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Dal braccio alla caviglia

di Paolo Patrizi
  La Cenerentola
Data di pubblicazione su web 26/01/2016  

Sulla compatibilità tra la natura di «dramma giocoso» (così la definizione in partitura) e il retroterra della favola si sono versati fiumi d’inchiostro. Ma La Cenerentola di Rossini, in realtà, elude il problema: da un lato asciugando il versante fiabesco – auspice il realismo icastico e minuto del libretto di Jacopo Ferretti – e, dall’altro, usando la comicità più come mezzo che come fine, più come una lente narrativa che come un “genere” cui uniformarsi inderogabilmente. Affrontando per la prima volta il capolavoro rossiniano, Emma Dante a sua volta aggira la questione: di comico c’è poco, in questa regia dove la risata – quando scatta – è servita a freddo, a mo’ di esercizio di stile. Mentre il sapore della favola rimane, sì, ma come rovesciato: schivando la logica del lieto fine (di quella «bontà in trionfo» che è il sottotitolo dell’opera non c’è traccia, nella drammaturgia messa in moto dalla Dante) e lasciando emergere quegli aspetti crudeli e inquietanti che il razionalista Rossini certo avvertiva, ma aveva cura di mantenere sottopelle.

Un momento dello spettacolo
© Yasuko Kageyama
Un momento dello spettacolo © Yasuko Kageyama

Più che guardare a Perrault, la cui versione della favola rappresentò il basamento del libretto, Emma Dante si colloca insomma nei paraggi delle Cenerentole di Basile o dei fratelli Grimm, con i loro momenti “neri” e il prevalere del castigo sul perdono. Ne sortisce un teatrino della crudeltà (di grande efficacia l’interludio sinfonico del temporale, dove la girandola di ombrelli viene contrappuntata dal pestaggio della protagonista – pioggia di botte speculare alla pioggia meteorologica – a opera di patrigno e sorellastre), che l’impianto scenico colorato e cartoonist di Carmine Maringola non infirma, ma corrobora. In tale contesto, la regista ha buon gioco nel riportare la vicenda di Cenerentola ai temi, sempre urgenti per la Dante, della reificazione della donna e della forzata alienazione femminile: alienazione che, in qualche modo, si estende pure agli altri personaggi, tutti circondati da replicanti meccanici.

Un momento dello spettacolo
© Yasuko Kageyama
Un momento dello spettacolo © Yasuko Kageyama

Siamo davanti non al sempiterno tema del “doppio”, ma a una vera e propria moltiplicazione: una manciata di cloni muniti di chiavetta ricaricabile dietro la schiena. È un modo (non originalissimo, a dire il vero) di sottolineare il meccanicismo del disincantato Rossini, il suo far smarrire le proprie creature nei labirinti della ragione mentre la macchina dell’esistenza procede – implacabile – per proprio conto. La Dante, però, sembra voler innescare un circuito drammaturgico più concettoso e uno psicologismo più virtuosistico: come se l’umanità dei singoli caratteri passi attraverso queste proliferazioni della propria immagine – schegge impazzite che restituiscono il più profondo sentire delle dramatis personae – piuttosto che tramite i personaggi stessi. E in questa regia oscillante tra prevedibilità e originalità, espedienti un po’ forzati e trovate realmente ingegnose, ciò che non fa pareggiare il conto è la (relativa) insensibilità musicale: il sestetto Questo è un nodo avviluppato è uno di quei momenti “sospesi” – tutti trasecolano e si bloccano come al fermo immagine, in attesa che lo stupore finisca e l’azione ricominci – di cui Rossini era maestro, trasformarlo (in virtù dei mimi-automi) in una pantomima di bulimia psicomotoria ne vanifica il senso.

Un momento dello spettacolo © Yasuko Kageyama
Un momento dello spettacolo © Yasuko Kageyama 

Deve averlo avvertito pure il pubblico: normalmente bissato a furor di popolo, questo sestetto – almeno nella replica di cui si dà conto – non è stato gratificato nemmeno da un applauso. Qui, però, scattano le responsabilità della direzione musicale. Forse anche per prudenza, Alejo Pérez sceglie di sganciarsi dal dinamismo con cui Claudio Abbado siglò la sua Cenerentola renaissance, ma siamo lontani pure dai grandi modelli precedenti – meno vividi e più olimpici – di Gui o di Giulini. La mancanza di speditezza non è affatto compensata da una più distillata espressività fonica; la fobia di scantonare in un corrivo rossinismo fa rinunciare ad alcune sottolineature ineludibilmente rossiniane (è raro ascoltare dei “crescendo” così poco evidenziati); alla sostanziale freddezza espressiva non fa riscontro una controbilanciante precisione dell’insieme (di scollamenti ritmici, anzi, se n’è percepito più d’uno); e anche il coro dell’Opera di Roma – con un vertiginoso passo indietro rispetto alle sue prove più recenti – è apparso pesante, quasi sgarbato.

Il cast, sulla carta, aveva la sua punta in Alessandro Corbelli, veterano oggi inevitabilmente sulle difensive: e se nel secondo atto la voce inizia a mostrare tutti i suoi cedimenti, nella prima parte dell’opera questo Don Magnifico stilizzato e maligno ha ancora frecce al proprio arco. Punta non nominale ma di fatto è stato invece Marko Mimica, degno continuatore di una scuola vocale – quella croata – che ha dato molto alla storia del canto lirico: la scrittura oltremodo impegnativa di Alidoro viene perfettamente onorata, grazie all’ottima estensione (un autentico basso-baritono) e a un’emissione sempre calibratissima. Il resto oscillava tra una caricaturalità troppo marcata (Damiana Mizzi, e più ancora Annunziata Vestri, sono due sorellastre incapaci di tradurre il grottesco in termini schiettamente canori) e una sobrietà tanto apprezzabile quanto, a tratti, un po’ sfocata (Vito Priante è commediante simpatico e vocalista scorrevole, ma più corretto che insolente nelle debordanti colorature di Dandini). Juan Francisco Gatell appare perfetto finché Don Ramiro resta circoscritto all’amoroso “di mezzo carattere”: fluidità di legato, soavità di mezzevoci, agilità dominate con scioltezza. Quando invece il personaggio vira verso un profilo tenorile “alto”, come nella grande aria del secondo atto, si avverte una certa circospezione.

La cautela caratterizza pure la protagonista Serena Malfi, cui il rondò conclusivo crea più di un’apprensione. Una certa disomogeneità è dietro l’angolo: il registro grave è un po’ “pompato” nella ricerca di maggior suono, levità e brillantezza ci sarebbero ma la voce è troppo coperta dall’orchestra per non forzare. L’interprete convince più della cantante: con la sua femminilità dignitosa, il suo stupore battagliero, la perfetta sintonia con i desiderata registici. Alla fine ciò che, nello spettacolo, s’insinua meglio nella memoria è questo profilo di donna offesa ma non doma; e anche – almeno per chi crede nella forza degli archetipi – il non aver rinunciato alla scarpina. Rossini e Ferretti ne fanno a meno, e la rimpiazzano con un braccialetto. Ma il piedino di Cenerentola, uscito dal libretto, rientra dalla finestra di Emma Dante: che sostituisce il bracciale con una più seduttiva catenina da caviglia.



La Cenerentola
Dramma giocoso in due atti


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