È durata forse
qualche secondo più del necessario la pausa tra primo e secondo movimento della
Sinfonia Leningrado, nel concerto chiamato a concludere ledizione
pasquale del Festival di Lucerna. Ma difficilmente poteva essere altrimenti.
Troppo insostenibile, infatti, era stata la tensione fisica – a misura che
lOrchestra della Radio di Monaco procedeva verso la conclusione dellAllegretto
– del direttore Mariss Jansons, e altrettanto insostenibile la
tensione emotiva del pubblico abbarbicato al suono che il maestro lettone
faceva sprigionare dalla compagine bavarese, per non concedere qualche istante
di decantazione prima dellattacco del successivo Moderato. E lacustica
nitidissima ma leggermente riverberata della Konzertsaal lucernina ha
restituito al quadrato tutti quei secondi – pochi o pochissimi che fossero – di
riacquisto delle forze e riappropriazione di se stessi, in quel transito dalla
catarsi momentanea al reimmergersi nel flusso delle emozioni che, in un
concerto, è la conferma più eloquente che la serata sta diventando di quelle
indimenticabili.
Per un direttore
nato lanno dopo la première della sinfonia di Sostakovic (1942), in una Riga invasa dai nazisti al pari della
Leningrado illustrata nella monumentale partitura, è chiaro che una pagina del
genere non è solo un banco di prova sotto il profilo tecnico, né un mero esercizio
di stile. Jansons, per interposto Sostakovic, qui fa i conti con la memoria
storica della propria gente e della propria famiglia: e appunto questo,
paradossalmente ma non troppo, lo pone al riparo da quellenfasi e
quellipertrofia che hanno caratterizzato tante altre letture della Leningrado.
Tutto viene visto come da lontano, a cominciare dai “crescendo” e dalle
iterazioni rullanti del tema dellinvasione durante lAllegretto, in una nebbiosa
trasparenza della memoria (una sorta di “campo lungo” che non esclude inopinati
primi piani, coerentemente con il talento di Sostakovic anche come compositore
cinematografico) che sottrae la sinfonia dalle maglie della musica a programma.
La Leningrado intrappolata dal gelo e sotto la morsa dellattacco
nazionalsocialista cè tutta, certo, ma in un percorso dal generale al particolare:
come se, in primo luogo, si fosse ascoltata la ricostruzione musicale non tanto
di un epocale assedio cittadino, quanto di una “idea” – politica e spirituale –
di Resistenza.
Concerto diretto da Mariss Jansons ©Priska Ketterer
Se Jansons e la sua
orchestra hanno portato questa Leningrado anche alla Scala, solo a
Lucerna si è ascoltato laltro, più composito concerto, che univa Beethoven a Mendelssohn e Rachmaninov.
Cuore del programma era questultimo con una cantata spaziosa e composita come Le
campane, che si ritagliava la seconda parte della serata: creando con lo
Sostakovic del giorno dopo un ponte allinsegna del Novecento russo, nonché
delle capacità della grande Musica di entrare in dialettica non solo con la Storia,
come nel caso appunto della Leningrado, ma con le stagioni della Vita.
Basate su un visionario poema di Edgar
Allan Poe filtrato in chiave simbolista dalla traduzione russa di Konstantin Balmont, Le campane evocano infatti le varie tappe della
nostra parabola terrena attraverso differenti qualità di scampanio. I materiali
sonori di Rachmaninov cambiano lungo i quattro movimenti: sicché allargenteo
tintinnare della prima sezione, che riproduce linfanzia, seguono il suono
delle campane doro della giovinezza, quello bronzeo delletà matura e quello
ferrigno delle campane che gemono prima del momento della morte.
Consapevole che la
vita è moto circolare e non andamento orizzontale, Jansons ci conduce
attraverso questa umana avventura senza le tentazioni paratattiche del testo: lasciando
trapelare inquietudini e malinconie già nel gioioso scintillio dellAllegro
iniziale, ma pure stemperando la desolazione degli ultimi movimenti in
morbidezze non prive di speranza. Ne scaturisce una presa di distanza dal
romanticismo neogotico di Poe (e anche dal neo, o post, romanticismo di Rachmaninov)
in favore dun aggancio al simbolismo di Balmont, ma senza le sue tentazioni
decadenti e filtrandolo attraverso una sensibilità musicale impressionista. Il
coro – sempre della Radio bavarese – risponde in pieno alle sollecitazioni della
bacchetta, mentre i solisti sono forse meno idiomatici: palesemente preoccupato
del suo ruolo di sostituto dellultima ora il tenore Maxim Aksenov; troppo poco fresco, per proiettare illusioni ed entusiasmi delladolescenza,
il soprano Tatiana Pavlovskaya; più
appagante la voce morbida e scura del baritono Alexey Markov, anche se forzature di emissione e artate
inchiostrature timbriche sono percepibili.
