Si convogliarono tre teste, un lustro fa, per dar vita a una nuova produzione di Aida alla Bayerische Staatsoper di Monaco. Al regista Christof Nel e al Dramaturg (figura tuttora inutilizzata dai teatri dopera italiani) Olaf A. Schmitt si aggiunse, nella persona di Martina Jochem, una mente addetta alla konzeptionelle Beratung: ossia, grosso modo, alla “consulenza concettuale”. Il mito del Konzept, inteso come griglia ermeneutica da costruire preliminarmente alla messinscena, è connaturato ai teatranti tedeschi: ma forse qui si è speculato un po troppo (nel senso sia di riflessione intellettuale sia di profitto dei soggetti coinvolti) in rapporto a unopera come Aida, che non vuol trasmettere nulla più di quanto esprima la sua superficie, raccontando attraverso grande musica la vicenda di un amore contrastato dalla sorte e dagli uomini. Tuttavia, se dal 2009 questallestimento resta tra i preferiti dal pubblico monacense, e tuttora lo si continua a riprendere con qualche appetibile tassello in più (nella fattispecie larrivo di Jonas Kaufmann quale Radames), ci sarà un perché; oppure – chissà? – siamo proprio noi italiani, dopo decenni di Aide “areniane”, a non saper cogliere più nulla di questopera al di fuori della sua esteriorità.
Sta di fatto, però, che scorgere in Aida –
come fanno gli autori di questo spettacolo – una sorta di manifesto
antimperialista appare in collisione con la natura dellopera di Verdi e Ghislanzoni, che è dindole celebrativa (nacque con lintento di
solennizzare lapertura del Canale di Suez) e tuttaltro che “politicamente
scorretta” (la committenza arrivò grazie a una rete di relazioni diplomatiche
con il Khedivè dEgitto). Pure la trasformazione della religione in braccio
armato del potere – tema, questultimo, obiettivamente verdiano – si traduce in
una forzatura, perché Ramfis qui è un sacerdote troppo platealmente violento,
perdendo quella ieratica efferatezza che tanto più, invece, lo rende temibile. E
se il jaccuse di Nel e dei suoi collaboratori contro ogni espansionismo
si estrinseca in una visualità cruenta potenzialmente di forte impatto (perfino
il programma di sala, che la Bayerische Staatsoper concepisce come prodotto
editoriale emanato dalla drammaturgia dello spettacolo, è sporco di sangue),
sulla distanza tutto viene tradotto in una sorta di violenza estetizzante, che
rende la narrazione più statica che dinamica.
Un momento dello spettacolo
© Martin Pfeil e Barbara Burgdof Ad avvantaggiarsi da una simile lettura sono invece
i balletti, che il coreografo Valenti
Rocamora i Torà traduce in altrettanti esempi di sopraffazione, ora
femminile (quelli nellappartamento di Amneris) ora maschile (nella scena del
trionfo). Questultima, daltronde, è il momento più riuscito dello spettacolo,
e non certo perché incline al kolossal: sfruttando la scenografia
girevole di Jens Kilian – a mezza strada tra il moderno
e il senza tempo, algida e stilizzata comunque – il regista riesce a dipanare
la più pletorica scena di massa del nostro melodramma liberandosi
dallaffastellata “orizzontalità” delle messe in scena tradizionali,
avvicendando più spazi continuamente ruotanti. E mentre lapoteosi dei
vincitori viene contrappuntata da stupri e sbudellamenti a danno dei vinti, il
trionfatore Radames si aggira come unanima in pena tra le macerie lasciate da
quella glorificazione, prostrato non dalla lotta ma dallorrore.
Gli interpreti sono tutti molto compenetrati: Kaufmann
è così “dentro” allo spettacolo da stentare a credere che questallestimento
sia nato, cinque anni fa, per un altro tenore. E, proprio come la regia di Nel,
la sua è una di quelle prove right or wrong, da prendere o lasciare.
