Sulla compatibilità tra la natura di «dramma
giocoso» (così la definizione in partitura) e il retroterra della favola si
sono versati fiumi dinchiostro. Ma La
Cenerentola di Rossini, in realtà, elude il problema: da un lato asciugando il
versante fiabesco – auspice il realismo icastico e minuto del libretto di Jacopo Ferretti – e, dallaltro, usando la comicità più come mezzo che
come fine, più come una lente narrativa che come un “genere” cui uniformarsi
inderogabilmente. Affrontando per la prima volta il capolavoro rossiniano, Emma Dante a sua volta aggira la questione: di comico cè poco, in
questa regia dove la risata – quando scatta – è servita a freddo, a mo di
esercizio di stile. Mentre il sapore della favola rimane, sì, ma come
rovesciato: schivando la logica del lieto fine (di quella «bontà in trionfo»
che è il sottotitolo dellopera non cè traccia, nella drammaturgia messa in moto
dalla Dante) e lasciando emergere quegli aspetti crudeli e inquietanti che il
razionalista Rossini certo avvertiva, ma aveva cura di mantenere sottopelle.
Un momento dello spettacolo
© Yasuko Kageyama
Più che guardare a
Perrault, la cui versione della favola rappresentò il basamento del
libretto, Emma Dante si colloca insomma nei paraggi delle
Cenerentole di
Basile o
dei fratelli
Grimm, con i loro
momenti “neri” e il prevalere del castigo sul perdono. Ne sortisce un teatrino
della crudeltà (di grande efficacia linterludio sinfonico del temporale, dove
la girandola di ombrelli viene contrappuntata dal pestaggio della protagonista –
pioggia di botte speculare alla pioggia meteorologica – a opera di patrigno e
sorellastre), che limpianto scenico colorato e
cartoonist di
Carmine Maringola non infirma, ma corrobora. In
tale contesto, la regista ha buon gioco nel riportare la vicenda di Cenerentola
ai temi, sempre urgenti per la Dante, della reificazione della donna e della
forzata alienazione femminile: alienazione che, in qualche modo, si estende
pure agli altri personaggi, tutti circondati da replicanti meccanici.
Un momento dello spettacolo
© Yasuko Kageyama
Siamo davanti non al sempiterno tema del “doppio”,
ma a una vera e propria moltiplicazione: una manciata di cloni muniti di
chiavetta ricaricabile dietro la schiena. È un modo (non originalissimo, a dire
il vero) di sottolineare il meccanicismo del disincantato Rossini, il suo far
smarrire le proprie creature nei labirinti della ragione mentre la macchina
dellesistenza procede – implacabile – per proprio conto. La Dante, però, sembra
voler innescare un circuito drammaturgico più concettoso e uno psicologismo più
virtuosistico: come se lumanità dei singoli caratteri passi attraverso queste
proliferazioni della propria immagine – schegge impazzite che restituiscono il
più profondo sentire delle
dramatis personae – piuttosto che tramite i
personaggi stessi. E in questa regia oscillante tra prevedibilità e
originalità, espedienti un po forzati e trovate realmente ingegnose, ciò che non
fa pareggiare il conto è la (relativa) insensibilità musicale: il sestetto
Questo è un nodo avviluppato è uno di
quei momenti “sospesi” – tutti trasecolano e si bloccano come al fermo
immagine, in attesa che lo stupore finisca e lazione ricominci – di cui
Rossini era maestro, trasformarlo (in virtù dei mimi-automi) in una pantomima
di bulimia psicomotoria ne vanifica il senso.
Un momento dello spettacolo © Yasuko Kageyama
Deve averlo avvertito pure il pubblico: normalmente bissato a furor di popolo, questo sestetto – almeno nella replica di cui si dà conto – non è stato gratificato nemmeno da un applauso. Qui, però, scattano le responsabilità della direzione musicale. Forse anche per prudenza, Alejo Pérez sceglie di sganciarsi dal dinamismo con cui Claudio Abbado siglò la sua Cenerentola renaissance, ma siamo lontani pure dai grandi modelli precedenti – meno vividi e più olimpici – di Gui o di Giulini. La mancanza di speditezza non è affatto compensata da una più distillata espressività fonica; la fobia di scantonare in un corrivo rossinismo fa rinunciare ad alcune sottolineature ineludibilmente rossiniane (è raro ascoltare dei “crescendo” così poco evidenziati); alla sostanziale freddezza espressiva non fa riscontro una controbilanciante precisione dellinsieme (di scollamenti ritmici, anzi, se nè percepito più duno); e anche il coro dellOpera di Roma – con un vertiginoso passo indietro rispetto alle sue prove più recenti – è apparso pesante, quasi sgarbato.
Il cast, sulla carta, aveva la sua punta in Alessandro Corbelli, veterano oggi inevitabilmente sulle difensive: e se nel secondo atto la voce inizia a mostrare tutti i suoi cedimenti, nella prima parte dellopera questo Don Magnifico stilizzato e maligno ha ancora frecce al proprio arco. Punta non nominale ma di fatto è stato invece Marko Mimica, degno continuatore di una scuola vocale – quella croata – che ha dato molto alla storia del canto lirico: la scrittura oltremodo impegnativa di Alidoro viene perfettamente onorata, grazie allottima estensione (un autentico basso-baritono) e a unemissione sempre calibratissima. Il resto oscillava tra una caricaturalità troppo marcata (Damiana Mizzi, e più ancora Annunziata Vestri, sono due sorellastre incapaci di tradurre il grottesco in termini schiettamente canori) e una sobrietà tanto apprezzabile quanto, a tratti, un po sfocata (Vito Priante è commediante simpatico e vocalista scorrevole, ma più corretto che insolente nelle debordanti colorature di Dandini). Juan Francisco Gatell appare perfetto finché Don Ramiro resta circoscritto allamoroso “di mezzo carattere”: fluidità di legato, soavità di mezzevoci, agilità dominate con scioltezza. Quando invece il personaggio vira verso un profilo tenorile “alto”, come nella grande aria del secondo atto, si avverte una certa circospezione.
La cautela caratterizza pure la protagonista
Serena Malfi, cui il rondò conclusivo crea più di unapprensione.
Una certa disomogeneità è dietro langolo: il registro grave è un po “pompato”
nella ricerca di maggior suono, levità e brillantezza ci sarebbero ma la voce è
troppo coperta dallorchestra per non forzare. Linterprete convince più della
cantante: con la sua femminilità dignitosa, il suo stupore battagliero, la
perfetta sintonia con i
desiderata
registici. Alla fine ciò che, nello spettacolo, sinsinua meglio nella memoria
è questo profilo di donna offesa ma non doma; e anche – almeno per chi crede
nella forza degli archetipi – il non aver rinunciato alla scarpina. Rossini e
Ferretti ne fanno a meno, e la rimpiazzano con un braccialetto. Ma il piedino di
Cenerentola, uscito dal libretto, rientra dalla finestra di Emma Dante: che
sostituisce il bracciale con una più seduttiva catenina da caviglia.