Master Class di Bernard Haitink ©Priska Ketterer
La profondità del
pensiero musicale di Jansons emerge pure nel Concerto per violino di
Mendelssohn, autore sereno e poco propenso alle antitesi incisive, ma anche – forse
suo malgrado – imbevuto di sollecitazioni romantiche. Piuttosto che giocare con
la velata malinconia e gli arabeschi sbarazzini della pagina, Jansons esplora
lanima divisa in due del compositore: lasciando al solista (il lituano Julian Rachlin, capace di rimpallarsi
in empatica alchimia con il direttore) la souplesse
mendelssohniana e riservando allorchestra quanto di offuscato e agitato resta
sottopelle. Daltronde, pure nel Coriolano
in versione “allargata” che apriva la serata (louverture di Beethoven è stata
presentata nella revisione mahleriana) Jansons mantiene la capacità di far
convivere gli opposti: conservando quella sintesi da poema sinfonico in
miniatura che è il nucleo espressivo della pagina, ma veleggiando – come appunto
intendeva Mahler – verso orizzonti
più ampi di quella mera “musica di scena” cui la partitura era destinata.
Da un direttore della generazione over 70 a un over 80:
il Festival di Lucerna ha promosso per tre giorni una Master Class di Bernard Haitink, ottantasette anni
appena compiuti e uno degli ultimi “maghi” della sua generazione – il Brahms più ostico non ha segreti per
lui, sa modellare un Bruckner di
estrema coerenza architettonica laddove altri grandi hanno sminuzzato – ancora
sulla breccia. Alle prese con giovani talenti internazionali di recentissima covata
(sei uomini e una donna), lanziano maestro olandese ascolta, corregge, non
rinuncia a salire sul podio per mostrare “come si fa”, sebbene la didattica sia
spesso allinsegna di un sano relativismo. Limpressione è dascoltare una nouvelle vague di bacchette gentili, efficienti
e globalizzate, forse anche per ragioni di provenienza geografica (un direttore
dellEstremo Oriente formatosi in Canada, un altro mediorientale che ha
studiato in Gran Bretagna…): «Its too
lirico, too nice!» è lobiezione che
Haitink muove più spesso ai ragazzi, fedeli a una visione della musica fin
troppo rassicurante e politically correct, si tratti della Prima di Brahms o della Leonore beethoveniana. E quando, per
pochi minuti, a impugnare la bacchetta è lui, lOrchestra del Lucerne Festival
Academy ritrova per incanto quella drammaticità del passo che i giovanotti non
riuscivano a insufflare.
Un momento de Il piccolo principe ©Peter Fischli
Come sempre, sia pure in via residuale, a Lucerna accanto ai
concerti cè spazio per il palcoscenico. Il Bundesjugendballet, collettivo teatrale di Amburgo, ha presentato
una libera rielaborazione musical-coreografica del Piccolo principe, che già
dal titolo – Ein kleiner Prinz –
mostra come la rilettura voglia essere una tra le tante possibili. Classico per
linfanzia e non solo, la fiaba gentile di Saint-Exupéry
viene restituita attraverso tante “stazioni” – quasi una Via Crucis di
sorridente stupefazione – coreografate con minimalista e infallibile plasticità
(coreografo principale, ma non unico, è Kevin
Haigen, anche direttore artistico del progetto) e contrappuntate da
adattamenti per piccolo ensemble di
grandi musiche del Novecento. La drammaturgia di Aike Errenst e Johannes Fuchs riesce a restituire tutti gli snodi principali del libro
allinterno di uno spettacolo quasi senza parole, mentre il Konzept musicale di Steven Walter fa
dialogare impeccabilmente i vari momenti del racconto ora con Ravel ora con Elgar, ora con Korngold
ora con Webern. I sette strumentisti
(sostanzialmente impiegati pure come attori) e i nove mimi-danzatori
contribuiscono allottimo esito di questa festa del teatro povero, ma ciò che rimane
più nella memoria è il sorriso del protagonista, il ragazzo down Julius Winkelsträter: né bambino né
“ometto” (come lo definisce la traduzione italiana del libro), ma di
uninnocenza travalicante ogni banale dato anagrafico, con quel candore della
diversità che – principe per principe – risale direttamente al Myskin
dostoevskiano.
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Lucerna Festival di Pasqua
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