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Tre teste per un’“Aida”

di Paolo Patrizi
  Aida
Data di pubblicazione su web 07/10/2015  

Si convogliarono tre teste, un lustro fa, per dar vita a una nuova produzione di Aida alla Bayerische Staatsoper di Monaco. Al regista Christof Nel e al Dramaturg (figura tuttora inutilizzata dai teatri d’opera italiani) Olaf A. Schmitt si aggiunse, nella persona di Martina Jochem, una mente addetta alla konzeptionelle Beratung: ossia, grosso modo, alla “consulenza concettuale”. Il mito del Konzept, inteso come griglia ermeneutica da costruire preliminarmente alla messinscena, è connaturato ai teatranti tedeschi: ma forse qui si è speculato un po’ troppo (nel senso sia di riflessione intellettuale sia di profitto dei soggetti coinvolti) in rapporto a un’opera come Aida, che non vuol trasmettere nulla più di quanto esprima la sua superficie, raccontando attraverso grande musica la vicenda di un amore contrastato dalla sorte e dagli uomini. Tuttavia, se dal 2009 quest’allestimento resta tra i preferiti dal pubblico monacense, e tuttora lo si continua a riprendere con qualche appetibile tassello in più (nella fattispecie l’arrivo di Jonas Kaufmann quale Radames), ci sarà un perché; oppure – chissà? – siamo proprio noi italiani, dopo decenni di Aide “areniane”, a non saper cogliere più nulla di quest’opera al di fuori della sua esteriorità.

Sta di fatto, però, che scorgere in Aida – come fanno gli autori di questo spettacolo – una sorta di manifesto antimperialista appare in collisione con la natura dell’opera di Verdi e Ghislanzoni, che è d’indole celebrativa (nacque con l’intento di solennizzare l’apertura del Canale di Suez) e tutt’altro che “politicamente scorretta” (la committenza arrivò grazie a una rete di relazioni diplomatiche con il Khedivè d’Egitto). Pure la trasformazione della religione in braccio armato del potere – tema, quest’ultimo, obiettivamente verdiano – si traduce in una forzatura, perché Ramfis qui è un sacerdote troppo platealmente violento, perdendo quella ieratica efferatezza che tanto più, invece, lo rende temibile. E se il j’accuse di Nel e dei suoi collaboratori contro ogni espansionismo si estrinseca in una visualità cruenta potenzialmente di forte impatto (perfino il programma di sala, che la Bayerische Staatsoper concepisce come prodotto editoriale emanato dalla drammaturgia dello spettacolo, è sporco di sangue), sulla distanza tutto viene tradotto in una sorta di violenza estetizzante, che rende la narrazione più statica che dinamica.

Foto di Martin Pfeil e Barbara Burgdorf
Un momento dello spettacolo
© Martin Pfeil e Barbara Burgdof

Ad avvantaggiarsi da una simile lettura sono invece i balletti, che il coreografo Valenti Rocamora i Torà traduce in altrettanti esempi di sopraffazione, ora femminile (quelli nell’appartamento di Amneris) ora maschile (nella scena del trionfo). Quest’ultima, d’altronde, è il momento più riuscito dello spettacolo, e non certo perché incline al kolossal: sfruttando la scenografia girevole di Jens Kilian – a mezza strada tra il moderno e il senza tempo, algida e stilizzata comunque – il regista riesce a dipanare la più pletorica scena di massa del nostro melodramma liberandosi dall’affastellata “orizzontalità” delle messe in scena tradizionali, avvicendando più spazi continuamente ruotanti. E mentre l’apoteosi dei vincitori viene contrappuntata da stupri e sbudellamenti a danno dei vinti, il trionfatore Radames si aggira come un’anima in pena tra le macerie lasciate da quella glorificazione, prostrato non dalla lotta ma dall’orrore.