Esordisce con un Celeste Aida dove si può ammirare licasticità di una linea
vocale che, in nome dellespressività, è disposta a uneterodossia incurante
dei confini con il malcanto: peccato, però, che tale linea di frontiera qui sia
davvero pericolosamente vicina. Più che dibattere sullabilità dellartista e
sui limiti (tecnici o naturali) del vocalista, cè da prendere atto come il
canto allitaliana abbia esigenze diverse dal Fidelio e dal Parsifal,
dove Kaufmann ha saputo virare in pregio i suoi difetti. Mentre ascoltare lattacco
di Celeste Aida con il suo accattivante timbro scuro e
baritenorile, poi però subito virato in mezzevoci che sono falsetti
pallidissimi, dà lidea di una vera e propria dissociazione canora. E sebbene pure
Radames sia un personaggio scisso in due (qui il cuore, là il dovere), lidea
di esiziale disomogeneità resta.
Un momento dello spettacolo © Martin Pfeil e Barbara Burgdof Più avanti, invece, Kaufmann ha buon gioco nel far
valere la sua calda comunicatività, una certa vena antieroica, lidea di un
Verdi più fraseggiato che cantato allinterno, però, di una civiltà vocale
abbastanza estranea alla “parola scenica” verdiana. Cresce insomma di atto in atto,
daltronde al pari di Anna Smirnova (Amneris di grinta generica
nello scontro con Aida, ma latrice di un ultimo atto emozionante e dalla tenuta
vocale saldissima) e Franco Vassallo (Amonasro un po pallido nella
perorazione iniziale, ma poi autorevole e insinuante nella giusta miscela).
Mentre non ha bisogno di crescere, perché impeccabile dallinizio alla fine, la
protagonista Krassimira Stoyanova: Aida sensibilissima, di un
ventaglio dinamico variegato nelle intenzioni come negli esiti (anche il suo
mezzoforte ha la soavità di una mezzavoce) e capace di felici illuminazioni
espressive (la domanda «E qual sentier?» fatta a Radames con voce tremante,
proprio con la consapevolezza di perpetrare un tradimento).
Deludono invece i due bassi: Ain Anger, in linea con
la lettura che dà il regista del personaggio di Ramfis, sfodera un canto
aggressivo ai limiti dello scomposto, mentre Marco Spotti si lascia
sfuggire i brevi primi piani che Verdi accorda al Faraone. A pareggiare il
conto, però, provvede la giovane Anna
Rajah, che simpone nei pochi minuti
che la vedono in scena, restituendo tutta la remota malia del canto della
sacerdotessa. Tuttavia, se questAida riesce a proporsi – nel bene o nel
male – come alternativa alle letture più prevedibili e tradizionali, il merito
è soprattutto dellorchestra della Bayerische Staatsoper, del suo coro e,
soprattutto, della bacchetta.
Dan Ettinger non è un divo del podio: ma lo star-system conta poco
quando, come in questo caso, lascolto di unopera logorata dalluso e
dallabuso – Aida è tale – lascia dischiudere orizzonti inediti o,
almeno, da tempo rimossi. Non è solo questione di privilegiare il versante
intimistico rispetto a quello ridondante, né di anteporre una concertazione lirica
a una visione più spiccatamente drammatica. È la sottigliezza dei dettagli
strumentali (senza però alcuna diluizione calligrafica), la precisione delle
scelte agogiche, la capacità di restituire – trasfigurati – echi del gregoriano
nel canto dei sacerdoti durante il quadro del giudizio (dove Verdi lamentava
con Ghislanzoni che, nel libretto, «i preti non sono abbastanza preti»…) a far
di questa lettura musicale unAida da meditare. Più di qualunque rilettura
registica, drammaturgica e concettuale.
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Aida
Opera in quattro atti
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Krassimira Stoyanova (Aida) © Martin Pfeil e Barbara Burgdorf
Jonas Kaufmann (Radames)
© Martin Pfeil e Barbara Burgdorf
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