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Dheepan – Una nuova vita

di Raffaele Pavoni
  Dheepan
Data di pubblicazione su web 05/11/2015  

L’assegnazione di un riconoscimento importante come la Palma d’Oro porta sempre con sé uno strascico di polemiche, stroncature, retropensieri. Il dibattito seguito alla premiazione, al 62° Festival di Cannes, di Dheepan del francese Jacques Audiard ha però nettamente diviso pubblico e critica, soprattutto in madrepatria. A un entusiasta Jean-Dominique Nuttens, che su «Positif» ha salutato il film come un capitolo di “grande cinema spettacolare”, ha fatto da contraltare la stroncatura netta di Stéphane Delorme dei «Cahiers du Cinéma» (eco di vecchie querelles?), che senza mezzi termini ha definito il film una “presa in giro”. Certo, la scelta della giuria ha il sapore di un doveroso omaggio alla carriera: per due volte, nel 2009 e nel 2012, il regista si era visto sottrarre l’ambito premio da Michael Haneke. Eppure Dheepan, pur inserendosi coerentemente nella filmografia audardiana, sembra fare uno scatto in avanti, ritrattando e rimettendo in discussione alcuni temi dei suoi precedenti lavori.

Dheepan (Jesuthasan Antonythasan) è un ex militante delle Tigri Tamil, gruppo indipendentista dello Sri Lanka del nord, emigrato a Parigi dopo aver perso nel conflitto tutti i suoi cari. Accompagnato da una finta famiglia, la moglie Yalini (Kalieaswari Srinivasan) e la figlia Illayaal (Claudine Vinasithamby), entra inizialmente nel racket dei venditori ambulanti, poi trova lavoro come giardiniere-tuttofare in una grigia banlieue. I continui sforzi di integrazione con la turbolenta e disagiata comunità locale si dissolveranno quando, a seguito di una sparatoria tra gang rivali, il protagonista deciderà di delimitare e difendere militarmente il proprio palazzo, lasciando riemergere un passato impossibile da reprimere.
 

Una scena del film

Modellata sul topos collaudato del reduce di guerra alle prese con il proprio rimosso, la figura di Dheepan, interpretata da un attore non professionista (un combattente Tigri Tamil emigrato in Francia per diventare scrittore), porta agli estremi le caratteristiche del personaggio, in una schizofrenica contrapposizione tra la figura di tenace e rispettato guerrigliero e quella di pacifico e remissivo tuttofare, sottopagato e vessato dai bulli locali. Il netto stacco di montaggio dell’incipit, in cui sulle note del Cum Dederit di Vivaldi si passa senza soluzione di continuità dai paesaggi cingalesi alle strade parigine dove il protagonista vende cianfrusaglie, assume un senso quasi programmatico, come di una cesura radicale, di un personaggio da ricomporre. È questa lacerazione interna al protagonista a costituire il motore di tutta la narrazione, che a ben vedere non è altro che un continuo tentativo di compromesso tra due personaggi che indossano la stessa maschera, mediazione che non può avere luogo se non attraverso il ricorso alla violenza.

La memoria della guerra – e qui sta una delle intuizioni più brillanti del film – non solo si traduce essa stessa in guerra, ma porta con sé anche i residui del Dheepan militante, soprattutto per quanto riguarda i legami con la famiglia, che egli cerca ostinatamente di ritessere in quella fittizia. Ogni vertice del triangolo madre-padre-figlia ha perso gli altri due e l’esasperazione della finzione identitaria (sembrare una famiglia reale, parlare francese, socializzare con i propri coetanei) si risolve, nella seconda parte del film, nell’esatto opposto. Come e ancor più che in Tutti i battiti del mio cuore (2005), la pistola ha qui una funzione quasi suppletiva rispetto alla parola, una extrema ratio a cui i personaggi ricorrono non perché costretti dalle circostanze, ma in quanto drammaticamente incapaci di dialogare. Esemplare, in questo senso, il rapporto di amicizia che Yalini crede di aver intessuto con il galeotto Brahim (Vincent Rottiers), i cui toni inizialmente distensivi e amichevoli divengono repentinamente, dopo lo scoppio del conflitto, minacciosi e ricattatori. Significativo anche lo sfogo del protagonista, che dopo un pranzo con i vicini chiede alla sua finta moglie: «Ma a te fanno ridere? Io capisco le loro parole, capisco tutto, ma non capisco perché ridono…».



Una scena del film

L’esito più radicale della poetica di Audiard sta tutto in questi personaggi ingabbiati, imprigionati, sia che si tratti di una vera e propria galera – come ne Il Profeta (2009) – sia che si tratti di una periferia abbandonata a sé stessa (in tutto il film non si vede nemmeno una volante della polizia). La banlieue che l’autore mette in mostra, ironicamente chiamata Le Pré (letteralmente “Il prato”), è popolata di figure tragiche, uomini che gridano vendetta pur sapendo benissimo che nessuna vendetta potrà mai avere luogo. Non sappiamo da cosa abbia origine la sparatoria che convincerà Dheepan ad armarsi; ciò che più conta è che essa arriva all’improvviso, inaspettata, tellurica, eppure largamente attesa e prevedibile. Gli abitanti di Le Pré sono mine vaganti, concentrati di azione inespressa, ordigni pronti a deflagrare in qualsiasi momento; sono il risultato di passati insondabili, di questioni irrisolte, che trovano nella sopraffazione e nel possesso l’unico modus vivendi possibile. Lo stesso concetto di amore, che ne Un sapore di ruggine e ossa (2012) era semplice desiderio di se stesso, qui si involve ulteriormente, diventa puro partito preso: Dheepan fa di tutto per difendere una famiglia non sua, per amare una moglie non sua, in una possessività che più che all’amore è simile, anche qui, alla difesa di un territorio, al contempo geografico e affettivo.

Pur tenendosi alla larga da qualsiasi velleità documentaristica, Audiard interpreta con sicurezza e cognizione di causa il disagio e le dinamiche sociali di certe zone di Parigi. La sua banlieue si smarca dallo stereotipo cucitole addosso dal cinema francese (quello de L’odio di Mathieu Kassovitz, per intenderci) per farsi luogo tanto astratto e asettico negli esterni quanto caotico e asfittico negli interni. La claustrofobia dei primi piani, dei dettagli, dei grandangoli, non è altro che una trasposizione poetica della difficoltà di Dheepan di “abitare” la sua nuova identità. L’esterno reale dell’appartamento diventa così esterno mentale, e la delimitazione e la difesa di un territorio assumono, in questo senso, un forte connotato prossemico.

Guardando al cinema di Sam Peckinpah, in Dheepan la violenza non solo si autogenera, ma trova in sé contemporaneamente la causa e la conseguenza della propria esistenza. Il coinvolgimento più profondo (e la tesi più audace) del cinema di Audiard sta tutto qui: indagare il rapporto individuo-società in termini di violenza. È la violenza che offre al personaggio le occasioni e gli strumenti per ritagliarsi un proprio spazio nel mondo. La costrizione sociale diventa costrizione interiore, violenta e cieca barbarie che il protagonista affronta volontariamente e coscientemente.

Prendendo in prestito stilemi e tecniche di racconto di certo cinema engagé, Audiard ne stravolge i presupposti e costruisce un potente action movie che non abdica all’istanza politica ma la rafforza. I personaggi di Dheepan non sono né vittime né carnefici: sono prima di tutto uomini soli, frustrati, sofferenti, ognuno con il proprio passato e le proprie colpe da estirpare, ognuno con la propria battaglia personale da combattere.

 
Dheepan – Una nuova vita
cast cast & credits
 


La locandina del film




 
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