Gli interpreti sono tutti molto compenetrati: Kaufmann è così “dentro” allo spettacolo da stentare a credere che quest’allestimento sia nato, cinque anni fa, per un altro tenore. E, proprio come la regia di Nel, la sua è una di quelle prove right or wrong, da prendere o lasciare. Esordisce con un Celeste Aida dove si può ammirare l’icasticità di una linea vocale che, in nome dell’espressività, è disposta a un’eterodossia incurante dei confini con il malcanto: peccato, però, che tale linea di frontiera qui sia davvero pericolosamente vicina. Più che dibattere sull’abilità dell’artista e sui limiti (tecnici o naturali) del vocalista, c’è da prendere atto come il canto all’italiana abbia esigenze diverse dal Fidelio e dal Parsifal, dove Kaufmann ha saputo virare in pregio i suoi difetti. Mentre ascoltare l’attacco di Celeste Aida con il suo accattivante timbro scuro e baritenorile, poi però subito virato in mezzevoci che sono falsetti pallidissimi, dà l’idea di una vera e propria dissociazione canora. E sebbene pure Radames sia un personaggio scisso in due (qui il cuore, là il dovere), l’idea di esiziale disomogeneità resta. 

Un momento dello spettacolo
Un momento dello spettacolo
© Martin Pfeil e Barbara Burgdof

Più avanti, invece, Kaufmann ha buon gioco nel far valere la sua calda comunicatività, una certa vena antieroica, l’idea di un Verdi più fraseggiato che cantato all’interno, però, di una civiltà vocale abbastanza estranea alla “parola scenica” verdiana. Cresce insomma di atto in atto, d’altronde al pari di Anna Smirnova (Amneris di grinta generica nello scontro con Aida, ma latrice di un ultimo atto emozionante e dalla tenuta vocale saldissima) e Franco Vassallo (Amonasro un po’ pallido nella perorazione iniziale, ma poi autorevole e insinuante nella giusta miscela). Mentre non ha bisogno di crescere, perché impeccabile dall’inizio alla fine, la protagonista Krassimira Stoyanova: Aida sensibilissima, di un ventaglio dinamico variegato nelle intenzioni come negli esiti (anche il suo mezzoforte ha la soavità di una mezzavoce) e capace di felici illuminazioni espressive (la domanda «E qual sentier?» fatta a Radames con voce tremante, proprio con la consapevolezza di perpetrare un tradimento).

Deludono invece i due bassi: Ain Anger, in linea con la lettura che dà il regista del personaggio di Ramfis, sfodera un canto aggressivo ai limiti dello scomposto, mentre Marco Spotti si lascia sfuggire i brevi primi piani che Verdi accorda al Faraone. A pareggiare il conto, però, provvede la giovane Anna Rajah, che s’impone nei pochi minuti che la vedono in scena, restituendo tutta la remota malia del canto della sacerdotessa. Tuttavia, se quest’Aida riesce a proporsi – nel bene o nel male – come alternativa alle letture più prevedibili e tradizionali, il merito è soprattutto dell’orchestra della Bayerische Staatsoper, del suo coro e, soprattutto, della bacchetta.

Dan Ettinger non è un divo del podio: ma lo star-system conta poco quando, come in questo caso, l’ascolto di un’opera logorata dall’uso e dall’abuso – Aida è tale – lascia dischiudere orizzonti inediti o, almeno, da tempo rimossi. Non è solo questione di privilegiare il versante intimistico rispetto a quello ridondante, né di anteporre una concertazione lirica a una visione più spiccatamente drammatica. È la sottigliezza dei dettagli strumentali (senza però alcuna diluizione calligrafica), la precisione delle scelte agogiche, la capacità di restituire – trasfigurati – echi del gregoriano nel canto dei sacerdoti durante il quadro del giudizio (dove Verdi lamentava con Ghislanzoni che, nel libretto, «i preti non sono abbastanza preti»…) a far di questa lettura musicale un’Aida da meditare. Più di qualunque rilettura registica, drammaturgica e concettuale.



Aida
Opera in quattro atti


cast cast & credits
 
trama trama

Foto di Martin Pfeil e Barbara Burgdorf
Krassimira Stoyanova (Aida)
© Martin Pfeil e Barbara Burgdorf

Foto di Martin Pfeil e Barbara Burgdorf
Jonas Kaufmann (Radames)
© Martin Pfeil e Barbara Burgdorf

 
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