’anima divisa in due del compositore: lasciando al solista (il lituano Julian Rachlin, capace di rimpallarsi in empatica alchimia con il direttore) la souplesse mendelssohniana e riservando all’orchestra quanto di offuscato e agitato resta sottopelle. D’altronde, pure nel Coriolano in versione “allargata” che apriva la serata (l’ouverture di Beethoven è stata presentata nella revisione mahleriana) Jansons mantiene la capacità di far convivere gli opposti: conservando quella sintesi da poema sinfonico in miniatura che è il nucleo espressivo della pagina, ma veleggiando – come appunto intendeva Mahler – verso orizzonti più ampi di quella mera “musica di scena” cui la partitura era destinata.

Da un direttore della generazione over 70 a un over 80: il Festival di Lucerna ha promosso per tre giorni una Master Class di Bernard Haitink, ottantasette anni appena compiuti e uno degli ultimi “maghi” della sua generazione – il Brahms più ostico non ha segreti per lui, sa modellare un Bruckner di estrema coerenza architettonica laddove altri grandi hanno sminuzzato – ancora sulla breccia. Alle prese con giovani talenti internazionali di recentissima covata (sei uomini e una donna), l’anziano maestro olandese ascolta, corregge, non rinuncia a salire sul podio per mostrare “come si fa”, sebbene la didattica sia spesso all’insegna di un sano relativismo. L’impressione è d’ascoltare una nouvelle vague di bacchette gentili, efficienti e globalizzate, forse anche per ragioni di provenienza geografica (un direttore dell’Estremo Oriente formatosi in Canada, un altro mediorientale che ha studiato in Gran Bretagna…): «It’s too lirico, too nice!» è l’obiezione che Haitink muove più spesso ai ragazzi, fedeli a una visione della musica fin troppo rassicurante e politically correct, si tratti della Prima di Brahms o della Leonore beethoveniana. E quando, per pochi minuti, a impugnare la bacchetta è lui, l’Orchestra del Lucerne Festival Academy ritrova per incanto quella drammaticità del passo che i giovanotti non riuscivano a insufflare.

una foto de
Un momento de Il piccolo principe
©Peter Fischli

Come sempre, sia pure in via residuale, a Lucerna accanto ai concerti c’è spazio per il palcoscenico. Il Bundesjugendballet, collettivo teatrale di Amburgo, ha presentato una libera rielaborazione musical-coreografica del Piccolo principe, che già dal titolo – Ein kleiner Prinz – mostra come la rilettura voglia essere una tra le tante possibili. Classico per l’infanzia e non solo, la fiaba gentile di Saint-Exupéry viene restituita attraverso tante “stazioni” – quasi una Via Crucis di sorridente stupefazione – coreografate con minimalista e infallibile plasticità (coreografo principale, ma non unico, è Kevin Haigen, anche direttore artistico del progetto) e contrappuntate da adattamenti per piccolo ensemble di grandi musiche del Novecento. La drammaturgia di Aike Errenst e Johannes Fuchs riesce a restituire tutti gli snodi principali del libro all’interno di uno spettacolo quasi senza parole, mentre il Konzept musicale di Steven Walter fa dialogare impeccabilmente i vari momenti del racconto ora con Ravel ora con Elgar, ora con Korngold ora con Webern. I sette strumentisti (sostanzialmente impiegati pure come attori) e i nove mimi-danzatori contribuiscono all’ottimo esito di questa festa del teatro povero, ma ciò che rimane più nella memoria è il sorriso del protagonista, il ragazzo down Julius Winkelsträter: né bambino né “ometto” (come lo definisce la traduzione italiana del libro), ma di un’innocenza travalicante ogni banale dato anagrafico, con quel candore della diversità che – principe per principe – risale direttamente al Myskin dostoevskiano.



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